Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo leggi articolo leggi fascicolo


Violazione dei diritti dell'equo processo e loro applicabilità d'ufficio nel giudizio di cassazione


CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 20 MARZO 2015, N. 11648 – PRES. FIALE; REL. DI NICOLA

Qualora la Corte di cassazione accerti, nonostante non sia stata oggetto di specifico motivo di ricorso, la violazione dei diritti dell’equo processo, questi vanno ugualmente applicati, anche d’ufficio, al caso in esame (fattispecie relativa a omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello che aveva riformato in peius la decisione di assoluzione di primo grado).

[Omissis]

RITENUTO IN FATTO

 

1. È impugnata la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Bologna – in riforma della pronuncia assolutoria emessa, a seguito di rito abbreviato, dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Parma – ha condannato, concessa l’attenuante prevista dall’art. 609-bis, comma 3, c.p. P.F. alla pena, condizionalmente sospesa, di anni 2 di reclusione (oltre alla pena accessoria e al risarcimento civile dei danni), avendolo ritenuto responsabile del delitto previsto dall’art. 609-bis c.p., perché, a bordo dell’autobus TEP, linea 15 di cui era autista, costringeva C.M. a subire atti sessuali ed in particolare, attribuendosi specifiche conoscenze per alleviare il mal di schiena, mentre stava praticando un massaggio (al di sopra della maglietta) alla schiena della C., con violenza consistita nel bloccarle le mani, infilava le proprie al di sotto della maglia toccandole il seno destro e, successivamente, in modo repentino, infilava la mano all’interno del pantalone toccandole la zona pubica ed introducendo un dito nella vagina, tentando infine di baciare la vittima.

1.1. La Corte distrettuale è pervenuta alla suddetta conclusione dopo aver dato conto delle rationes decidendi della sentenza di primo grado e condiviso totalmente i motivi di impugnazione proposti dal Procuratore generale contro di essa, affermando che la versione della persona offesa, peraltro neppure posta in discussione dal G.u.p., fosse intrinsecamente ed estrinsecamente attendibile sul rilievo che la C. aveva riferito, nell’immediatezza dei fatti ed a fonti diverse, la patita violenza sessuale, descrivendola negli stessi termini, nei vari momenti e nelle varie sedi.

La vittima inoltre non aveva alcun interesse o ragione per accusare un soggetto che non conosceva, se non di vista, e di cui non sapeva neppure il nome, tanto che il fidanzato (T.A.), anch’egli conducente di autobus ed al quale la persona offesa aveva immediatamente riferito il fatto, era stato indotto a chiedere al proprio ufficio notizie, tratte sulla base dei turni di lavoro, circa la persona del conducente del mezzo dove aveva viaggiato la C.

L’accusa era poi caduta su un soggetto che, come affermato dai responsabili dell’azienda, sentiti come testi, aveva in corso un procedimento disciplinare per fatti analoghi ed era sottoposto, per la stessa ragione, a procedimento penale (agli atti del processo era stata acquisita la copia della sentenza con la quale il P. era stato condannato, in primo grado, in relazione al delitto di cui all’art. 609-bis c.p. poiché, sull’autobus di cui era autista, in violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio, costringeva con violenza Pi.El. a subire atti sessuali; infatti, contro la volontà di quest’ultima, dopo averle bloccato le mani e aver messo una mano sotto la sua maglia, le toccava la pancia ed i fianchi; inoltre dopo aver tentato di baciarla sulla bocca, riusciva a baciarla sul collo e su una guancia, dicendole: “dammi un bacio altrimenti non parto”, in (Omissis).

1.2. La Corte d’appello ha ritenuto tale ultimo dato provvisto di indubbia e risolutiva rilevanza perché, se anche fosse giunta voce alla C. che un collega del fidanzato, tal P., cinque anni prima era stato accusato di molestie sessuali, conoscenza di cui non vi era la benché minima prova, era processualmente risultato che, quando la vittima rivolse le accuse nei confronti dell’autista della linea 15, ella non sapeva trattarsi del P., circostanza che apprese solo dopo che il T. si era informato presso i propri uffici; soprattutto, mai avrebbe potuto conoscere le modalità del fatto in precedenza ascritto all’imputato, del tutto simile a quello per il quale si procedeva, di tal che le similitudini comportamentali che caratterizzavano le due diverse vicende, nel racconto delle rispettive parti lese, non potevano che essere lette come definitiva conferma della veridicità della denuncia della C.

