Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Sospensione condizionale della pena in appello: quale rimedio all´inerzia del giudice? (di Francesco Peroni)


Il saggio affronta il tema del potere del giudice d’appello di applicare d’ufficio la sospensione condizionale della pena. In dissenso dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione – secondo le quali il giudice d’appello, qualora non ritenga di applicare il beneficio, è tenuto a motivare al riguardo, senza però che l’interessato possa dolersene in cassazione – l’Autore qualifica la fattispecie come ipotesi di erronea applicazione della legge penale, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p.

Suspended sentence in appeal trial: what remedy to the inaction of the court of appeal?

The essay deals with the power of the court of appeal to apply the suspended sentence of her own motion. In disagreement with the Joint Chambers of the Court of Cassation – according to which the court of appeal, if does not consider to apply the benefit, is obliged to motivate in this regard, without however the interested party can be appeal by cassation – the Author qualifies the case as incorrect application of the criminal law, deductible in cassation pursuant to art. 606, paragraph 1, lett. b), c.p.p.

SOMMARIO:

Premessa - Il contrasto - La soluzione delle Sezioni Unite - L'inerzia del giudice d'appello: motivazione mancante o decisione assente? - NOTE


Premessa

Apparentemente confinata in un ambito normativo topograficamente angusto, la questione affrontata e risolta dalle Sezioni Unite mostra, a ben vedere, addentellati concettuali di ben maggiore respiro. Da un lato, infatti, viene in rilievo la fisionomia devolutiva del procedimento di appello, solo in parte riprodotta dal codificatore del 1988 sulla falsariga del precedente impianto normativo; dall’altro, si tratta di motivazione del giudizio, in relazione al dispositivo sanzionatorio, con quanto ciò comporta in termini di vincoli sovraordinati. In siffatta cornice, perno del percorso argomentativo del Supremo Collegio è il dettato dell’art. 597, comma 5, c.p.p., nella parte in cui attribuisce al giudice di seconde cure la potestà di provvedere d’ufficio, in deroga ai limiti devolutivi dell’appello, su distinti profili, tra i quali l’eventuale applicazione della sospensione condizionale della pena. In particolare, ci s’interroga sull’obbligo di motivare in ordine al non esercizio dell’anzidetta potestà: aspetto, questo, non regolato dalla disposizione in esame, silente sul punto. Converrà ricordare, invero, come il corrispondente art. 515 c.p.p. 1930, nel definire i limiti devolutivi dell’appello, nulla prevedesse circa l’autonomia del secondo giudice nell’applicare benefici. Ne era derivata una contrapposizione di schieramenti in giurisprudenza [1], cui aveva fatto da contraltare una sim­metrica divaricazione di opinioni in dottrina [2]. Ebbene, proprio a superare siffatte divisioni si era mosso il legislatore del nuovo codice, inserendo, nella direttiva n. 91 della legge-delega (l. 16 febbraio 1987, n. 81), il seguente indirizzo: «previsione che il giudice d’appello possa concedere d’ufficio i benefici di legge e le circostanze attenuanti» [3]. Donde l’attuale tenore dell’art. 597, comma 5, c.p.p., che tale direttiva riproduce fedelmente. Ora, la contrapposizione tra indirizzi giurisprudenziali, germinata sul dettato di nuovo conio – e qui oggetto dell’intervento delle Sezioni Unite – sancisce la parabola, in certo qual modo paradossale, di quell’istanza riformatrice, ispirata per parte sua ad apprezzabili intenti di chiarificazione e, nondimeno, smentita dal risorgere di nuove divisioni sul terreno applicativo.


Il contrasto

Giova anzitutto ricostruire i termini precisi del contrasto giurisprudenziale, sottoposto alla sintesi delle Sezioni Unite. Secondo un primo e prevalente indirizzo, il potere di applicare ex officio i benefici, attribuito al giudice d’appello dall’art. 597, comma 5, c.p.p., costituirebbe deroga eccezionale alla fisionomia devolutiva del gravame, con la duplice conseguenza che: da un lato, l’omesso esercizio della prerogativa non sia censurabile in cassazione; dall’altro, non sussista alcun obbligo di motivazione al riguardo, salvo che l’interes­sato abbia avanzato specifica richiesta nei motivi d’impugnazione o nel corso del giudizio di secondo grado [4]. S’insiste, in questa prospettiva, sulla natura discrezionale del potere in parola: connotato dal quale discenderebbero, per l’appunto, tanto la facoltà di non esercitarlo, quanto il simmetrico “non obbligo” di motivazione sul relativo mancato esercizio. Presupposto dell’itinerario argomentativo in parola è l’assunto in base al quale il giudice d’appello è tenuto a motivare solamente in rapporto a quanto dedotto con il gravame, ovvero, quando si tratti di applicazione ufficiosa di benefici, pure in sede di discussione [5]: e si puntualizza, peraltro, che l’iniziativa dell’interessato non può limitarsi a formulazioni generiche, dovendo invece poggiare su «dati di fatto astrattamente idonei all’accoglimento della richiesta stessa» [6]. Sull’opposto versante, si afferma invece che il potere discrezionale, attribuito al giudice di seconda istanza in punto di applicazione ufficiosa dei benefici, implica il dovere di motivare in ordine al relativo, omesso esercizio [7]. A sostegno di tale posizione si adducono due principali argomenti: quanto alla natura del potere conferito al giudice, si osserva come la discrezionalità che lo connota non possa mai – al pari di ogni altra espressione della giurisdizione – comportarne l’insindacabilità dell’esercizio; quanto all’obbligo di motivare al proposito, se ne valorizza il nesso con la funzione eminentemente cognitiva del giudizio, in relazione alla quale la garanzia del “rendere ragione” si pone a presidio di quel controllo di legalità sulla decisione giudiziale che la Costituzione stessa orienta, non solo in senso interno, [continua ..]


