Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La messa alla prova nell'esperienza giurisprudenziale: un faticoso percorso verso l'allineamento costituzionale (di Maria Chiara Saporito)


Il contributo, ripercorrendo i principali arresti giurisprudenziali in tema, illustra la singolare parabola interpretativa che ha coinvolto l’istituto della messa alla prova. Per diversi anni l’interprete si è prudentemente mosso all’interno delle categorie dogmatiche tradizionali, non riuscendo, pur tuttavia, ad esorcizzare il rischio di un rigetto costituzionale per incompatibilità con la presunzione di innocenza. Nel 2018, finalmente, la Consulta ha riconosciuto l’atipicità del probation e la sua estraneità al classico vocabolario della pena, non fornendo però valide definizioni alternative. Il testimone, dunque, passa oggi nuovamente agli operatori, i quali, se vorranno, potranno trovare nel paradigma della giustizia riparativa le coordinate per leggere le peculiarità del rito come risorse, e non già minacce, per il sistema penale.

Probation in the jurisprudential experience: a tiring journey towards the constitutional alignment

The essay, tracing the main jurisprudential arrests on the subject, illustrates the singular interpretative parable of probation. For several years the interpreter has prudently moved within the traditional dogmatic categories, failing, however, to exorcise the risk of a constitutional rejection for incompatibility with the presumption of innocence. In 2018, finally, the Constitutional Court recognized the atypical nature of probation and its extraneousness to the classic vocabulary of punishment, without providing valid alternative definitions. Today the baton is passed again to the operators, who will be able to find in the paradigm of restorative justice the code to translate the peculiarities of probation into resources, not threats, for the penal system.

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SOMMARIO:

Il vizio d’origine dell’istituto - Un beneficio polivalente - I primi arresti della Consulta: il diritto alla messa alla prova come “diritto al rito premiale” - La concezione sanzionatoria della misura nella giurisprudenza di legittimità - Profili d’incostituzionalità dell’equiparazione alla pena - La Corte Costituzionale supera l’ostacolo: la messa alla prova non è una sanzione penale - Gli scenari possibili oltre le categorie tradizionali - La disciplina processuale come fortezza garantista per l’applicazione della giustizia riparativa - Gli scopi riparativi quale nuova linfa vitale per la premialità - NOTE


Il vizio d’origine dell’istituto

Nonostante gli ottimi risultati pratici raggiunti in questo primo quinquennio, l’istituto della messa alla prova continua a scontare una singolare vulnerabilità sul piano teorico. All’origine delle perplessità sin da subito manifestate dalla dottrina e non ancora fugate dalla giurisprudenza, la particolare natura del nuovo rito speciale, che sospende il procedimento ordinario per innestarvi un programma di rieducazione [1] in grado di condurre, eventualmente, all’estinzione del reato. Un tale meccanismo ha immediatamente prestato il fianco a prevedibili obiezioni sul piano dei principi. Gli obblighi imposti al probando (osservanza delle prescrizioni, lavoro di pubblica utilità e, ove possibile, eliminazione delle conseguenze dannose dell’illecito), per quanto consensualmente assunti, presentano, infatti, una carica afflittiva tale da renderne istintiva l’assimilazione al trattamento sanzionatorio di regola disposto con il provvedimento di condanna [2]. Di qui il pericolo, da molti denunciato, che la messa alla prova si risolva in un espediente processuale funzionale all’irrogazione di una vera e propria pena ante iudicatum, con grave attentato alla presunzione di innocenza. Le insidie che sembrano annidarsi in questo apparente stravolgimento tra cognizione ed esecuzione nascono, in realtà, dalla frettolosa equiparazione tra trattamento di prova e sanzione. Un’equiparazione che, come si vedrà, perde di pregio nel momento in cui il focus viene portato su un elemento portante della disciplina: la volontarietà che non solo investe la scelta del rito ma la stessa esecuzione delle prescrizioni. Tale volontarietà, in uno con il carattere riparativo degli impegni assunti, costituisce la cifra davvero originale dell’istituto e, allo stesso tempo, la chiave per un’interpretazione conforme ai canoni del sistema penale.


