Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Reati ministeriali e posizione del coimputato: incertezze tra le righe di una disciplina da 'rivedere' (di Orietta Bruno)


Il quadro positivo, articolato a più livelli nel sistema delle fonti, esonera da responsabilità penale il Presidente del Consiglio e i singoli Ministri, anche se cessati dalla carica, qualora abbiano agito «per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante» o «il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo». Al contempo, si prevedono, al fine di accertare i reati da essi eventualmente compiuti nello svolgimento dei compiti assegnatigli, deroghe al procedimento penale tradizionale. Ma l’impianto normativo è carente in relazione alla figura del concorrente nel reato ministeriale e alle sue sorti.

Ministerial Crimes and the position of the person accused in joined proceedings

Ministers and Prime Minister are exempt from criminal liability even after they cease to hold office if they acted to safeguard the constitutionally protected general interests of the State or to achieve a prevailing public interest while performing functions of Government. Problems arise however regarding the position of the co-accused in those proceedings.

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SOMMARIO:

Alcune premesse - Un puzzle da ricomporre: in Costituzione - (Segue:) questioni insolute - (Segue:) la procedura: in particolare, l’autorizzazione a procedere - (Segue:) gli ulteriori snodi accertativi - Le insidie di una norma dalla sintassi ambivalente - Garanzie discutibili - Il 'concorrente' nel reato ministeriale. rimane ancora molto da dire … - Da ultimo - NOTE


Alcune premesse

I flussi immigratori degli ultimi tempi sono stati accompagnati, in un clima viziato e confuso, da condotte politiche che, oltre a denotare il rigoroso atteggiamento del nostro Paese, scuotono le coscienze poiché lambiscono il profilo, assai delicato, della salvaguardia dei diritti umani [1]. È riemerso, a tal proposito, il tema, caldo e non marginale, della procedura per reati commessi dai Ministri della Repubblica nell’esercizio delle loro funzioni [2]. Immancabilmente, si sono prodotte conseguenze incresciose e riaperti strappi ancora non cuciti tra coloro che – preoccupati per gli effetti politico-istituzionali dell’at­tivazione di una qualche forma di responsabilità – sono favorevoli ad uno scudo legale a protezione dei governanti e quelli contrari a forme di immunità [3]. Privilegi che, negli affaires italiani, hanno salvato gli esponenti di qualsivoglia corrente anche da accuse assai gravose e che sono stati invocati, a gran voce, a fronte di attacchi provenienti dagli ambienti più disparati, alimentati da una profonda differenza nel modo di intendere i principi costituzionali. Le inchieste in materia, al momento, sono regolamentate, oltre che nella Carta fondamentale, all’art. 96 (i cui archetipi vanno ricercati nell’istituto dell’impeachment e nella Charte francese del 1814), dalle leggi (costituzionale) 16 gennaio 1989, n. 1 [4] e (ordinaria, di completamento e attuazione) 5 giugno 1989, n. 219 [5], «Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione» [6]. Provvedimenti radicali i quali, obliterando le antesignane modalità accertative che affidavano la cognizione degli illeciti ministeriali alla Corte costituzionale (nella sua composizione integrata) [7], hanno recepito, in qualche maniera, la pressante volontà popolare affiorata in due eventi referendari (1978 e 1987); tale disciplina, benché non abbia realizzato una piena parificazione tra il procedimento penale per i Ministri e quello per le persone comuni attraverso la decostruzione della vecchia guarentigia, comunque, si è sbarazzata di una scansione procedimentale a totale gestione separata [8]. Di sicuro, erodendo dalle fondamenta l’assetto precedente, l’attuale normativa risulta un compromesso legislativo tra l’auspicato progetto [continua ..]


