La questione del rapporto tra giudici e pubblico ministero è oggetto nel nostro ordinamento di un dibattito assai vivo ormai da alcuni decenni. Il saggio prende le mosse dall’attuale quadro costituzionale, che colloca nel medesimo ordine giudiziario sia i magistrati giudicanti che quelli requirenti, ma li distingue per alcuni aspetti, delineando il pubblico ministero come una figura per certi versi “ambigua”; analizza, quindi, le ragioni delle diverse posizioni, ripercorrendo alcuni dei tentativi che sono stati fatti per creare una maggiore separazione tra le due funzioni, soffermandosi poi in particolare sulla più recente proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, promossa dall’Unione delle Camere penali, attualmente all’esame della Camera dei Deputati.
The relationship between judges and public prosecutors, in Italian system, has been for decades the subject of a lively debate. The starting point of the paper is the actual constitutional framework, in which they are both considered part of judiciary power, but the two different roles are partially distinguished, and public prosecutor is built like an “ambiguous” figure in some ways; then, the essay analyses the different positions on the subject and the main attempts that have been done in the past to separate the two functions; finally, particular attention is given to the most recent citizens’ initiative proposal for a constitutional reform (promoted by the national Association of Criminal Lawyers), currently under discussion at the Chamber of Deputies.
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Unità vs. separazione delle carriere. Un dibattito mai sopito - Il quadro di riferimento: la figura del p.m. nella Costituzione - Le ragioni dell’unità e quelle della separazione. Le strade percorse per le proposte di riforma - Qualche riflessione sul progetto di legge costituzionale di iniziativa popolare A.C. 14 - NOTE
Come un fiume carsico, riaffiora periodicamente all’attualità del dibattito scientifico e politico il tema della separazione delle carriere tra giudici e magistrati del pubblico ministero. Il carattere complesso e controverso delle scelte in materia era emerso, invero, già nel dibattito in Assemblea costituente, con la nota ed autorevole contrapposizione tra le tesi di Leone e quelle di Calamandrei, il primo incline a configurare il pubblico ministero come organo del potere esecutivo, il secondo a costruirlo, invece, come parte integrante dell’ordine giudiziario [1]. La scelta è poi ricaduta su tale seconda impostazione, nel quadro di una serie di garanzie comuni, anche con l’intento di prevenire le degenerazioni a cui si era prestata la precedente esperienza, che durante il regime fascista – non soltanto a seguito della riforma Grandi attuata con r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, ma già prima con mezzi diversi – aveva visto una forte accentuazione del tradizionale legame del p.m. con il potere esecutivo fino a farne un vero e proprio strumento del Ministro della giustizia anche per il controllo degli stessi giudici [2]. Ma alcuni nodi intorno alla magistratura requirente sono rimasti non sciolti, connotando i relativi organi di un carattere di “ambiguità” [3] il cui tratto più forte, nella disciplina costituzionale, emerge dal rinvio operato dall’art. 107, comma 4, Cost. alle norme sull’ordinamento giudiziario per la fissazione delle garanzie di cui gode il pubblico ministero [4]. Tale indefinitezza ha condizionato ogni ulteriore sviluppo della riflessione sul tema, tanto più che essa ha trovato ulteriore amplificazione nell’inerzia del legislatore che si è manifestata almeno sotto un doppio profilo: il lungo rinvio dell’adeguamento della disciplina del processo penale, nel quale al p.m. era riconosciuto un ruolo “duplice” [5] di giudice e di accusatore, e l’inattuazione per quasi sessant’anni della disposizione costituzionale che avrebbe imposto l’emanazione di una nuova legge sull’ordinamento giudiziario (VII Disp. Trans. Fin.), limitandosi ad interventi legislativi puntuali fino alla contestata legge Castelli, 25 luglio 2005, n. 150, e alle successive modifiche negli anni a seguire (con la legge 24 ottobre 2006, n. 269 e la legge 30 luglio 2007, n. [continua ..]
La scelta costituente, come si è già accennato, è nel senso dell’inserimento dei magistrati del pubblico ministero all’interno dell’ordine giudiziario, come confermato dalla collocazione della relativa disciplina nel Titolo IV “La magistratura” e dalla presenza del procuratore generale presso la Corte di Cassazione come membro di diritto del C.S.M. Le disposizioni costituzionali utilizzano il termine “magistrati” per riferirsi contemporaneamente sia ai giudici che al pubblico ministero [15]; o talora, ricorrono all’espressione “autorità giudiziaria”, con formula meno chiara, interpretata, per lo più, nel senso che ricomprenda entrambi [16]; e dettano una disciplina comune per molti aspetti. Tuttavia, l’unità dell’ordine giudiziario non comporta l’identificazione in toto delle due figure, che invece mantengono rilevanti tratti di differenziazione, scanditi in modo coerente dal linguaggio costituzionale che, accanto ai termini onnicomprensivi sopra ricordati, utilizza invece “giudici” e “pubblico ministero” nelle disposizioni che sono riferite esclusivamente agli uni o agli altri [17] e che connotano diversamente i magistrati che svolgono le due funzioni (poste su un piano di pari dignità [18] dalla previsione che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni; art. 107, comma 3, Cost.). I caratteri dell’indipendenza esterna dei magistrati rispetto agli altri poteri, ed in particolare all’esecutivo, sono in larga parte comuni, facendo capo alle norme che definiscono composizione e funzioni del C.S.M. (artt. 104 e 105 Cost., in cui si parla sempre di “magistratura” e “magistrati”), alla regola dell’assunzione per concorso (art. 106, comma 1, Cost., con eccezioni poste dai due commi successivi e relative soltanto a funzioni giudicanti), a quella dell’inamovibilità (art. 107, comma 1, Cost.) nonché alla riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario (art. 108, comma 1, Cost.). Tuttavia, per i magistrati del pubblico ministero, vi sono anche altre previsioni che contribuiscono a definire e, in qualche modo, a rafforzare la garanzia, con specifico riguardo alle loro funzioni: l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) [19], che [continua ..]