Secondo la Corte territoriale siffatto quadro già da solo avrebbe consentito di attribuire piena credibilità alla versione della C., sicché andava censurato l’approdo cui era pervenuto il primo Giudice il quale, senza neppure considerare taluni riscontri alle dichiarazioni della persona offesa provenienti dallo stesso imputato, si era limitato a contrapporre alla chiara versione della vittima la mera negativa del P., la cui versione avrebbe trovato, secondo il G.u.p., conforto esterno nelle dichiarazioni di due cittadine rumene (le sorelle R.C. e S.), dichiarazioni che lo stesso giudicante aveva valutato non prive di “qualche elemento di ombra”.

1.3. Le due ragazze – sentite dapprima dal difensore dell’imputato ai sensi dell’art. 391-ter c.p.p., poi dalla polizia giudiziaria e infine dal G.u.p. nel corso del giudizio abbreviato – avevano riferito, secondo il giudice d’appello “con un diverso grado di precisione e di dettaglio”, di essersi trovate sull’autobus numero 15 in data (Omissis), intorno alle 14.30; di essere salite sul mezzo in piazzale (Omissis), ove si trovava l’abitazione di S., e di essere scese al capolinea di via (Omissis), ove avrebbero dovuto prendere l’autobus numero 12 sino a (Omissis); C. si era fermata nella parte anteriore del mezzo, accanto all’autista, aveva scambiato con lui alcune parole e gli aveva lasciato un bigliettino con il suo numero di telefono. Entrambe le ragazze avevano riferito che al capolinea di via (Omissis) erano le uniche passeggere ad essere rimaste sull’autobus, dal quale erano scese ed avevano atteso a lungo la coincidenza per (Omissis), attesa determinata, a dire delle due donne, da una modifica degli orari dei bus.

1.4. Le predette dichiarazioni, anche a prescindere dal tema della loro attendibilità, sono state ritenute dalla Corte felsinea sfornite di prova circa il fatto che il giorno in cui, a dire delle dichiaranti, esse sarebbero salite sull’autobus condotto dal P., fosse proprio il 2 luglio; quanto a C., sentita per la prima volta a sommarie informazioni testimoniali dalla difesa di P., la Corte d’appello ha osservato che la dichiarazione si apriva con la domanda del difensore “lei ricorda se il giorno (Omissis), utilizzò la linea 15 dell’autobus TEP a Parma”, così dando per scontato che si stesse parlando di un fatto accaduto per l’appunto il (Omissis), con la conseguenza che la evidente suggestività della domanda aveva, di fatto, compromesso la genuinità delle risposte che la teste era stata poi chiamata in seguito a fornire sullo specifico punto del giorno in cui l’episodio da lei riferito si sarebbe verificato.

Peraltro, la sorella, cioè colei che stabilmente si serviva della linea 15, scendendo in via (Omissis) per poi salire sull’autobus della linea 12, per raggiungere il posto di lavoro, presso una famiglia di (Omissis), aveva reiteratamente ribadito di non ricordare il giorno esatto, risultando in tal modo difficile contrastare la versione della parte offesa su un dato rimasto, anche in esito all’approfondimento istruttorio disposto dal G.u.p., incerto.

Del resto, è apparsa alla Corte di merito inverosimile la circostanza che proprio nell’arco temporale, peraltro assai ristretto (dalle ore 14.35 alle ore 14.40 circa) – in cui l’imputato si sarebbe reso responsabile della denunciata violenza sessuale ai danni della C. – certamente presente sull’autobus della linea 15, nella corsa in partenza dal capolinea (Omissis) alle ore 14.06 ed in arrivo al capolinea di via (Omissis) alle ore 14.37, per averlo ammesso lo stesso imputato – una giovane ragazza moldava, mai vista né conosciuta in precedenza, attaccava bottone con lui, intrattenendolo una conversazione sull’afa, lasciandogli, dopo non più di cinque minuti di scambi di battute, il proprio numero di telefono, risultato così provvidenzialmente utile per contrastare le accuse rivoltegli dalla C.

1.5. Da ciò il rilievo circa l’inidoneità delle dichiarazioni delle due ragazze a incrinare la credibilità della vittima in quanto, se vero che la versione di quest’ultima non poteva coesistere con quella delle sorelle R., era comunque ipotizzabile che le R. avessero scientemente mentito per aiutare P. o che l’episodio da loro riferito fosse accaduto in un giorno diverso dal (Omissis) o in orario diverso da quello delle 14.30/14.40, essendo processualmente risultato che l’imputato, quello stesso pomeriggio, aveva effettuato il medesimo percorso, una seconda volta, tra le 15,52 e le ore 15,58.