Un puzzle da ricomporre: in Costituzione

Prima di addentrarsi nell’argomento specifico, giova ricostruire le dinamiche della procedura ministeriale nei suoi snodi principali, senza tralasciare cambiamenti di direzione dal tenore prettamente sostanziale da cui le prime non possono essere scisse [30]. L’excursus, costituzionalizzato in buona parte, si colloca al massimo gradino della gerarchia delle fonti; si articola in tre fasi: una preliminare (le indagini sul fatto e un primo vaglio sulla fondatezza delle accuse deferiti all’autorità giudiziaria per contrastare denunce temerarie e scongiurare l’innesto del segmento procedurale consecutivo quando prima facie ne risulti l’assoluta inutilità), l’altra parlamentare (con scopi garantistici) [31] e, da ultimo, una successiva alla autorizzazione a procedere, se acconsentita. Il meccanismo assolve ad un triplice obiettivo: assicurare la posizione costituzionale dell’organo; salvaguardare la persona contro accuse avventate; consentire siano valutati, per dispensare l’autorizzazione a procedere, parametri dal contenuto eminentemente “politico”. Finalità, queste, spalmate tra le pieghe di una strumentazione normativa, solo all’apparenza, analitica. A livello sovraordinato, si prevede che, per quanto concerne i reati commessi nell’esercizio delle fun­zioni, il Presidente del Consiglio e i Ministri [32], «anche se cessati dalla carica [33], sono sottoposti, (…), alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale» (art. 96 Cost.). Ne è conseguito l’affermarsi della cd. “giustizia penale comune” a discapito di quella “politica” (generatasi come tertium genus al di là del­l’arido schematismo giurisdizione ordinaria-giurisdizione speciale) di cui viene decretata la fine. Permangono, ad ogni buon conto, parecchi elementi di specialità, come si evince dalla persistenza di uno stadio parlamentare autorizzatorio. Le originalità dell’odierno procedimento per reati ministeriali, in effetti, sono dovute al combinarsi di profili politico-costituzionali e processual-penalistici. L’art. 96 Cost. è stato intaccato dalla l. 16 gennaio 1989, n. 1, veicolandolo alla menzionata formulazione, nel dichiarato scopo di [continua ..]


(Segue:) questioni insolute

Permangono fratture in merito ad alcuni profili, in ragione del fatto che, pur essendo mutata la normativa procedurale nel 1989, gli aspetti di sostanza restano, tuttora, pressoché impregiudicati e bisognosi di chiarificazione. La riforma dell’accusa parlamentare, se ha introdotto innovazioni di notevole entità, non ha disegnato la cerchia delle fattispecie penalmente illecite ascrivibili al Ministro a titolo di reato ministeriale. Per quanto attiene le contravvenzioni e i delitti colposi, che rientrano nella classica definizione di reato, in linea di massima, ne andrebbero emarginati, poiché mostrano una scarsa gravità offensiva; nondimeno, sarebbe più opportuno non inserire preclusioni e decidere in merito al caso concreto: anche le infrazioni di minore allarme sociale, ove commesse da un componente dell’Esecutivo, potrebbero richiedere l’intervento della giurisdizione speciale. Senza scomodare le esegesi che non si fermano al crudo testo del dato positivo, basta volgere lo sguardo all’aggiunta effettuata dalla metamorfosi del 1989 nell’art. 96 Cost., vale a dire l’incastro dell’articolo «i» davanti al termine «reati», per essere autorizzati a credere in un cedimento delle maglie della nozione di crimine ministeriale a tutti i comportamenti tenuti dal Ministro nello svolgimento del ruolo [38]. Oltretutto, l’ermeneusi prescelta pare distinguersi in un’ottica di ragionevolezza e garantisce, in maggior misura, l’uguaglianza di trattamento di fronte alla giurisdizione, non solo tra Ministri e compartecipi parlamentari e/o laici, ma anche di questi ultimi rispetto agli altri cittadini comuni. Non sfugge, in secondo luogo, l’incertezza della dizione testuale «reati commessi nell’esercizio delle funzioni» o, tentando di gestire un ragionamento di più ampio respiro, «reati ministeriali» [39]. Si tratta, del resto, oltre che della scomoda eredità derivante dalle antiche disposizioni statutarie, incapaci di fornire i mezzi per risolvere l’annosa disputa all’epoca generatasi tra fautori della dottrina del diritto penale comune e sostenitori della teoria costituzionalistica –, pioniera di tutte le disamine volte a gettare luce su uno dei capisaldi della materia –, di un vero convitato di pietra per l’imprevedibilità della sua portata. La questione [continua ..]