Un beneficio polivalente

Come noto, la sospensione del procedimento con messa alla prova, dopo una travagliata gestazione, viene finalmente alla luce con la legge n. 67 del 28 aprile 2014 [3]. La disciplina si articola tra codice sostanziale e di rito, e più precisamente tra cause di estinzione del reato (artt. 168-bis c.p. e ss.) e procedimenti speciali (artt. 464-bis c.p.p. e ss.) [4]. Con questa scelta normativa il legislatore cala nel concreto lo schema del probation [5] giudiziale: la prova è disposta nel corso del procedimento [6] e determina, in caso di esito positivo, la rinuncia dello Stato alla propria pretesa punitiva. Dopo aver dato buona prova di sé nella giustizia minorile [7], il probation giudiziale approda nel procedimento a carico di adulti con alcuni correttivi assai “eloquenti” sul piano valoriale. Anzitutto, la fruibilità della messa alla prova per adulti è condizionata da alcuni sbarramenti all’accesso (soggettivi e oggettivi) [8], che risultano assenti, invece, nell’archetipo minorile, rivolto in potenza ad ogni tipologia di imputato, per qualsiasi fattispecie di reato contestata. La scelta di restringere il bacino dei destinatari appare dettata da esigenze di sicurezza sociale e prevenzione generale che si pongono invece come secondarie rispetto alla riabilitazione del giovane. Ulteriormente discostandosi dal modello minorile, la messa alla prova per adulti è sempre subordinata non solo al consenso dell’imputato ma anche a una precisa iniziativa procedimentale assunta mediante formulazione di un’espressa istanza. Entrambi gli scostamenti rispetto alla traccia ispiratrice – la volontarietà e i rigorosi limiti di applicabilità – segnalano un deciso superamento di quell’ottica puramente specialpreventiva che patrocina l’o­pe­ratività incondizionata, finanche malgrè lui, della misura per il minore. Agli obiettivi di reinserimento sociale, si accompagnano qui chiari obiettivi di deflazione giudiziaria e carceraria. Il dirottamento in prova di taluni procedimenti costituisce infatti una delle iniziative messe in atto dal legislatore nella strategia di contrasto al sovraffollamento delle carceri [9], attivata in risposta alle pesanti pressioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. [10]


I primi arresti della Consulta: il diritto alla messa alla prova come “diritto al rito premiale”

Le intenzioni deflattive, mai dissimulate nel corso dei lavori parlamentari, riflettono indubbiamente quella logica di scambio, tra richiedente e Stato, che è motore dei procedimenti speciali [11]. Mediante il consenso al rito l’imputato rinuncia alla garanzia della cognizione dibattimentale in vista di un trattamento sanzionatorio che, per quanto anticipato e ineludibile, si prospetta più mite rispetto a quello che, altrimenti, seguirebbe a una pronuncia di condanna. Dall’altra parte, lo Stato abdica alla propria funzione di accertamento, così risparmiando sui relativi costi: sovraccarico giudiziario ed esubero delle carceri. Trovano così ragion d’essere i già ricordati filtri di ammissibilità, che, riservando il beneficio a ipotesi di scarso allarme sociale, sembrano proprio certificare l’intenzione di conciliare negozialità e prevenzione generale. Sul richiamo al genus dei procedimenti speciali si è appiattita per molto tempo la giurisprudenza costituzionale, chiamata a completare una disciplina per molti versi lacunosa sul piano applicativo. In questo senso, spicca, per particolare rilevanza pratica, la pronuncia con cui la Corte Costituzionale ha affrontato la questione intertemporale, concernente la possibilità di ricorrere al rito nell’ambito di procedimenti per i quali, al momento dell’entrata in vigore della novella, fossero scaduti i termini per la richiesta. In assenza di una specifica norma transitoria, la soluzione positiva dipendeva dall’at­tuazione del principio sostanziale della retroattività della lex mitior (art. 2, comma 4, c.p.) in luogo di quello processuale del tempus regit actum (art. 11 delle preleggi) [12]. In dottrina, erano state espresse opinioni contrastanti: per taluni [13], trattandosi di causa di estinzione del reato e, dunque, di istituto di favore, ci si sarebbe dovuti affidare alla regola di cui all’art. 2, comma 4, c.p. [14] Per l’indirizzo opposto, anche volendo sostenere la natura prevalentemente sostanziale della messa alla prova, la circostanza che la legge consenta, in ipotesi, l’estinzione del reato non sarebbe sufficiente per poter parlare di lex mitior, giacché il beneficio non è effetto certo, ma solo possibile dell’esecuzione del programma [15]. Venuta a pronunciarsi con [continua ..]


