La Corte costituzionale riconosce l’inammissibilità per manifesta infondatezza come causa preclusiva della declaratoria di non punibilità perché il fatto non costituisce reato, secondo il mutato orientamento giurisprudenziale. Si vuole dimostrare che, pure se il ricorso fosse stato ammissibile, ancorché infondato, la questione di costituzionalità non poteva essere risolta in via interpretativa, trattandosi di una norma invalida ab origine.
The Constitutional Court recognizes the inadmissibility for manifest groundlessness as a preclusive cause of the declaration of non punishment because the fact does not constitute a crime, according to the changed jurisprudential orientation. We want to demonstrate that, even in the hypothesis in which the appeal had been admissible, even if groundless, the question of constitutionality could not be resolved by way of interpretation, since it is an invalid rule ab origine.
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I limiti dell’interpretazione adeguatrice - La rilevanza della questione di legittimità costituzionale. - Lo scivoloso crinale tra manifesta infondatezza dei motivi e mera infondatezza. - L’erosione giurisprudenziale degli spazi operativi dell’art. 129 c.p.p. - La differenziazione della metodica di accertamento - Gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale - NOTE
Come epilogo naturale di un dialogo ‘disteso’ tra le Corti, si è pervenuti alla pronuncia del giudice delle leggi [1], che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, del d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui prevede come delitto la violazione delle prescrizioni, inerenti alla misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi». In relazione a tale fattispecie si era già pronunciata la Corte di Strasburgo [2], che ne aveva ‘censurato’ l’eccessiva indeterminatezza e, quindi, l’imprevedibilità delle conseguenze. Eppure, l’argine alla componente prognostica del giudizio di prevenzione è costituito proprio dalla descrizione normativa delle condotte: la sola fonte giustificatrice delle limitazioni dei diritti inviolabili implicati, che presuppone la tassatività e la definizione precisa dei contenuti giuridici. Tra i presupposti per la legittimità delle misure restrittive della libertà vi è, appunto, la conformità alla legge, congiuntamente alla necessità di assicurare la tutela di una delle esigenze, elencate dall’art. 2, comma 3, Prot. n. 4 ed alla realizzazione di un giusto equilibrio tra l’interesse pubblico ed i diritti dell’individuo [3]. È, dunque, la delicata funzione del mezzo a richiedere tecniche di redazione legislativa, quanto più connotate da chiarezza, essendo quest’ultima essenziale al coordinamento dei testi, all’orientamento dei comportamenti e, quindi, all’efficienza del controllo. Sicché il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidatasi ovvero, ai sensi dell’art. 8 del Prot. 14 alla Cedu, a quella giurisprudenza uniformemente applicata dalla Corte europea, qualora sulla questione di principio si sia pronunciata la Grande Camera. La sentenza de Tommaso [4] ne costituisce una pregnante esemplificazione: essa è apprezzabile, soprattutto sotto il profilo del vulnus di determinatezza, accertato con riferimento alla legge n. 1423 del 1956 (oggi, in parte, trasfusa nel d.lgs. 159 del 2011) per la genericità della prescrizione di «vivere onestamente e di [continua ..]
Dunque, non si vuole mettere in discussione la rilevanza della questione di legittimità costituzionale; né potrebbe essere altrimenti, essendo per noi insuperabile il margine rappresentato dalle inderogabili esigenze di legalità/prevedibilità, cioè, dalla linea segnata dagli articoli 25 commi 1, 2; 27 commi 1, 2 e 3; e 111 Cost. Oltre questa linea, sarebbe difficile evitare una violazione all’uguaglianza di trattamento di cui all’art. 3 Cost.; quest’ultimo, tra tanto altro, esige che l’interpretazione giudiziale sia costante e che, nello stesso arco temporale, non muti da caso a caso, da giudice a giudice: la garanzia dell’uguaglianza implica la prevedibilità dell’interpretazione [10]. A non convincere è l’impostazione della questione: essa presenta un vizio di metodo, essendo radicata nelle strettoie processuali dell’inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza. Ma v’è di più. Il giudice delle leggi, addirittura, ha precisato che «solo se il ricorso fosse stato ammissibile, ancorché infondato, le questioni di costituzionalità avrebbero potuto essere risolte in via interpretativa e sarebbero risultate prive di rilevanza perché il giudice di legittimità ben avrebbe potuto rilevare che, secondo il mutato orientamento giurisprudenziale, la condotta contestata non costituisse reato» [11]. Il che significa che l’inammissibilità per manifesta infondatezza è stata ricostruita – anche dalla Corte costituzionale – come causa preclusiva della declaratoria di non punibilità perché il fatto non costituisce reato secondo la mutata ricostruzione esegetica. Eppure, altro è il problema. La carenza di legalità non è suscettibile di essere sanata con l’interpretazione adeguatrice, perché – qualora si applicasse questo strumento – si eleverebbe il diritto convenzionale a causa di abrogazione della fattispecie penale, prevista dall’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 [12]. Ciò se, per un verso, sarebbe compatibile con il principio di legalità di cui all’art. 7 Cedu, non lo sarebbe, invece, con gli artt. 3 e 25 comma 2 Cost. Si ricorda che il precedente giurisprudenziale, anche se proveniente dalle Sezioni Unite, non è [continua ..]