(Segue:) la procedura: in particolare, l’autorizzazione a procedere

La disamina sinora condotta, non può essere disgiunta da quella di tenore parlamentare – desumibile (già) dall’art. 96 Cost. – e processuale, non solo per soddisfare la necessità di essere il più possibile e­saurienti, ma perché sono facilmente intuibili le reciproche influenze tra le singole frazioni di questa linea (dis)continua che è il procedimento per i reati ministeriali, benché la farraginosa trama normativa non agevoli approdi così sicuri; è dimostrato dal fatto che l’esame deve investire i caratteri distintivi degli illeciti in parola, ma anche la ragione giustificatrice del loro trattamento giuridico sui generis. Passato il setaccio dell’organo giudiziario (di cui si darà conto più avanti), ci si imbatte nel crivello, questa volta, dell’istituzione parlamentare: la previa autorizzazione della Camera di competenza, disposta dall’art. 96 Cost., si incastra strumentalmente a cavallo tra la fase preliminare delle indagini e della raccolta del materiale istruttorio, volta a stabilire l’obbligo di promuovere l’azione penale, e quella susseguente destinata, in caso di esito positivo, a sottoporre l’indagato alla giurisdizione ordinaria. Lo scenario in questo frangente cambia radicalmente: la presenza del primo circoscrive e chiarisce gli adempimenti del secondo legati all’autorizzazione a procedere che, tuttavia, si distacca dalla figura nota di essa e assume contorni nuovi e peculiari. L’Assemblea non deve stabilire il fumus di fondatezza della notizia, compito già evaso dall’apposito organo collegiale: le Camere, estranee al concetto di autorità giurisdizionale, devono evitare che esistano iniziative d’accusa affrettate e, più precisamente, verificare se l’inqui­sito abbia agito per una delle cause tassative reclamate dall’art. 9, comma 3, l. n. 1 del 1989. Apprezzamento squisitamente politico e non tecnico-giuridico (corretto: una parentesi di politicità in un processo di depoliticizzazione) che ricade sulla presenza, nell’operato dei componenti dell’Esecutivo, di cause giustificative in vista di interessi costituzionali e/o pubblici [95]; di conseguenza, va serbato al Parlamento, portatore – almeno così dovrebbe essere – di una funzione neutrale e imparziale che mira a ripristinare il [continua ..]


(Segue:) gli ulteriori snodi accertativi

Anche le guide-lines procedurali restanti si stagliano lungo la parete della normativa risalente al 1989. Il soggetto di partenza è il pubblico ministero. L’art. 6, l. n. 1 del 1989, in effetti, sancisce, ex professo, che «I rapporti, i referti e le denunzie concernenti i reati indicati dall’articolo 96 della Costituzione sono presentati o inviati al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio». Il normale criterio della competenza per territorio si combina, dunque, nella fattispecie, con uno di tipo qualitativo [150]. Spicca, in particolare, il secondo comma della previsione che, in deroga ad una delle pietre miliari che connotano la fase preliminare del processo penale ordinario, ha bandito ogni potere e facoltà del p.m.. Esso stabilisce che «Il procuratore della Repubblica [151], omessa ogni indagine [152], entro il termine di quindici giorni [153]», (ergo: senza ritardo), «trasmette [154] con le sue richieste [155] gli atti relativi al collegio di cui al successivo articolo 7, dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie al [tribunale dei Ministri] o chiedere di essere ascoltati» [156] (perché possano tempestivamente attivare eventuali iniziative difensive). Le limitazioni eccentriche rispetto ai consueti poteri investigativi stabilite nei confronti del procuratore della Repubblica, non adombrano, però, l’opinione, desumibile dal sintagma «con le sue richieste», contenuto nell’art. 6, l. n. 1 del 1989, secondo il quale costui è chiamato ad inquadrare – quantomeno sotto il profilo del dubbio – le condotte tratteggiate nella notizia di reato, identificandole e teorizzando la fattispecie normativa corrispondente come reato ministeriale [157]; ruolo classificatorio che, peraltro, rap­presenta l’indefettibile presupposto affinché, in capo al tribunale dei Ministri, si radichi la cognizione delle medesime [158]. La qual cosa, parrebbe far affiorare un ruolo sostanziale del procuratore della Repubblica [159]. Di contro, come è stato lecitamente sottolineato, il termine per mandare la documentazione, quindici giorni, apparirebbe addirittura eccessivo [160]. Di certo, il magistrato [continua ..]