Il quadro costituzionale, dunque, sembra svilupparsi lungo due diverse linee direttrici. Da un lato, vi è l’opzione della comune appartenenza all’ordine giudiziario sia per i magistrati giudicanti che per quelli requirenti. E tale unità appare pensata e sostenuta in funzione della tutela del pubblico ministero dal legame con l’esecutivo, che comporterebbe il rischio di utilizzo distorto del potere di esercizio dell’azione penale. Dall’altro, vi è, invece, il riconoscimento della diversità delle funzioni svolte dalle due figure nell’ambito del processo, che implica una loro ricostruzione non interamente omogenea anche sul piano teorico e richiede discipline organizzative differenziate (con una tutela meno intensa dell’indipendenza interna e funzionale per il pubblico ministero). Se le scelte costituzionali mirano a tenere insieme tali diverse impostazioni, il dibattito sulla separazione delle carriere parte proprio dall’affermazione di una irriducibile contraddittorietà tra la diversità delle funzioni e la scelta dell’unità dell’ordine giudiziario nei termini in cui essa è concretamente realizzata nel nostro ordinamento, alla ricerca di un diverso punto di equilibrio. Nell’ottica riformista, vengono così valorizzate le esigenze di distinzione tra accusatore e giudice, in funzione di garanzia dell’accusato. Se voci in questo senso già si levavano sotto la vigenza del precedente modello processuale caratterizzato dalla presenza del giudice istruttore [40], il superamento di tale impostazione ha riproposto il problema in termini ancora più accesi, evidenziando una insuperabile incoerenza tra la funzione processuale del p.m. come parte e la sua assimilazione al giudice. In tale prospettiva, l’esplicitazione in Costituzione dei principi processuali della parità delle parti e della terzietà-imparzialità del giudice ha rafforzato l’idea di chi ritiene che la contiguità tra le due figure della magistratura finisca per rivolgersi in uno svantaggio per l’accusato, incrinando l’equidistanza del giudice tra le parti. Il punto più estremo di tali posizioni considera auspicabile anche un più forte collegamento del pubblico ministero con l’esecutivo, che assumerebbe la responsabilità politica delle scelte in materia di repressione dei [continua ..]
La scelta che impronta la più recente proposta di riforma costituzionale è quella, come si è anticipato, di separare nettamente le due carriere, prevedendo addirittura due concorsi separati senza passaggi interni, entro il medesimo ordine giudiziario, autonomo ed indipendente da ogni altro potere, dotato per questo di due distinti Consigli Superiori della Magistratura, uno per i giudicanti e l’altro per i requirenti. Si tratta di un’opzione non estranea al panorama comparatistico, ed in particolare ricalcata sul modello adottato in Portogallo [56], che sembra in grado di escludere i rischi della dipendenza del p.m. dal potere esecutivo che in genere si collegano alla fuoriuscita del medesimo dalla magistratura [57]. L’impostazione di fondo di una separazione, anche così netta delle carriere, all’interno di un quadro comune di garanzie, è dunque percorribile e in grado di offrire un convincente punto di equilibrio delle diverse esigenze che emergono nel dibattito. Poiché, tuttavia, il progetto in parola riformula anche alcune ulteriori scelte in materia di organizzazione della giustizia, resta da chiedersi se le garanzie apprestate dal sistema costituzionale, una volta riformato nel senso proposto, siano sufficienti ad assicurare il mantenimento dell’indipendenza esterna delle due componenti della magistratura dagli altri poteri e, dunque, dalla maggioranza politica. Ed è proprio su questo fronte – tutt’altro che secondario – che alcune scelte del progetto di legge in esame possono lasciare qualche perplessità. In primis, dubbi più sfumati possono esprimersi sulla scelta di ristrutturare la composizione di entrambi i C.S.M. dosando diversamente da quanto accade adesso le due componenti “togata” e “laica”, portandole ciascuna alla metà. Per un verso, è vero che la duplicazione dei consigli potrebbe riproporre con più forza la necessità di evitare i rischi di autoreferenzialità e di chiusura corporativa che hanno indotto a suo tempo l’Assemblea costituente alla scelta di non creare un vero e proprio “autogoverno” [58], optando per una composizione mista del Consiglio Superiore (in effetti inizialmente proposta anche in sede costituente nella proporzione di metà e metà), in modo da creare un canale di collegamento tra [continua ..]