2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza, ricorre per cassazione, tramite il difensore, P.F. affidando il gravame a cinque articolati motivi.

 

[Omissis]

 

2.4. Con il quarto motivo, deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. per la contraddittorietà, la manifesta illogicità e la carenza di motivazione della sentenza su un punto decisivo per il giudizio costituito dal ritenuto mancato riscontro fornito dalle sorelle R. alla versione dell’imputato.

Si argomenta come la sentenza della Corte distrettuale affronti tale decisiva questione premettendo un’affermazione nettissima circa il fatto che, quanto alle dichiarazioni rese dalle sorelle R. ed anche a prescindere dal tema della loro attendibilità, non vi sarebbe alcuna prova che il giorno in cui le stesse sarebbero salite, a loro dire, sull’autobus condotto dal P., fosse proprio il (Omissis).

Ricorda sul punto il ricorrente come le dichiaranti abbiano reso plurime deposizioni e che il G.u.p., disponendone d’ufficio l’audizione, ne volle saggiare precisione, coerenza e sincerità.

L’approfondimento istruttorio disposto in sede di giudizio abbreviato assume, secondo la prospettazione del ricorrente, un particolare rilievo anche ai fini della qualità della prova acquisita: in via diretta da parte del giudice e in contraddittorio tra le parti.

Tant’è che il G.u.p., tirando le somme sul punto decisivo delle dichiarazioni rese dalle sorelle R. e nonostante qualche ombra, ha affermato in sentenza che le due testimonianze si confermavano reciprocamente e presentavano una serie di dettagli su luoghi e tempi che conferivano alle stesse una peculiare consistenza. Né vi erano, per le due testimoni, elementi dai quali desumere la falsità della deposizione. Non risultava che conoscessero o avessero mai incontrato prima il P.; sono state sentite numerose volte, anche nel contraddittorio delle parti e non si sono mai contraddette; l’ipotesi che fossero state contattate per rendere una falsa testimonianza sull’accaduto presupponeva una assai improbabile convergenza di una serie di circostanze (tra le quali le coincidenze tra le fermate dell’autobus condotto dal P. ed i luoghi di abitazione e di lavoro delle ragazze, i giorni, gli orari dei bus) difficilmente riscontrabile nella realtà.

Dato, poi, che la verifica degli orari e del personale, che si trovava alla guida dell’autobus numero 15 negli orari già indicati, aveva consentito di desumere che le tre donne non potevano trovarsi su due diverse corse del mezzo di trasporto, doveva concludersi nel senso di una insanabile divergenza tra le due diverse versioni dell’accaduto sicché, considerati anche gli elementi di ombra e di luce già evidenziati per entrambi i racconti, non era possibile addivenire con tranquillizzante certezza ad una pronuncia di responsabilità nei confronti del P. che, quindi, doveva essere mandato assolto, sia pure ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. dal reato ascrittogli.

 

[Omissis]

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

1. Il ricorso è fondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.

2. Con il quarto motivo di gravame, che non è stato spinto sino alle sue naturali conseguenze con la denuncia della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, C.E.D.U., il ricorrente sostanzialmente si duole del fatto che il Giudice d’appello ha diversamente valutato, rispetto al giudice di primo grado, le dichiarazioni rese dalle sorelle R. formando il proprio convincimento circa la loro inidoneità a neutralizzare la versione dichiarativa della persona offesa su base meramente cartolare e quindi valutando, per il tramite dell’atto scritto, le dichiarazioni rese dai testimoni innanzi al primo giudice, il quale invece si era formato l’opposto convincimento sulla base di una percezione diretta delle prove orali assunte nel contraddittorio tra le parti.

2.1. Questa Corte (Sez. III, 22 ottobre 2014, n. 1989, dep. 16 gennaio 2015, S., non mass.), seguendo un orientamento di legittimità già tracciato in precedenti arresti, ha affermato, alla luce delle decisioni assunte dalla Corte e.d.u. a partire dalla sentenza Dan c. Moldavia del 5 luglio 2011, che è violato l’art. 6 paragrafo 1, C.E.D.U. quando il Giudice d’appello non abbia, salvi i casi di impossibilità di ripetizione dell’atto o per altre gravi ragioni, sentito i testimoni e valutato la loro attendibilità in prima persona e ciò sul rilievo, desunto dalle pronunce del Giudice europeo, che “la valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che di solito non può essere soddisfatto da una semplice lettura delle sue dichiarazioni”.

