Sull’onda della Corte costituzionale, con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite hanno ridisegnato le linee guida della rinnovazione del “dibattimento” in caso di mutamento della persona fisica del giudice durante lo svolgimento del processo. Una decisione densa di ombre, orientata dalla necessità di rendere la durata del processo “ragionevole”, che certamente avrà un peso sulle future scelte del legislatore in materia.
In the wake of the Constitutional Court, the ruling of the United Section has redrawn guidelines for the renovation of the “trial” in case of a change, during the course of the proceedings, in the composition of the panel of judges. A decision full of shadows, guided by the necessity to make the duration of proceedings “reasonable”, that certainly will influence the future choice of the legislator in this matter.
Articoli Correlati: mutamento del giudice - rinnovazione della prova - sistema accusatorio - ragionevole durata del processo
L’immediatezza: un valore in crisi - Il “diritto vivente” - Le ragioni del rinvio alle Sezioni Unite - Le argomentazioni della Corte: il “dibattimento” rinnovato - Quale spazio per i riti “alternativi”? - La richiesta di prova: soggetti e oneri - Il punctum dolens: l’ammissione della prova - La lettura “sostitutiva” delle precedenti dichiarazioni e il “consenso” - L’immediatezza in chiave “europea” - De iure condendo: le misure “compensative” - NOTE
Trent’anni sono appena trascorsi dall’entrata in vigore del codice di rito del 1988: un sistema che faceva del dibattimento il luogo privilegiato di assunzione della prova, nel rispetto dei principi dell’oralità, della concentrazione e dell’immediatezza [1], quest’ultimo tradotto nella regola dell’immutabilità del giudice, consacrata nell’art. 525, comma 2, c.p.p. e presidiata – a differenza del codice Rocco [2] – dall’unica nullità assoluta speciale rintracciabile nel corpus codicistico [3]. Il valore dell’immediatezza, inteso come rapporto diretto tra il giudice e la fonte di prova [4], ha trovato poi un suo autentico riconoscimento, per effetto della riforma costituzionale intervenuta con la l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, nell’art. 111, comma 3, Cost., laddove si afferma il diritto dell’accusato al contraddittorio da esercitarsi «davanti al giudice» . Non si è mancato di evidenziare[5] come l’uso, in questa sede, della preposizione articolata richiami “il” giudice dibattimentale: colui, cioè, che sarà chiamato ad emettere la sentenza sul merito dell’imputazione e davanti al quale si esige il rispetto del principio di immediatezza. All’indomani di quella riforma, la stessa Corte costituzionale [6] – nell’avviarsi verso una stagione di matrice “garantista”, in aperta cesura con la precedente di stampo “inquisitorio” – operava un raccordo tra il diritto «all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere» e la garanzia di cui all’art. 111, comma 3, Cost. Ad un fugace sguardo retrospettivo, si nota tuttavia come molteplici siano state le erosioni di quel principio riconducibili ad una ratio camaleontica: dagli artt. 190-bis e 238-bis c.p.p., fino alle più recenti riforme che hanno investito l’incidente probatorio, trasformato nella sede elettiva per l’assunzione della prova orale “debole” [7]. Da ultimo, il significativo monito della Corte costituzionale [8] al legislatore – nel quale è rintracciabile un nostalgico déjà-vu – perché introduca “ragionevoli eccezioni” al principio in [continua ..]
Nella prassi applicativa, con sempre maggiore frequenza, si assiste al fenomeno del mutamento dell’identità fisica del giudicante: imputabile a cause “esterne” (es., i trasferimenti dei giudici ad altra sede) [12] o “interne” al processo (es., il difetto di competenza), sulle quali incide in modo significativo la patologica lunghezza dei procedimenti penali. Tuttavia, in nessuna norma del codice di rito è rintracciabile una disciplina che regoli questo fenomeno (fatta eccezione per quanto previsto nella seconda parte del comma 2, art. 525, c.p.p.), denso di implicazioni sul piano, oltre che pratico, anche dogmatico [13]. Ciò ha portato ad un confronto sempre più diffuso con la lettera dell’art. 525, comma 2, c.p.p. [14] che, per il suo limitarsi ad esprimere una regola [15], non ha mancato di sollevare più di un interrogativo. Quid iuris qualora nel corso del dibattimento sia mutato uno dei componenti del collegio giudicante? Quale sorte deve essere assegnata ai verbali delle prove già assunte davanti al diverso giudice? Può la lettura degli atti compiuti in precedenza surrogare la ripetizione orale dell’esame davanti al nuovo organo? Alcuni punti fermi erano stati fissati dalle Sezioni Unite con la nota “sentenza Iannasso” [16], sulla quale aveva avuto una certa influenza quanto affermato qualche tempo prima dalla Corte costituzionale [17]. Quest’ultima infatti aveva posto l’accento sulla necessità di procedere, in caso di mutamento del giudice-persona fisica nella composizione collegiale o monocratica, alla «integrale rinnovazione del dibattimento», da intendersi riferita, secondo le successive puntualizzazioni della Cassazione, alla sequenza procedimentale che prende avvio con la dichiarazione di apertura del dibattimento ex art. 492 c.p.p., alla quale seguono l’esposizione introduttiva (poi abrogata) e le richieste di ammissione delle prove ex art. 493 c.p.p., i provvedimenti relativi all’ammissione ex art. 495 c.p.p. e l’assunzione delle prove secondo le regole stabilite negli artt. 495 ss. c.p.p. Quanto al secondo interrogativo, il giudice di legittimità, ancora in linea con la Corte costituzionale [18], concordava nell’affermare che i verbali delle prove acquisite davanti al collegio poi mutato fanno [continua ..]