A ciò si aggiunga che l’infondatezza rinvia, concettualmente, ad un’accezione inerente alla ‘sostanza’ della doglianza: il rilievo non è alterato dalla qualificazione legislativa ‘manifesta’. Eppure, il vaglio di ammissibilità dell’impugnazione ha natura preliminare, essendo volto a verificare le condizioni per l’accesso alla giurisdizione di controllo: una verifica che precede, necessariamente, la fase del merito [15]. Il legislatore, nell’ottica meramente deflattiva, ammette la commistione fra le due sequenze, anticipando la valutazione di merito alla fase preliminare inerente alla forma dell’atto impugnatorio. Da qui si origina la contraddittorietà intrinseca. Se l’inquadramento sistematico dell’inammissibilità, nell’ambito delle sanzioni processuali, è opinione condivisa [16], soprattutto per l’efficacia preclusiva rispetto al merito, essa diventa – eccezionalmente – un connotato intrinseco del motivo a causa della manifesta infondatezza, riscontrata, però, soltanto dopo averne valutato il contenuto. La sequenza della successione teleologica degli atti non differisce da quella che conduce all’accoglimento o al rigetto del ricorso. E se il versante di legittimità formale dell’impugnazione ha ad oggetto la verifica dell’idoneità dell’atto introduttivo a determinare l’accesso alla giurisdizione di controllo, l’inammissibilità, quale vizio dell’atto, impedisce la progressione processuale: non si può provvedere nel merito a causa della mancanza delle condizioni di instaurazione del procedimento, essendo i presupposti e i requisiti processuali posti a garanzia della legalità del procedere. Il frazionamento tra la valutazione di ammissibilità e l’accertamento della fondatezza dell’impugnazione è strumentale al riscontro di ogni fatto essenziale alla decisione, primo fra tutti, l’osservanza delle forme. L’evoluzione esegetica ha subito una battuta di arresto sul piano delle garanzie, riscontrabile nel principio di diritto secondo cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi «non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di [continua ..]
Quanto al distinguo, di matrice giurisprudenziale, tra cause d’inammissibilità originarie e cause sopravvenute [22], esso si radica, strutturalmente, nella peculiare configurazione dell’atto impugnatorio secondo l’esperienza giuridica previgente, in cui l’atto si perfezionava secondo una precisa scansione temporale: prima la dichiarazione di impugnazione (artt. 197 e 199) e, poi, la presentazione dei motivi (art. 201). Le prime esplicavano efficacia nel momento genetico, impedendo non solo l’instaurazione del nuovo grado di giudizio, ma anche l’operatività di disposizioni più favorevoli all’imputato, come le cause di non punibilità di cui all’art. 152 c.p.p. del 1930. Viceversa, le seconde derivavano da circostanze esterne e successive alla dichiarazione d’impugnazione ammissibile (es. l’omessa o irregolare presentazione dei motivi): esse non precludevano l’applicabilità dell’art. 152 c.p.p. del 1930, giacché non ponevano in discussione la valida instaurazione del rapporto d’impugnazione. Di conseguenza, la deroga all’obbligo di immediata declaratoria di non punibilità era da rinvenirsi nell’esito negativo dell’accertamento dei requisiti minimi prescritti per l’atto introduttivo. La presentazione di un ricorso difforme dal modello legale ritardava soltanto il giudicato formale, essendo quello sostanziale formatosi contestualmente alla proposizione dell’atto invalido, con l’ulteriore conseguenza dello sbarramento a qualsiasi verifica giudiziale, diversa da quella preliminare, e assorbente, di inammissibilità. Altrettanto non poteva ritenersi per l’ipotesi di conformità del ricorso alla forma prescritta, ipotesi compatibile con l’esercizio della giurisdizione e dei poteri cognitivi ovvero con l’immediata declaratoria di cause di non punibilità da parte del giudice ad quem. Ma v’è di più. Si assumeva che l’obbligo di proscioglimento avesse carattere prioritario rispetto ad ogni altra valutazione; ne derivava, pertanto, la sua pregiudizialità rispetto alla declaratoria di inammissibilità nei seguenti casi: a) mancanza di interesse; b) esposizione non specifica dei motivi; c) proposizione di motivi non consentiti dalla legge; d) proposizione di motivi manifestamente [continua ..]
