La giurisprudenza di legittimità per lungo tempo ha ritenuto non soggette a revisione le sentenze di proscioglimento per prescrizione con condanna alle statuizioni civili, attesa l’impossibilità di ricondurre simili pronunce nell’alveo delle sentenze di condanna stricto sensu intese.
Sulla scorta delle indicazioni europee, però, si è progressivamente imposta una riflessione più matura sulla natura di tali provvedimenti “apparentemente liberatori”, che ha condotto le Sezioni Unite a rovesciare l’orientamento in auge.
For a long time the case law concluded that judgments on damages could not be challenged for revision, only convictions could be.
Recently, since European case law called for deeper reflection about the nature of this judgments, the Italian Supreme Court took a significant step towards overcoming the orientation in vogue.
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Sono revisionabili le sentenze di proscioglimento per prescrizione che, nel dichiarare l’estinzione del reato, abbiano confermato le deliberazioni della precedente sentenza in materia di risarcimento del danno in favore della parte civile? Il quesito, che impegna la giurisprudenza ormai da tempo [1], e su cui di recente si sono espresse le Sezioni Unite [2], chiama in causa schemi concettuali di analisi proposti nell’ambito della più sofisticata riflessione di teoria generale sulla stabilità del giudicato, da un lato, e sulla possibilità di emendare l’errore giudiziario, dall’altro. Il tema, vasto e multiforme, torna ciclicamente alla ribalta, spesso sotto lo slancio delle corti sovranazionali, da sempre attente al tema della giustizia sostanziale [3]. Preliminarmente, appare opportuno delineare lo sfondo sistematico di riferimento entro cui calare la specifica quaestio che qui ci occupa. Come è stato acutamente osservato, è proprio nella disciplina della revisione che si coglie il punto di massima flessibilità dell’auctoritas rei iudicatae [4]. È noto come, se pur con alcuni temperamenti rispetto al codice previgente [5], la stabilità del giudicato costituisce un principio costantemente ribadito dal nostro sistema processuale [6]. Di recente, anche il Giudice delle leggi ha avuto modo di esprimersi nettamente sul punto evidenziando come «giunge un tempo in cui, formatosi il giudicato, l’individuo è sottratto alla spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto», sempre che la decisione abbia goduto di tutte le garanzie del giusto processo; pena, al contrario, una continua proiezione dell’ombra dell’apparato punitivo dello Stato sulle libertà del cittadino [7]. Una funzione social-garantista mai sottaciuta neanche in dottrina, che non ha mancato di sottolineare come se «ogni caso (fosse) indefinitamente giudicabile, ogni lite (diventerebbe) un focolaio cronico, nessun corpo sociale tollera simili tensioni» [8]. Tradizionalmente si ritiene che l’auctoritas rei iudicatae dispieghi i suoi effetti “dentro” e “fuori” il processo [9]: sottrae l’imputato ad una (potenziale) illimitata possibilità di persecuzione – e in ciò è massima espressione del giusto [continua ..]
Sulla possibilità di sottoporre a revisione le sentenze di proscioglimento che, nel dichiarare il reato estinto, avessero comunque confermato le statuizioni civili, la giurisprudenza della Suprema Corte ha da sempre fatto fronte comune, opponendosi fermamente a letture dell’art. 629 c.p.p. legittimanti l’esperibilità del rimedio. La rigidità di tale posizione doveva ritenersi imposta, stando all’orientamento tradizionale, alla luce del principio di tassatività vigente in materia di impugnazioni che, consacrato fra le disposizioni generali, può ritenersi applicabile anche in materia di impugnazioni straordinarie, ove, anzi, troverebbe il proprio campo elettivo di applicazione [27]. L’esaurimento degli ordinari strumenti di critica all’accertamento giudiziale, ovvero l’acquiescenza allo stesso, ne determinano, come è noto, l’assunzione del carattere della definitività, coincidente con il passaggio in giudicato della sentenza che lo veicola. Di qui, la necessità che le norme che consentono di vincere questa stabilità siano interpretate in senso restrittivo, come espressione di una logica di extrema ratio, alla ricerca di un necessario punto di equilibrio tra i valori di stabilità e certezza dei rapporti giuridici, da un lato, e l’esigenza di rimuovere la decisione ingiusta perseguendo il favor innocentiae, dall’altro [28]. Le ipotesi in cui l’ordinamento consente di superare la res iudicata dovrebbero, dunque, ritenersi di carattere rigorosamente eccezionale e, come tali, insuscettibili di interpretazione analogica; di talché si è ritenuto che l’elencazione di cui all’art. 629 c.p.p. andasse intesa in senso strettamente letterale. Il richiamo alle ipotesi previste dall’art. 629 c.p.p. contenuto nell’art. 634 c.p.p. quanto all’ammissibilità della richiesta ha pertanto spinto a limitare l’operatività del rimedio alle sentenze di condanna, comprese quelle emesse ai sensi dell’art. 444 c.p.p. [29], nonché ai decreti penali di condanna [30]. Va da sé che restano escluse dalla latitudine dell’istituto tutte le ordinanze, le sentenze di proscioglimento, anche quando il proscioglimento sia conseguenza di un’amnistia ovvero dell’applicazione del perdono giudiziale [continua ..]