Al di là di quanto era rimasto privo di specifico approfondimento da parte delle Sezioni Unite, la ricostruzione così proposta, frutto di un “dialogo tra Corti”, tuttavia – come evidenziato dal remittente [26] – non aveva trovato piena adesione da alcune sezioni su due questioni rilevanti. La prima era relativa al modo di intendere l’identità tra coloro che abbiano partecipato al “dibattimento” e coloro che deliberano, da taluno riduttivamente limitata all’identità con coloro che procedano all’assunzione della prova e alla successiva deliberazione, trascurando la fase pregressa di acquisizione [27]. Nell’ambito dell’indirizzo più restrittivo, meno aderente alla c.d. sentenza Iannasso, si collocava poi una “variante”: ancorché il principio di immutabilità esiga che a decidere sia lo stesso giudice che ha presieduto all’istruttoria, nessuna violazione sussiste se, dopo il provvedimento di ammissione delle prove ma prima dell’inizio dell’istruttoria dibattimentale, muti l’organo giudicante, solo in assenza di obiezione o esplicita richiesta delle parti di rivisitazione dell’ordinanza ex art. 495 c.p.p. [28]. La seconda questione verteva sulla possibilità di desumere il consenso alla rinnovazione del dibattimento, senza ripetizione dell’attività in precedenza svolta, dal mero silenzio delle parti [29]. In senso negativo, alcune pronunce, sia pure minoritarie, stante la valenza neutra del silenzio, richiedevano infatti un quid pluris idoneo a qualificarlo come significativo della volontà di acconsentire all’utilizzo delle prove in precedenza assunte [30]. Questi i temi rimessi alle Sezioni Unite che, tuttavia, già in premessa, ancora prima di evidenziare i motivi del contrasto giurisprudenziale, allargano l’ambito decisorio, rilevando come il precedente dictum della Suprema Corte non avesse chiarito due punti: se la richiesta di rinnovazione della prova spetti soltanto alla parte che aveva esercitato il relativo diritto ovvero anche alla controparte; se il nuovo giudice, investito della richiesta, nel decidere sull’ammissione della prova sia ancorato ai parametri di cui agli artt. 495 e 190, comma 1, c.p.p. ovvero debba ritenersi vincolato ad ammetterla. Da qui l’enunciazione [continua ..]
La composita architettura argomentativa della decisione muove da una premessa ineccepibile, sulla quale, come si è accennato, vi è sempre stata convergenza di vedute: la necessità, in caso di mutamento di un componente del collegio ovvero della persona del giudice monocratico, di ristabilire, in presenza di una sollecitazione di “parte”, il rapporto diretto tra il giudice che dovrà deliberare e la prova dichiarativa [32]. Non può non sottolinearsi, prima di accostarsi alla pronuncia, come l’assunzione della prova, espressione del diritto di difendersi provando, sia un atto che non si ripete in modo sempre uguale [33]; inoltre, la diretta percezione, da parte del decidente, della prova stessa nel suo momento di formazione, consente di «poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche quelli di carattere non verbale, particolarmente prodotti dal metodo dialettico dell’esame e del controesame; connotati che possono rivelarsi utili nel giudizio di attendibilità del risultato probatorio (…)» [34]. Ciò rende evidente la duplice anima dell’immediatezza, quale «proiezione del diritto di difesa» e «preziosa garanzia epistemica» [35]. Se queste sono le basi, analoga esigenza non si manifesta rispetto alle prove precostituite. Pur in assenza di una specificazione, nell’ambito di questa categoria, oltre alla prova documentale sembrano doversi ricomprendere anche i verbali degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero rispetto ai quali si sia realizzato, nel precedente dibattimento, l’accordo acquisitivo ex art. 431, comma 2, c.p.p., fermi restando i poteri del nuovo giudice ai sensi dell’art. 507, comma 1-bis, c.p.p. Addentrandoci nella trama motiva della sentenza, una fondamentale questione da risolvere, anche per i profili sanzionatori legati alla nullità assoluta, attiene all’individuazione del segmento processuale che richiede di essere rinnovato per effetto del mutamento del giudice. La Corte, nella scelta tra un’interpretazione riduttiva – mera coincidenza tra colui che acquisisce la prova e colui che decide – e una volta a valorizzare le dinamiche del procedimento probatorio, mostra di prediligere la seconda, seppure non fino in fondo. La considerazione che l’art. 525, comma 2, c.p.p. utilizza il termine “dibattimento”, sulle [continua ..]