La soluzione delle Sezioni Unite

La soluzione fatta propria dalle Sezioni Unite mostra di non ignorare l’intimo nesso tra obbligo di motivazione e controllo sulla decisione [9]: e, tuttavia, con riferimento specifico alle prerogative di cui all’art. 597, comma 5, c.p.p., giunge a disarticolarne ogni connessione. All’esordio del proprio percorso argomentativo, il Supremo Collegio riconosce – correttamente – che l’esercizio, in positivo o in negativo, del potere di cui si tratta è tipica espressione di discrezionalità vincolata [10]: libero dunque il giudice di apprezzarne i presupposti, ma tenuto ad accordare il beneficio ove gli stessi risultino accertati al­l’esito della sua delibazione. E poiché, d’altro canto, la potestà in parola è configurata come ufficiosa, si precisa altresì che la connessa iniziativa, presenti i requisiti di legge, s’impone al giudice, a prescindere da un impulso di parte. Ancora: corollario della concettualizzazione così elaborata è, nel tenore del principio di diritto enunciato, «il dovere del giudice di appello di motivare il mancato esercizio del suo potere di ufficio di applicare il beneficio della sospensione condizionale della pena, in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento». Ed è a questo snodo del proprio itinerario argomentativo che la Cassazione affronta il quesito cruciale della controversa giustiziabilità dell’eventuale, mancato esercizio, da parte del giudice di seconde cure, del potere di applicazione ufficiosa dei benefici. Al proposito, l’orientamento negativo – espresso, in termini perentori, a chiusura del principio di diritto: «l’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della mancata applicazione del medesimo beneficio se non lo ha richiesto nel corso del giudizio di appello» – poggia su di un duplice ordine di passaggi ermeneutici. Sotto un primo profilo, viene data, dell’art. 606 c.p.p., una lettura in conformità alla quale la norma non coprirebbe la fattispecie di omessa applicazione dei benefici: siffatta evenienza, infatti, non integrerebbe – secondo i giudici di legittimità – né la violazione di una norma penale sostanziale (art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p.), né una patologia processuale sanzionata ai sensi della lett. c), né, infine, un [continua ..]


L'inerzia del giudice d'appello: motivazione mancante o decisione assente?

Ora, proprio dall’affermata “non censurabilità” dell’omesso esercizio del potere ex art. 597, comma 5, c.p.p. occorre, a nostro avviso, muovere, nella direzione di un ulteriore scandaglio concettuale. A tal fine, giova nuovamente ricostruire gli esatti confini della fattispecie controversa: si tratta, in particolare, del caso in cui il giudice di seconda istanza, in assenza di qualsiasi sollecitazione in proposito, si astenga, sic et simpliciter, dall’esprimersi in punto di benefici applicabili ex officio. Esula per contro da ogni incertezza la diversa ipotesi in cui la condotta omissiva del giudice segua alla richiesta variamente avanzata da una delle parti. E invero, mentre in quest’ultima evenienza, è pacifica la legittimazione dell’interessato a dolersi in cassazione dell’inerzia del giudice d’appello, controversa è la casistica nella quale il deficit d’iniziativa ufficiosa non risulti preceduto da un impulso di parte. Ed è in quest’ultimo scenario, come si è constatato, che la giurisprudenza si divide: con posizioni che, peraltro, si sviluppano entro il comune perimetro della patologia della motivazione. Ebbene, proprio l’individuazione di quest’area concettuale come quella pertinente alla questione ci pare non priva di punti di debolezza. A ben vedere, infatti, la contrapposizione giurisprudenziale, polarizzandosi sull’omessa motivazione, lascia in ombra il dato fattuale più significativo e, nel caso di specie, qualificante: vale a dire, la mancanza di qualsivoglia decisione, in assenza – si ripete – di qualsiasi sollecitazione di parte. Si tratta di un elemento tutt’altro che secondario, quando si convenga che «ove c’è omessa decisione, non è configurabile il vizio di mancanza di motivazione» [11]. In altre parole, viene da domandarsi se non sia semplicemente fuorviante discutere di patologia della motivazione, a fronte di una “non decisione” del giudice di secondo grado. Non sfugge, beninteso, come l’estromettere il tema dall’orbita dei vizi della motivazione ne comporti l’allontanamento dalle più rassicuranti opportunità di tutela offerte dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. [12]; e come, specularmente, la sussunzione della fattispecie alla fenomenologia del mancato esercizio [continua ..]


NOTE
Fascicolo 6 - 2019