L’autore esamina la sentenza delle Sezioni unite alla luce delle recenti modifiche in materia di impugnazioni. All’esito di tale analisi condivide l’esegesi della Suprema Corte, che soddisfa sia le esigenze di speditezza e semplificazione della procedura, sia il diritto di difesa dei soggetti coinvolti.
The Author examine the Joint Chambers’ decision from the appellate remedies’ recent modifications standpoint. After the analysis, he share the Supreme Court interpretations, which fulfils speedy trials’ and procedure semplification’s needs, together with defence rights of the involved people.
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Premessa - Il contrasto - La soluzione delle Sezioni Unite - Considerazioni conclusive - NOTE
«La consapevolezza che le decisioni possono essere inficiate da errori o da vizi ha suggerito al legislatore di prevedere degli strumenti di controllo delle stesse» [1]. Nel codice vigente, ai “classici” strumenti di impugnazione – appello, ricorso per cassazione, revisione – che si pongono su una linea di continuità con le precedenti esperienze normative, si sono affiancati ulteriori rimedi finalizzati a censurare altre tipologie di decisioni [2]. Tali innovazioni, tuttavia, si sono rivelate inadeguate al punto che, con il trascorrere del tempo, si è avvertita l’esigenza di ampliare ulteriormente il catalogo dei controlli, sia attraverso l’adeguamento dei mezzi esistenti [3] sia allestendone di nuovi [4]. Un colpo d’occhio sul codice di rito, nonostante siano trascorsi ormai trenta anni dalla sua entrata in vigore, restituisce l’immagine di un settore che non ha ancora raggiunto un punto di quiete, ma è agitato da una incessante attività, sia legislativa che interpretativa [5]. Soprattutto da quest’ultima prospettiva, si coglie uno dei problemi di maggiore complessità, determinato dalle difficoltà che la macchina giudiziaria incontra nello smaltimento dei carichi di lavoro in fase di impugnazione [6]. Qui, a complicazioni fisiologiche se ne aggiungono alcune di carattere patologico, che hanno origine, il più delle volte, nell’abuso dell’impugnazione, proposta non tanto per rimuovere un pregiudizio, ma, piuttosto, per fini dilatori. In via pretoria, pertanto, è andata consolidandosi la tendenza, assecondata poi dal legislatore, ad elaborare soluzioni per la deflazione dei ruoli. I risultati di questa tendenza sono rappresentati, in chiave preventiva, da una serie di limitazioni e filtri che restringono l’accesso al grado di impugnazione [7], per espellere rapidamente dal circuito processuale le impugnazioni pretestuose e, in chiave “repressiva”, da interpretazioni che impediscono di trarre vantaggio da un uso distorto dei rimedi [8] e dall’introduzione di congegni di dissuasione dell’impugnante temerario [9]. In questo scenario si rinviene la chiave di lettura per collocare la sentenza in rassegna nella magmatica materia delle impugnazioni penali e per verificare se in questa pronuncia la Suprema Corte è coerente con le [continua ..]
Tra le disposizioni che mirano a snellire le procedure per la declaratoria di inammissibilità compare, sin dalla formulazione originaria del codice, il comma 9 dell’art. 127 c.p.p. [10]. Questa previsione, qualora non sia diversamente stabilito, consente al giudice, derogando rispetto alla disciplina contenuta nei commi precedenti del medesimo articolo [11], di evitare gli adempimenti – peraltro non particolarmente complessi – che instaurano il contraddittorio e di pronunciare la declaratoria di inammissibilità dell’atto introduttivo con una ordinanza assunta senza formalità di procedura, ossia de plano [12]. La sentenza in rassegna, quindi, permette di focalizzare l’attenzione verso questo meccanismo, non soltanto nella sua declinazione nel procedimento cautelare de societate, ma soprattutto in una prospettiva più ampia: se i richiami normativi che hanno origine nell’art. 52, comma 1, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 – previsione dedicata ai mezzi di impugnazione cautelari – comprendono anche l’art. 127 c.p.p., muovendo da tale conclusione si può pervenire all’applicazione del principio di diritto enunciato a tutte le procedure di impugnazione cautelare, che nell’archetipo del rito camerale trovano la disciplina del loro incedere [13]. Dunque, la Sesta sezione, nel rimettere la questione alle Sezioni unite, ha rappresentato l’esistenza di un risalente contrasto giurisprudenziale circa le condizioni che permettono di dichiarare l’inammissibilità dell’atto di impugnazione prescindendo dall’intervento delle parti [14]. In altre parole, la giurisprudenza si presentava ostinatamente divisa nell’individuazione delle situazioni nelle quali era possibile applicare il nono comma dell’art. 127 c.p.p. [15]. A un indirizzo che restringeva fortemente il campo d’applicazione della norma, e affermava che l’inammissibilità può essere dichiarata soltanto a seguito dell’intervento delle parti [16], se ne contrapponeva un altro che, con argomentare affatto antitetico, faceva uso della declaratoria de plano per reprimere qualsiasi vizio dell’atto introduttivo del procedimento [17]. Se la prima lettura valorizza la “costituzionalizzazione” del principio del contraddittorio, contenuto nell’art. 111 Cost., l’altra, [continua ..]