Prima di procedere oltre, occorre un accenno ad un tema rimasto in “penombra”: quello dei riti alternativi, soprattutto per i procedimenti che si celebrano davanti al tribunale in composizione monocratica [44]. Per supportare il principio di conservazione degli atti compiuti dal primo giudice, la Corte richiama, in termini adesivi, alcune pronunce dalle quali si trae, correttamente, che in caso di mutamento della persona fisica del giudice rimane efficace il precedente provvedimento di ammissione del rito alternativo [45]. Allo stesso modo, pertanto, dovrebbe ritenersi efficace la precedente ordinanza che aveva negato l’accesso ad un rito speciale: ne deriva che il giudice, all’esito del dibattimento rinnovato, in caso di condanna, anche se la parte non abbia reiterato la richiesta nel “nuovo” giudizio, potrebbe applicare la riduzione di pena prescritta per il rito. Diversa è la questione se la parte possa presentare per la prima volta una richiesta di accesso ad un rito alternativo [46]. All’interrogativo sembra doversi dare risposta negativa. Ancorché i riti speciali siano espressione del diritto di difesa dell’imputato, seppure in un’accezione diversa dal diritto di difendersi “provando”, il loro recupero andrebbe oltre la finalità della rinnovazione del dibattimento, che è anche quella di tutelare il rapporto diretto tra il giudice che dovrà decidere e la prova: l’accesso al rito si tradurrebbe in una restituzione in termini extra ordinem. Riaperta poi la sequenza procedimentale, la formulazione della richiesta di un rito speciale dovrebbe essere considerata come una sorta di rinuncia alla riassunzione della prova orale in precedenza acquisita, ma contenuta nel fascicolo per il dibattimento e, perciò, pienamente utilizzabile ai fini della decisione finale. Ciò inciderebbe in termini positivi sulla durata del processo, ma segnerebbe altresì uno “snaturamento” dei riti “a prova contratta”.
Nel quadro sin qui tratteggiato, si può riscontrare una uniformità di vedute tra giurisprudenza di legittimità [47] e costituzionale [48] su un punto: in assenza di una disposizione derogatoria, la richiesta di rinnovazione delle prove orali che siano state acquisite nel precedente dibattimento passa per l’iniziativa delle parti processuali (“richiesta”), governata dagli artt. 468 e 493 c.p.p. Di più, la giurisprudenza costituzionale ha espressamente affermato che la parte richiedente la rinnovazione della prova «esercita il proprio diritto, garantito dai principi di oralità e immediatezza che connotano il codice di rito, all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere» [49]. In ogni caso, al di là delle determinazioni delle parti, dovrebbero essere mantenuti i poteri di integrazione probatoria attribuiti al giudice, nei limiti di cui all’art. 507 c.p.p. [50]. Ciò rassegnato, con la pronuncia in esame la Corte di legittimità traccia dei distinguo. Rispetto agli esami che siano già svolti, viene individuato un limite ricavato dalla circostanza che il procedimento di ammissione della prova è disciplinato dal combinato disposto degli artt. 468 e 493 c.p.p. Da qui la conclusione che, sul piano soggettivo, la facoltà di chiedere la rinnovazione degli esami può essere esercitata soltanto da colui che aveva indicato il soggetto da riesaminare nella lista ex art. 468 c.p.p. [51], con l’unica eccezione delle prove che non sottostanno a quel regime. Sul punto si richiama in via esemplificativa l’esame dell’imputato, ma ad analogo regime dovrebbero sottostare gli eventuali confronti tra soggetti che siano stati già esaminati davanti al collegio poi mutato. Sviluppando questo ragionamento, e andando oltre le considerazioni svolte dalle Sezioni unite, se ne trae che la parte “decaduta” potrebbe eventualmente richiederle soltanto ai sensi dell’art. 493, comma 2, c.p.p., previa dimostrazione di non averle potute indicare tempestivamente per ragioni di varia natura [52] e, qualora non riuscisse ad assolvere l’onere probatorio, non le resterebbe che rimettersi alla valutazione del giudice, orientata al più stringente parametro dell’assoluta necessità. Inoltre, la parte priva di legittimazione non [continua ..]