È stato anche sottolineato, nella richiamata pronuncia di questa Sezione, come i Giudici europei abbiano fornito un’interpretazione del processo equo, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, precisando che le modalità di applicazione del principio convenzionale (del processo equo), nei procedimenti davanti le Corti d’appello nazionali, devono misurarsi con le caratteristiche specifiche della tipologia procedimentale del giudizio di impugnazione disegnato dai singoli Stati, nel senso che detto giudizio non deve necessariamente replicare le regole procedimentali del primo grado dovendosi perciò “tener conto dell’insieme del procedimento nell’ordinamento giuridico interno e del ruolo svolto dalla Corte d’appello” (C.e.d.u., Botten c. Norvegia, 19 febbraio 1996, p. 39), fermo restando tuttavia che “nel caso in cui, una Corte d’appello è chiamata ad esaminare i fatti e la legge e quindi a compiere una valutazione completa circa la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, non può, secondo i principi del giusto processo, correttamente giungere a decidere di tali questioni senza effettuare una valutazione diretta delle prove” (C.e.d.u., Popovic c. Moldavia, 27 novembre 2007; Id., Costantinescu c. Romania, 27 giugno 2000; Id., Marcos Barrios c. Spagna, 21 settembre 2010).

Tali principi sono stati successivamente ribaditi dalla Corte e.d.u. nelle procedure Manolachi c. Romania (ricorso n. 36605/04) sentenza 5 marzo 2013; Flueras c. Romania (ricorso n. 17520/04) sentenza 9 aprile 2013; Hanu c. Romania (ricorso n. 10890/04) sentenza 4 giugno 2013; e da ultimo Mischie c. Romania (ricorso n. 50224/07), sentenza 16 settembre 2014 con significative precisazioni.

2.2. In particolare, per quanto qui interessa, la sentenza Mischie ha ribadito che il Giudice di secondo grado deve procedere, nei casi di ribaltamento dell’esito del primo giudizio, all’assunzione delle prove orali anche d’ufficio ed ha perciò chiarito che non occorre una richiesta di parte per ottenere l’audizione dei testimoni (p. 39), dovendo il giudice d’appello prendere “misure positive a tal fine” (in tal senso anche la pronuncia Manolachi, citata, p. 50 nonché Hanu c. Romania, cit., p. 38, 4 giugno 2013).

È interessante notare come la Corte e.d.u., nel pervenire a tale conclusione, abbia nuovamente ricordato che dall’assenza di un’espressa richiesta di parte non possa desumersi una mancanza di interesse del ricorrente nel suo processo, giungendo, per questa via, a respingere l’eccezione di mancato esaurimento dei rimedi interni sollevata dal governo, il quale aveva sostenuto (p. 28) che il ricorrente non aveva chiesto ai giudici di disporre una nuova audizione dei testimoni, pur essendo stato posto nelle condizioni di poter utilizzare utilmente questa possibilità, tanto da essere stato ascoltato di persona da parte dei giudici, tra cui l’Alta Corte.

Si tratta di un orientamento che pone in crisi l’indirizzo autorevolmente espresso dalla Quinta Sezione di questa Corte secondo il quale non è rilevabile d’ufficio, in sede di giudizio di legittimità, la questione riferita alla violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come interpretato dalla sentenza della Corte e.d.u. del 5 luglio 2011, nel caso Dan c. Moldavia, questione che, secondo la richiamata pronuncia di questa Corte, dovrebbe essere fatta valere, ai sensi dell’art. 581 c.p.p., mediante illustrazione delle ragioni di fatto e di diritto a suo sostegno, specificandosi in motivazione che la scelta dell’imputato di non proporre richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale determina, altresì, l’impossibilità di attivare il rimedio C.E.D.U., il cui presupposto è la “consumazione” di tutti i rimedi del sistema processuale domestico (Sez. V, 20/11/2013, n. 51396, Basile ed altri, Rv. 257831), riaprendo dunque il problema se, in assenza di una specifica doglianza della parte interessata nei motivi di ricorso, la Corte di cassazione possa o meno rilevare d’ufficio la violazione dell’art. 6 C.E.D.U.. Va ricordato, sul punto, come la sentenza Trupiano (Sez. II, 25 febbraio 2014, n. 13233, rv. 258781) ed altre decisioni di questa Corte (per tutte, Sez. V, 7 maggio 2013, Marchetti, n. 28061, rv. 255580), pur non affrontando le tematiche poste dalla sentenza Basile, siano giunte ad affermare la rilevabilità d’ufficio nel giudizio di cassazione della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, C.E.D.U., epilogo recentemente ribadito dalla Seconda Sezione di questa Corte che ha affermato il principio secondo il quale è rilevabile di ufficio, anche in sede di giudizio di legittimità, la questione relativa alla violazione dell’art. 6 C.E.D.U., così come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c. Moldavia, posto che le decisioni di questa Autorità, quando evidenziano una situazione di oggettivo contrasto della normativa interna sostanziale con la Convenzione E.D.U., assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale sono state pronunciate (Sez. II, 10 ottobre 2014, n. 677, dep. 12 gennaio 2015, Di Vincenzo, rv. 261555).