Va, peraltro, posto in debito risalto che con la riforma Orlando è venuto meno uno dei perni fondamentali su cui si basava la ricostruzione, in termini di unitarietà, della categoria di inammissibilità: la comune metodica di accertamento delle eterogenee situazioni. Più specificamente, l’interpolazione normativa del comma 5-bis, all’interno della disposizione di cui all’art. 610 c.p.p., prevede un modulo di declaratoria di inammissibilità «senza formalità di procedura» [38]. L’ambiguità della locuzione non è discutibile: essa lascia margini eccessivamente ampi di interpretazione in ordine alla successione teleologica degli atti, affidandola alla prassi; nè vi sono dubbi che si traduca nell’attestazione della superfluità del contraddittorio, sia pure cartolare, con riferimento a specifiche inosservanze. Si tratta di vizi formali di facile accertamento e di difficile contestazione, identificati sulla base del modello delineato dall’art. 591 c.p.p. Il comma 5 bis rinvia alla carenza di legittimazione, al provvedimento non impugnabile, alla violazione delle disposizioni degli artt. 582, 583, 585 e 586 c.p.p., alla rinuncia all’impugnazione, aggiungendo a queste ultime il ricorso contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, per motivi diversi da quelli prescritti dall’innovata formulazione dell’art. 448, comma 2-bis, c.p.p., ed il ricorso contro la sentenza pronunciata ex art. 599-bis c.p.p. A queste previsioni segue la norma di chiusura, che prevede la possibilità di impugnare la pronuncia di inammissibilità con il rimedio straordinario di cui all’art. 625-bis c.p.p. Dal punto di vista sistematico, essa è orientata a comprendere tutte le situazioni rappresentate nel comma 5-bis. A ciò si aggiunga che la sezione c.d. filtro, che ha il compito di procedere allo smistamento dei ricorsi, non è dotata di un organico adibito esclusivamente a tale funzione, né di un ufficio centralizzato alle dirette dipendenze del Primo Presidente. Si è mantenuta, cioè, l’organizzazione degli uffici-spoglio, presenti nelle sei sezioni penali e formati da magistrati, che provvedono ad una prima selezione, su delega del Primo Presidente [39]. L’assegnazione alle singole sezioni competenti [continua ..]
I condizionamenti di questi incisivi passaggi, giurisprudenziali e legislativi, consentono di percepire il sottile problema concernente il profilo di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento all’art. 75, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, giacché soltanto la dichiarazione di illegittimità configura una situazione assimilabile all’abolitio criminis, compatibile con l’ambito di attività dell’art. 129 c.p.p., anche qualora il ricorso sia inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi [40]. Si tratta, invero, di un precedente giurisprudenziale secondo cui l’abolitio criminis va rilevata indipendentemente dall’oggetto dell’impugnazione, per ragioni di economia processuale, che impongono di evitare una pronuncia di inammissibilità, il cui unico effetto sarebbe quello di rinviare la declaratoria di abrogazione del reato alla fase esecutiva [41]. Da qui l’anticipazione degli esiti obbligati della fase esecutiva, dal momento che i casi di abolitio criminis e di dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice comportano la revoca della sentenza di condanna da parte del giudice dell’esecuzione (art. 673 c.p.p.) [42]. L’idea di fondo è che una condanna definitiva a pena illegale – soprattutto se derivante dall’abrogazione o dalla declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice – debba essere rettificata dal giudice dell’esecuzione, per assicurare l’effettività del principio nullum crimen, nulla poena sine lege sancito dall’art. 25, comma 2, Cost. e dall’art. 7 Cedu, poiché la tutela dei diritti, costituzionalmente e convenzionalmente garantiti, non può non prevalere sull’intangibilità del giudicato. La tesi, peraltro, trova fondamento in numerose pronunce delle Sezioni Unite, con riferimento ai rapporti tra inammissibilità per manifesta infondatezza e abrogazione del reato [43]. Dal punto di vista sistematico, ne discende che le ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, riconducibili all’art. 2 c.p., resistono alla ‘regola’ giurisprudenziale di preclusione della rilevanza d’ufficio delle cause di non punibilità, anche in presenza di ricorso [continua ..]