Le insidie di una norma dalla sintassi ambivalente

Se nei procedimenti de quibus la fase prodromica all’esercizio dell’azione penale non ha mostrato rilevanti problemi applicativi, nonostante le palesi stranezze ivi percepibili, lo stesso non può dirsi per quella appresso in relazione alla quale si riscontrano oscillazioni esegetiche fondate sull’incerto dato normativo dell’art. 9, comma 4, l. n. 1 del 1989: recte, su una contestabile scelta lessicale del legislatore costituzionale. L’art. 9, comma 4, l. n. 1 del 1989, difatti, prevede, alla lettera, che l’Assemblea di competenza «ove conceda l’autorizzazione, rimette gli atti al Collegio di cui all’art. 7 perché continui il procedimento secondo le norme vigenti». Orbene, il precipitato del dibattito si agita (proprio) intorno alla esatta interpretazione di tale disposto, resa più ardua dalla necessità di pervenire ad un suo azzeccato coordinamento con la regolamentazione tracciata dall’art. 3, l. n. 219 del 1989 [207] e 11, l. n. 1 del 1989 che, al primo comma secondo periodo, recita: «Non possono partecipare al procedimento i magistrati che hanno fatto parte del collegio di cui all’articolo 7 nel tempo in cui questo ha svolto indagini sui fatti oggetto dello stesso procedimento». Appurato che il richiamo alle «norme vigenti» non ha che lo scopo, pleonastico, di chiarire l’automa­tico adattamento del regime procedurale dei reati ministeriali – nel seguito al conferimento del lasciapassare del Parlamento – a tutte le eventuali correzioni del rito ordinario che dovessero intervenire in futuro [208], resta da spiegare il senso della previsione ex art. 9, comma 4, l. n. 1 del 1989, che appare, invero, assai poco perspicua, laddove stabilisce che gli atti devono essere trasmessi al tribunale dei Ministri e non, invece, al procuratore della Repubblica. Litterate, non si comprende a quale organo spetti celebrare l’udienza preliminare, se, cioè, quest’ultima rientri ancora nei compiti del collegio ovvero debba essere investito il g.u.p. territorialmente competente, atteso che l’unico organo avente funzioni giurisdizionali nella fase preliminare del procedimento ministeriale è esclusivamente il suindicato tribunale. La regola, assai importante dal punto di vista procedurale, s’innalza a leitmotiv di una [continua ..]


Garanzie discutibili

Qualora il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro vengano condannati per reati messi in atto nell’esercizio delle loro funzioni, «la pena è aumentata fino ad un terzo in presenza di circostanze che rivelino la eccezionale gravità del reato» (art. 4, l. n. 1 del 1989) [245]. Il principio impone l’obbligo dell’aumento della sanzione ed è estrinsecazione di una discrezionalità monofasica in quanto, anziché prevedere la rilevazione della singolare gravità del reato e, in seguito, l’opportunità dell’aumento, descrive della sola identificazione della fattispecie circostanziale [246]. Tale «aggravante indefinita» [247] è orientata a dare rilievo alla particolare lesività della condotta delittuosa ministeriale, il cui carattere di eccezionalità è da intendersi «come una sorta di “ipertrofia” offensiva, sostanzialmente dipendente dal peculiare livello delle funzioni coinvolte nella commissione del reato e strutturalmente riflessa sulle modalità della condotta o sull’entità del danno e del pericolo» (art. 133, commi 1 e 2, c.p.p.) [248]. Nei procedimenti per i reati ministeriali nei quali siano inquisiti membri del Parlamento non trova, altresì, applicazione l’art. 68, comma 2, Cost. (art. 10, comma 2, l. n. 1 del 1989): a sottintendere che l’autorizzazione a procedere concernente i Ministri non è accomunabile a quella prevista da tale ultima norma che postula una deliberazione, a maggioranza semplice, slegata da paletti di riferimento esplicitamente enunciati [249]. La rigidità dei disposti ex art. 4 e 10, comma 2, l. n. 1 del 1989 viene presto surclassata da un coacervo di garanzie (alla genesi, stalli) procedurali che il legislatore – a torto – ha serbato ai componenti dell’Esecutivo e ai Parlamentari. Difatti, nell’ambito dei procedimenti per reati ministeriali, il Presidente del Consiglio dei Ministri, i Ministri, nonché gli altri inquisiti che siano membri del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati (per questi ultimi, in mancanza di ogni indicazione, non è dato sapere se ciò valga anche quando siano cessati dalla carica) non possono essere sottoposti a vincoli cautelari personali [250], a intercettazioni telefoniche (resta il dubbio per [continua ..]