Secondo il Collegio, occorre dare continuità a quest’ultimo indirizzo, dovendosi anche considerare come i Giudici europei abbiano più volte ribadito che la regola del previo esaurimento dei rimedi interni va applicata con flessibilità e senza eccessivo formalismo (Cardot c. Francia del 19 marzo 1991, serie A n. 200, 18, p. 34), non potendosene fare un’applicazione automatica in quanto tale regola non riveste un carattere assoluto ed essendo indispensabile, nel valutare se essa sia stata osservata, tener conto delle particolari circostanze del caso concreto (Van Oosterwijck c. Belgio del 6 novembre 1980, 18, p. 35).

Ne consegue che, al cospetto di pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già censurate in sede europea, la mancata proposizione di un motivo specifico di gravame, diretto a denunciare nel corso del processo la violazione del principio dell’equo processo, non può essere di ostacolo ad un intervento giurisdizionale teso ad eliminare, in itinere iudicii ed ex officio, una situazione di illegalità convenzionale che scaturisce dalla violazione del principio dell’equo processo, per di più anteriormente alla formazione del giudicato, essendo sufficiente che la parte interessata abbia comunque impugnato la decisione a lei sfavorevole affinché possa dirsi osservato, secondo la giurisprudenza della Corte e.d.u. (Mischie c. Romania – ricorso n. 50224/07 cit.), il requisito del previo esaurimento dei rimedi interni.

In altri termini, alla rilevabilità d’ufficio della violazione convenzionale è possibile pervenire in base ad un’interpretazione dell’art. 609, comma 2, convenzionalmente conforme senza necessità che debba essere sollevata una questione di legittimità costituzionale della richiamata norma processuale in relazione all’art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui non prevede che la Corte di cassazione possa rilevare d’ufficio la violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea così come interpretata dai giudici di Strasburgo.

3. Ne consegue che la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, C.E.D.U. – pur non essendo stata oggetto di specifica censura, con i motivi di ricorso – può essere, nel caso in esame, rilevabile d’ufficio.

Quanto poi ai casi nei quali detta violazione si materializza, questa Corte ha chiarito che l’esigenza della rinnovazione del dibattimento per escutere, nel contraddittorio con l’imputato, i testimoni a carico deve essere stata agganciata alla decisività della prova orale da assumere e alla necessità avvertita dal giudice di appello di rivalutare l’attendibilità del teste (Sez. V, 25 settembre 2013, n. 47106, Donato e altro, rv. 257585).

È stato anche opportunamente chiarito, attraverso approdi interpretativi compatibili con il dictum dei Giudici europei in parte qua, che tale obbligo tuttavia non sussiste quando il giudice d’appello compia una diversa valutazione di prove non dichiarative, ma documentali (Sez. VI, 15 aprile 2014, n. 36179, Dragotta, rv. 260234; Sez. II, 25 febbraio 2014, n. 13233, Trupiano, rv. 258780), oppure quando il primo giudice non abbia negato l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni delle persone offese, ed egli, per affermare la penale responsabilità dell’imputato, si sia limitato a fornire una lettura coerente e logica del compendio probatorio palesemente travisato nella decisione impugnata (Sez. III, 18 settembre 2014, n. 45453, P., rv. 260867), con l’ulteriore precisazione che l’obbligo di rinnovare l’istruzione e di escutere nuovamente i dichiaranti, gravante sul giudice d’appello qualora valuti diversamente la loro attendibilità rispetto a quanto ritenuto in primo grado, costituisce espressione di un generale principio di immediatezza (Sez. II, 24 aprile 2014, n. 32619, P.g. in proc. Pipino e altro, rv. 260071).