Nell’affermare l’innovativo principio dell’ammissibilità della richiesta di revisione delle sentenze di proscioglimento che contengano statuizioni civili sfavorevoli al prosciolto, la sentenza n. 46707/2016 ha adottato una strategia ben meditata: anziché cimentarsi in uno scontro frontale col principio di tassatività delle impugnazioni, ha proposto una soluzione interpretativa sì innovativa ma ad esso dichiaratamente fedele. Gli assunti di partenza sono pacificamente condivisi: la disciplina della revisione, quale mezzo di impugnazione straordinario, è sottoposta al principio di tassatività; il rimedio è esperibile per i soli provvedimenti indicati nell’art. 629 c.p.p., di talché le sentenze definitive di proscioglimento “secche” si ritengono non revisionabili. Considerazioni difformi vengono, invece, formulate in relazione alle pronunce di proscioglimento per estinzione del reato che, disponendo il risarcimento del danno, siano in qualche modo lesive degli interessi dell’imputato. Ebbene, rispetto a queste ipotesi, la Corte ha proposto un’inedita lettura delle disposizioni interessate, più aderente al dato letterale ma anche sistematicamente coerente. Innanzitutto, l’art. 629 c.p.p., nell’indicare i provvedimenti soggetti a revisione, fa riferimento soltanto alle sentenze di condanna senza ulteriori specificazioni che ne circoscrivano l’oggetto. L’indeterminatezza della norma permette agevolmente di attrarre nel suo raggio operativo tutte le pronunce di condanna lato sensu intese. E che ci si trovi di fronte ad una sentenza di condanna viene pure confermato dagli artt. 576 e 578 c.p.p. che, come noto, nel prevedere due vistose deroghe al rapporto di accessorietà fra la condanna agli effetti penali e le statuizioni civili, conferiscono a quest’ultime una loro autonomia concettuale rispetto al precedente proscioglimento [36]. In entrambi i casi, evidenziano i giudici della V sezione, l’eventuale statuizione relativa al risarcimento del danno ed alle restituzioni non potrà che essere considerata una “condanna” e, in quanto tale, rientrerà nell’ambito di applicazione dell’art. 629 c.p.p. [37]. Del pari indeterminata, secondo la Corte, la formula utilizzata dall’art. 632 c.p.p. che, nell’individuare i soggetti legittimati a [continua ..]
Dalla situazione di sostanziale stallo ermeneutico appena descritta è possibile uscire solo stabilendo in via pregiudiziale cosa debba intendersi per “sentenza di condanna” ex art. 629 c.p.p. e per “condannato” ex art. 632 c.p.p. Nel farlo è necessario ripercorrere l’evoluzione della giurisprudenza convenzionale e costituzionale che ha finito per assegnare a questi due concetti un significato ben più ampio di quello strettamente letterale. Ed infatti i giudici di Strasburgo, sin dagli anni settanta, hanno costantemente ribadito la necessità di un approccio antiformalistico nella materia de qua, che verifichi in concreto se una determinata sanzione, qualificata nell’ordinamento interno come amministrativa o civile, abbia caratteristiche tali da risultare intrinsecamente e sostanzialmente penale. Leading case in materia è rappresentato dalla nota sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976 con cui la Corte europea, disinteressandosi delle nomenclature nazionali, ha analizzato il problema della qualificazione penale sulla base di una propria “interpretazione autentica”, che sposta il baricentro cognitivo dalla natura dell’illecito alle sue conseguenze giuridiche, individuando inoltre alcuni indici per orientare la valutazione contenutistica della sanzione [45]. Gli Engel criteria, secondo l’insegnamento dei giudici europei, coesistono in un rapporto di alternatività [46] e si identificano nella qualificazione dell’infrazione nel diritto interno, nella sua natura, nello scopo punitivo e nella gravità della sanzione, nelle procedure di adozione ed esecuzione della stessa [47]. Tramite tale approccio si è avuta un’estensione delle diverse declinazioni garantistiche ricavabili dagli artt. 6 e 7 Cedu anche ad illeciti formalmente qualificati come amministrativi, ma contenutisticamente assimilabili ad illeciti penali, con conseguenti riflessi in ambito sanzionatorio [48]. Anche la giurisprudenza costituzionale, nel porsi in chiara ed esplicita linea di continuità con quella europea, ha adottato una nozione di sentenza di condanna ben più ampia di quella meramente formale, giungendo a ritenere che il sintagma vada inteso, al di là del dato letterale, in senso sostanziale e cioè come una pronuncia a seguito della quale sia inflitta [continua ..]