Così ricostruite, pur con alcune incertezze, le modalità che attengono alla legittimazione e agli oneri funzionali all’esercizio del diritto alla prova, occorre proseguire nell’analisi della decisione nel suo nucleo centrale: quello nel quale vengono tracciati i confini di operatività delle disposizioni generali in tema di ammissione delle prove che governano anche questa fattispecie, rintracciati, in linea con le precedenti indicazioni della Cassazione [61] e della Corte costituzionale [62], negli artt. 495, comma 1, e 190 c.p.p. [63]. La soluzione data a questa specifica questione, pur non oggetto di rimessione alle Sezioni Unite, costituisce la cartina di tornasole del modo di intendere la regola dell’immutabilità del giudice. Di fatto, si può sin d’ora anticipare che la Corte ha colto l’occasione, come è stato sottolineato, per indicare alla giurisprudenza «un indirizzo metodologico» [64], al quale non sarà agevole “sottrarsi”. Cominciamo col dire che dalla pronuncia delle Sezioni unite del 1999 in poi, soprattutto in dottrina, ci si è interrogati sui confini del vaglio di non manifesta superfluità [65], richiesto dall’art. 190 c.p.p., unitamente a quello di irrilevanza e non contrarietà alla legge che, tuttavia, non sembrano porre particolari problematiche, almeno nel caso di specie. Secondo un orientamento [66], la non superfluità, esprimendo una relazione causale tra il mezzo istruttorio e gli altri elementi di cui disponga il giudice, richiederebbe un confronto con tutti gli altri atti legittimamente acquisiti al fascicolo per il dibattimento e utilizzabili per la decisione, compreso il verbale di analoga prova assunta dal giudice che lo ha preceduto. Non sono mancate voci contrarie [67], volte ad escludere una valutazione di superfluità fondata sull’esaustività dei verbali frutto del precedente giudizio; ciò, si è osservato, finirebbe col rendere omologabili le nuove dichiarazioni orali alla lettura dei verbali. La prospettiva dalla quale muovono le Sezioni Unite è la prima tra quelle delineate: nell’avvio del ragionamento si legge, infatti, che anche in caso di rinnovazione è attribuito al giudice il potere-dovere di valutare ai sensi degli artt. 495, comma 1, e 190, comma 1, c.p.p. «l’eventuale [continua ..]
Occorre adesso soffermarsi sull’ultimo principio di diritto enunciato dalla Corte: si legge in sentenza che il consenso alla lettura ex art. 511, comma 2, c.p.p. «non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non chiesta, non ammessa o non più possibile». L’affermazione va oltre la questione devoluta che, come anticipato, verteva sulle modalità con le quali interpretare il consenso alla lettura. In sintonia con l’autorevole precedente giurisprudenziale, i giudici premettono che i verbali delle prove originariamente assunte, in quanto documentano attività legittimamente compiute, permangono nel fascicolo per il dibattimento a disposizione del nuovo giudice [85]; sarà la lettura a consentirne l’utilizzazione ai fini della deliberazione della sentenza [86], in funzione ora “integrativa” – dopo il nuovo esame – ora “sostitutiva”, se questo non abbia luogo: ebbene, secondo la Corte, questo inciso assume una più ampia portata rispetto a quanto è dato leggere nella “sentenza Iannasso”. Infatti, ricomprende l’ipotesi in cui la prova sia divenuta irripetibile, ovvero le parti non abbiano chiesto la rinnovazione dell’esame o, pur avendola richiesta, con i limiti sopra evidenziati, il giudice nel valutarla – purché avanzata dalla parte legittimata – l’abbia rigettata ritenendola manifestamente superflua [87]. I profili relativi all’ammissione (mancata) della prova tendono a confondersi con le dinamiche dell’assunzione. In queste situazioni la lettura sarà disposta ex officio, non essendo necessario il consenso delle parti, del pari irrilevante quando la prova sia stata richiesta e ammessa, ma non assunta. Non vi è dubbio che il giudice dovrebbe potere disporre la nuova assunzione delle prove già acquisite davanti al suo predecessore, ricorrendo ai poteri di cui all’art. 507 c.p.p., considerato che il principio di immediatezza trascende l’interesse delle parti.