In conclusione, nel caso di decisione di appello difforme da quella del giudice di primo grado, non è più sufficiente che la seconda sentenza sia logicamente più persuasiva della prima e che contenga un’adeguata confutazione delle ragioni poste a base della decisione riformata (requisiti che la sentenza impugnata ampiamente possiede) ma è necessario che, in base all’art. 6 C.E.D.U., così come interpretato dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nelle cause Dan c. MoldaviaManolachi c. RomaniaFlueras c. RomaniaHanu c. Romania e Mischie c. Romania, il giudice d’appello, qualora ribalti l’esito del primo giudizio pervenendo alla “reformatio in peius” della sentenza assolutoria di primo grado, deve assicurare il rispetto del principio dell’oralità, non essendo sufficiente l’instaurazione di un contraddittorio sulla prova dichiarativa cartolare, tutte le volte in cui il secondo giudice fondi il proprio convincimento su prove orali apprezzate in modo diverso dalla valutazione che di esse ne ha fatto il primo giudice; e così come quest’ultimo ha proceduto direttamente alla loro assunzione nel rispetto del principio del contraddittorio e del principio di oralità, allo stesso modo il secondo giudice deve rinnovare la prova orale non potendo adottare il contrario convincimento “senza effettuare una valutazione diretta delle prove” dovendo l’imputato avere, affinché il processo sia equo, “la possibilità di confrontarsi con i testimoni alla presenza di un giudice chiamato, alla fine, a decidere la causa, in quanto l’osservazione diretta da parte del giudice dell’atteggiamento e della credibilità di un determinato testimone può essere determinante per l’imputato”.

Come la stessa giurisprudenza europea ammette, il principio di oralità (anche da assicurare nel giudizio d’appello in caso di ribaltamento della prima decisione, nei termini sopra precisati), non è assoluto nel senso che può non trovare applicazione nei casi di impossibilità di ripetizione della prova (p. 33, Dan c. Moldavia, cit.), di particolare vulnerabilità del teste (come i minori) o di altre gravi ed eccezionali ragioni nella specie non sussistenti e neppure desumibili sulla base degli atti accessibili alla Corte.

4. Sicché appare fuori discussione come, nel caso in esame, il giudizio di penale responsabilità sia stato fondato su un diverso apprezzamento delle dichiarazioni delle sorelle R.

Tali dichiarazioni sono state stimate, su base meramente cartolare, come inidonee ad incrinare la credibilità della persona offesa e sono state ritenute dal Giudice d’appello, sulla base dei soli verbali di causa e senza la loro diretta assunzione, come dotate di “un diverso grado di precisione e di dettaglio”, contrariamente agli approdi cui era pervenuto il primo giudice che aveva disposto la diretta audizione e che aveva ritenuto che le due testimonianze si confermassero reciprocamente e presentassero una serie di dettagli su luoghi e tempi che conferivano alle stesse una peculiare consistenza.

È fondato dunque il rilievo formulato dal ricorrente secondo il quale l’approfondimento istruttorio disposto in sede di giudizio abbreviato aveva assunto un particolare spessore anche ai fini della qualità della prova acquisita: in via diretta da parte del giudice e in contraddittorio tra le parti.

Perciò la svalutazione delle dichiarazioni testimoniali a discarico, in assenza di una diretta assunzione di esse, ha rivestito, nell’economia della decisione, un ruolo decisivo per la condanna dell’im­pu­tato, posto che anche le ipotesi alternative – pur plausibili e attraverso le quali la Corte territoriale ha ritenuto autosufficiente, a prescindere dal dichiarato delle sorelle R., la narrazione della persona offesa e i riscontri su di essa acquisiti – sono state delineate in assenza della rinnovazione della prova orale, all’esito della quale, nel contraddittorio delle parti, le formulate ipotesi potevano risultare rafforzate, convalidando maggiormente la loro plausibilità, oppure smentite, ribaltando il convincimento fondato, invece, su basi meramente cartolari.

5. In definitiva, la penale responsabilità dell’imputato è stata affermata in violazione dell’art. 6 C.E.D.U. nell’interpretazione data dalla Corte e.d.u. e sopra richiamata, i cui principi, ai fini della celebrazione di un processo equo, vanno applicati, anche d’ufficio, nel caso in esame.

Da ciò deriva, assorbiti tutti i motivi di ricorso, l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna che – previa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con l’esame, se possibile, di R.C. e S. – procederà a nuovo giudizio.

 

[Omissis]