Le origini del contrasto, con ogni probabilità, possono essere individuate nella laconica formulazione del nono comma dell’art. 127 c.p.p. che, diversamente da altri meccanismi procedimentali che svolgono una analoga funzione deflattiva, non descrive le condizioni in presenza delle quali è consentito escludere l’interlocuzione con le parti prima di dichiarare l’inammissibilità dell’atto introduttivo [19]. Nel dirimere la controversia, in via di premessa, la Corte ha ribadito un principio costante e, soprattutto, coerente con le previsioni di rango costituzionale e sovranazionale, puntualizzando che lo snellimento delle procedure che esitano nella declaratoria di inammissibilità non contrasta con il principio sancito dall’art. 111 Cost. né con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo circa il diritto all’accesso a un tribunale [20]. A tale affermazione, tuttavia, segue immediatamente la precisazione che simili compressioni sono accettabili soltanto qualora la decisione sull’inammissibilità sia di pronta soluzione ovvero attenga esclusivamente a profili formali [21]. In altre parole, la declaratoria de plano dell’inammissibilità entra in rotta di collisione con il principio del contraddittorio quando siano da valutare aspetti più complessi, che richiedono un approfondimento maggiore e per questa ragione non possono prescindere dall’intervento delle parti. Il caso emblematico è quello della verifica circa la permanenza dell’interesse a impugnare e gli effetti che scaturiscono da un eventuale esito negativo. La questione, prima di raggiungere uno stabile approdo, ha agitato a lungo la giurisprudenza di legittimità e i precedenti in materia hanno orientato il convincimento delle Sezioni unite. La sentenza in rassegna, infatti, replica l’insegnamento sull’interesse a impugnare impartito dal vertice della Suprema Corte a più riprese [22] – sia con riguardo alle coercizioni personali [23], sia con riguardo ai vincoli reali [24] – e lo applica alle misure cautelari che colpiscono l’ente-imputato. In effetti, la situazione nella quale si trova colui che sia stato restituito alla libertà ma intenda ancora verificare la legalità del titolo patito è assimilabile a quella nella quale versa l’ente nei [continua ..]
A questo punto, si può provare a collocare la regola enunciata nel contesto descritto in premessa. Il primo controllo è sul rapporto tra il principio di diritto e le recenti modifiche legislative tese a semplificare la declaratoria di inammissibilità. Qui, il più immediato riferimento è la nuova procedura descritta dal comma 5-bis dell’art. 610 c.p.p., indicata anche dalle Sezioni unite quale paradigma per distinguere le cause di inammissibilità ai fini della declaratoria de plano [27]. Tale disposizione permette alla Suprema Corte di dichiarare l’inammissibilità del ricorso con procedura non partecipata in caso di rinuncia all’impugnazione o qualora l’atto presenti difetti che attengono alla carenza di legittimazione, all’inoppugnabilità del provvedimento, all’inosservanza delle previsioni in materia di presentazione, di spedizione e termini per l’impugnazione. Il meccanismo in questione, quindi, non può attivarsi al di fuori di queste ipotesi, per dichiarare, ad esempio, l’inammissibilità determinata da carenza di interesse all’impugnazione, originaria o sopravvenuta. Da questa suddivisione si evince che il legislatore ha fatto riferimento alla tradizionale distinzione tra cause di inammissibilità formale e cause di inammissibilità sostanziale, richiamata anche dalla Suprema Corte quale criterio discretivo per la corretta individuazione del percorso procedimentale [28]. Sul punto, poiché l’adozione di forme semplificate per definire controversie di pronta soluzione rappresenta una costante nell’ordinamento processuale penale, si può concludere che la sentenza non si discosta dalla consolidata impostazione legislativa e giurisprudenziale [29]. Il secondo controllo, volgendo lo sguardo alla dimensione costituzionale della questione, è sulla coerenza tra questa interpretazione e le omologhe impostazioni codicistiche con i principi della Carta fondamentale. Collocando il problema in questa dimensione, emerge che, ancora una volta, a dar vita a letture contrastanti del dato normativo è lo scontro tra due differenti visioni dell’assetto processuale: la prima che privilegia la salvaguardia della struttura triadica del procedimento, la seconda che ritiene questa sacrificabile, in talune situazioni, in nome del differente principio [continua ..]