In conclusione del proprio itinerario, quasi a volere rafforzare la legittimità delle proprie conclusioni, i giudici evocano il confronto con la giurisprudenza della Corte europea, ritenendo che la “rilettura” dell’art. 525, comma 2, c.p.p., sia pienamente “conforme” all’interpretazione che la Corte di Strasburgo promuove rispetto all’art. 6 §§ 1, 3, lett. b) e, soprattutto, d). Ciò segna “un’inversione di rotta” rispetto alle pronunce [88], non troppo datate, che hanno riguardato il tema, non privo di qualche affinità con quello che ci occupa, della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, in caso di overturning sfavorevole. In quella sede, la considerazione della giurisprudenza europea [89] si era tradotta in un ulteriore innalzamento delle garanzie processuali nell’ambito del secondo grado di giudizio [90]. Qui si registra un processo inverso. Tirando le fila, è noto come sin dalla pronuncia resa nel caso P.K. v. Finlandia [91], la Corte europea, pur in assenza di un espresso richiamo al principio di immediatezza, abbia ricompreso tra i requisiti del processo equo anche il diritto dell’accusato di esaminare le persone dichiaranti a suo carico avanti al giudice poi chiamato a pronunciarsi [92]. In particolare, si è affermato che «un elemento importante di un processo equo è anche la possibilità per l’imputato di confrontarsi con il testimone alla presenza del giudice che dovrebbe da ultimo emettere una decisione; tale regola è una garanzia poiché le osservazioni dei giudici riguardo al comportamento e all’attendibilità di un testimone possono avere delle conseguenze per l’imputato. Pertanto, il cambiamento della composizione del Tribunale dopo l’audizione di un testimone decisivo comporta normalmente una nuova audizione di quest’ultimo» [93]. Tuttavia, la stessa giurisprudenza europea – che si rammenta è chiamata a pronunciarsi sull’equità del processo nel suo complesso, secondo una valutazione ex post – non ha esitato ad ammettere delle eccezioni, in presenza di circostanze particolari, ai principi dell’oralità del dibattimento e della conoscenza diretta da parte del giudice [94]. Così, il diritto di confrontarsi [continua ..]
È tempo di abbozzare qualche scenario per il futuro. In questo senso, non può disconoscersi come sul decisum delle Sezioni Unite abbia inciso quanto affermato dalla Corte costituzionale nell’ultima sentenza in argomento [105]: nello specifico, tra i “meccanismi compensativi” invocati da quest’ultima per «salvaguardare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale» vi è l’esplicita menzione della videoregistrazione delle prove dichiarative, almeno nei procedimenti più complessi. Ponendosi sulla stessa lunghezza d’onda, per le Sezioni Unite il problema della mediazione tra le effettive dichiarazioni e la relativa verbalizzazione «si sdrammatizza» qualora le dichiarazioni rese in dibattimento davanti al giudice diversamente composto «siano state integralmente verbalizzate stenotipicamente, con contestuale registrazione fonografica». Al punto che in presenza di questo ausilio tecnico si può configurare “una giusta ragione” per non disporre la pedissequa ripetizione dell’esame; leggendo tra le righe si legittima la rinuncia sempre e comunque alla rinnovazione davanti al nuovo giudice. In questa “sollecitazione” si avverte l’eco della proposta di modifica dell’art. 190-bis c.p.p. avanzata dalla Commissione Gratteri [106], con la specifica finalità di trovare una soluzione ai casi di rinnovazione per mutamento del giudice [107]. A tenore, infatti, del comma 2 [108], «Il giudice, anche su richiesta di parte, può disporre l’esame dei soggetti indicati nel comma 1 se lo ritenga necessario sulla base di specifiche e comprovate esigenze o qualora sia indispensabile per valutare l’attendibilità del dichiarante. 3. Nel caso previsto dal comma 2 l’esame non è ammesso se l’assunzione del mezzo di prova è stata documentata tramite videoripresa effettuata con apparecchiature in dotazione all’Ufficio, salvo che sia assolutamente necessario». Per effetto dell’inciso finale si lascerebbe un margine al giudice per eventualmente riconvocare il testimone allo scopo di completarne l’esame con la richiesta di chiarimenti o l’indicazione di temi rimasti a suo tempo inesplorati (art. 506 c.p.p.). La strada per il legislatore è ora definitamente tracciata, con il pieno avallo [continua ..]