Il 'concorrente' nel reato ministeriale. rimane ancora molto da dire …

Si venga al punto cruciale: la posizione della persona indagata insieme al Ministro a titolo di concorso nell’illecito da questi posto in essere (parecchio si è anticipato, ma la portata del tema del concorso nel reato ministeriale è stratificata). Nella legislazione sui reati ministeriali, a dispetto dei correttivi datati 1989, s’insinua una pagina bianca, una lacuna degna di nota: il comparto normativo costituzionale e d’implementazione non accenna alla figura/e del compartecipe/i nel reato/i commesso/i dai membri del Governo, creando un’am­pia zona grigia dietro la quale rischia/no di trovare riparo. Una carenza, questa, che, non potendo essere appianata – se non limitatamente e con il grimaldello della dialettica – tramite agganci al tessuto positivo, presta il fianco a perplessità e apre a dispute in letteratura e giurisprudenza [252]. Verrebbe da pensare, in prima battuta, risolvendo la problematica dai rudimenti, che la mancata celebrazione del processo per gli esponenti dell’Esecutivo implichi la fuoriuscita dal cammino accertativo anche dell’extraneus. Del resto, dalla l. n. 1 del 1989 sembra trarsi solo l’impressione che il lasciapassare possa essere pronunciato anche nei confronti di inquisiti che non siano Ministri o ex tali: non a caso, infatti, l’art. 5, laddove delinea la competenza delle due Camere in ordine all’autorizzazione a procedere, non parla mai espressamente di Ministri ma, molto più genericamente, di «persone» o «soggetti». Benché siano presagibili dissenting opinions, come anticipato – dissipando il dubbio al più presto –, a parte la faticosa tenuta costituzionale di argomentazioni avverse sul piano della ragionevolezza e dell’obbligatorietà dell’azione penale, esistono motivi per definire la quaestio nel senso anzidetto; una visione difforme, oltre che risultato di uno sforzo interpretativo accidentato, sarebbe tanto piana quanto superficiale e destinata a proiettarsi verso astiose critiche. L’indeterminatezza del lessico impiegato, avvalora l’idea che esistano diritti partecipativi del coindagato (parlamentare o laico) nel procedimento penale instaurato: si spazia dall’audizione dinanzi alla Giunta (dove possono essere messe in luce circostanze che hanno indotto alla condotta deviante in presenza [continua ..]


Da ultimo

Rebus sic stantibus, non è inutile qualche riflessione conclusiva. Lascia increduli una disciplina che, destinata ad accertare la responsabilità penale di un individuo, esibisca così tante incertezze da dar adito alle esegesi più disparate (spesso, ardite architetture teoriche edificate su presupposti infondati o prodotti di ingegnose quanto indebite effrazioni al dato letterale e sistematico) e, al contempo, a distonie vistose, difficilmente superabili; a maggior ragione quando i comportamenti incriminati condizionano addentro la vita del Paese. La scelta più opinabile è quella di non aver avuto, il legislatore, l’audacia di rompere i ponti con i precedenti, allestendo una struttura normativa in grado di porre i membri dell’Esecutivo sullo stesso piano dei cittadini comuni. Peraltro, i retaggi del passato, il tribunale dei Ministri dalla commistione dei ruoli e l’impiego (ponderato o meno), quali clausole scagionatrici nel sindacato di procedibilità, di formule enigmatiche, smentiscono in radice, anzi lo contraddicono in maniera palese, il progetto riformatore. Queste ultime, poi, non prestandosi, come dovrebbe, anche in vista della realtà operativa, ad una esatta traduzione tecnico-scientifica, hanno il pregio di corazzare la fase parlamentare per la concessione o il diniego dell’autorizzazione a procedere solo in apparenza: in concreto, anche volendole osservare nella appropriata visuale costituzionale, rimettono la loro delimitazione alla più larga discrezionalità delle Camere di turno che se ne autoproclamano esclusive e insindacabili interpreti. Talora, stanti le spigolose locuzioni usate dal Costituente nella grammatica dell’art. 9, comma 3, l. n. 1 del 1989, il Parlamento partorisce ermeneutiche che appaiono troppo comprensive, tal altra eccessivamente selettive: sarebbe velleitario immaginare il puntuale rispetto del bon ton istituzionale in un campo nel quale la forma è sostanza. Ricorrendo tali parametri, capaci di legittimare ogni possibile condotta, poi, non v’è atto legislativo o Carta fondamentale che reggano il paragone; sicché, un’interpretazione positiva prevale anche sui diritti primari del singolo destinati ad essere vulnerati, addirittura, in riferimento a talune fattispecie criminose, l’inviolabilità della libertà personale (art. 13 Cost.). Si tratta, invero, [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2019