La concezione sanzionatoria della misura nella giurisprudenza di legittimità

Con un approccio completamente diverso, la Cassazione ha sin da subito preso atto dei potenziali attriti con il canone nulla poena sine judicio, esprimendosi con enunciati anche forti. Icastica la definizione di “criptoprocesso” che, coniata dai primissimi commentatori dell’istituto, è stata appunto presa in prestito, con convinzione, dalle Sezioni Unite nella sentenza che ha affrontato il tema dell’impu­gnabilità dell’ordinanza di rigetto all’istanza di messa alla prova [25]. A sollecitare l’intervento del Collegio, il contrasto giurisprudenziale formatosi sulla portata dell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p., il quale stabilisce la facoltà per l’imputato e il pubblico ministero di ricorrere in cassazione contro l’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova. Il dato normativo, nella sua asciuttezza, si era prestato a due letture diametralmente opposte. Senza addentrarsi nelle relative argomentazioni [26], si può in breve ricordare come una prima corrente giurisprudenziale avesse ritenuto che la norma consentisse l’imme­diata e autonoma ricorribilità in cassazione di qualsiasi provvedimento decisorio, sia esso ammissivo che reiettivo [27]. Per altro indirizzo, avrebbe invece trovato applicazione il regime generale stabilito dall’art. 586 c.p.p. per le ordinanze dibattimentali, ricorribili solo congiuntamente all’impugnazione (in appello) della sentenza di primo grado [28]. In quest’ultimo senso si esprimeva anche la Suprema Corte, spiegando come «nella fase del vaglio dell’ammissibilità il giudice, seppure in base ad un accertamento sommario, anticipa un “criptoprocesso” sul fatto, sull’autore e sulle conseguenze della messa alla prova». Di qui la necessaria valutazione degli aspetti relativi al profilo trattamentale ed esecutivo, e dunque, l’urgenza di garantire le esigenze difensive dell’imputato attraverso il diritto all’appello. Solo tale rimedio consentirebbe, infatti, nei limiti dei motivi dedotti, una verifica integrale delle valutazioni discrezionali poste a fondamento del diniego [29]. Perno argomentativo della pronuncia è la concezione sanzionatoria/rieducativa del trattamento e, dunque, l’idea che, al pari della pena, l’ammissione al programma richieda un convincimento del giudice nel [continua ..]


Profili d’incostituzionalità dell’equiparazione alla pena

Nell’analisi della produzione giurisprudenziale è possibile individuare due orientamenti tra loro distinti per un’opposta concezione del giudizio fattuale posto a fondamento del provvedimento di ammissione al rito [32]. Secondo un primo modello, qualificato come “cognitivo”, l’aspirazione rieducativa del programma presupporrebbe il convincimento del giudice nel senso della responsabilità penale del richiedente [33]. Tale convincimento maturerebbe proprio all’esito di un “criptoprocesso”, ossia di un giudizio “silente” sulla fondatezza dell’addebito, condotto sulla scorta di un assetto probatorio precario e minato dall’assenza di contraddittorio [34]. D’altra parte, invece, si afferma che la verifica in fatto si limiterebbe alla sussistenza delle condizioni per l’immediato proscioglimento ex art. 129 c.p.p. [35], sicché la concessione della misura dipenderebbe da un mero automatismo applicativo, senza indagine nel merito della colpevolezza. Le contrapposizioni che possono rintracciarsi sul piano della factual basis non contribuiscono in realtà a risolvere il punctum pruriens dell’istituto. Entrambe le tesi, infatti, parificano il trattamento della prova ad una pena, dissentendo solo sul “congegno” processuale atto a giustificarne l’anticipazione alla fase cognitiva. Non viene così toccato il nocciolo della questione, ossia l’apparente distonia rispetto alla presunzione di innocenza, che, nel suo contenuto minimo, subordina l’irrogazione della sanzione – detentiva e non – ad una pronuncia definitiva che dichiari il destinatario meritevole di rimprovero. Su quest’aspetto, peraltro, si è molto dibattuto anche in ambito minorile, giungendo infine a conclusioni sufficientemente rassicuranti. Fondamentale è stato prendere atto della peculiarità dell’intero sistema, costruito, più che per punire, per “plasmare” un soggetto la cui devianza si presume espressione di temporaneo disagio e non imago di una scelta esistenziale. Di qui la vocazione del legislatore minorile a contestualizzare l’esperienza del procedimento penale all’interno del processo di sviluppo del minore e a preferire, dunque, strumenti che, come la messa alla prova, valorizzino [continua ..]


La Corte Costituzionale supera l’ostacolo: la messa alla prova non è una sanzione penale

Ad aprire una breccia in questo sconfortante panorama la sentenza 91/2018, con cui la Consulta ha accreditato la compatibilità dell’istituto con il dettato costituzionale, confutando il dato di partenza di ogni tesi fino allora formulata che voleva il trattamento in prova ricondotto a una “sanzione penale”. L’occasione per una precisa presa di posizione sull’aspetto sostanziale della misura [39] è stata offerta dal Tribunale di Firenze, il quale sollevava incidente di costituzionalità sull’art. 464-quater, comma 1, c.p.p., ritenuto in contrasto con gli artt. 3, 111, comma 6, 25, comma 2 e 27, comma 2, Cost. La prima questione rimessa alla Corte riguardava la mancata previsione all’interno della norma censurata della facoltà per il giudice del dibattimento di acquisire e valutare gli atti delle indagini preliminari ai fini della decisione sulla messa alla prova. La questione è stata risolta dalla Corte piuttosto agilmente nel senso della sua infondatezza: ad avviso dei Giudici il rimettente avrebbe, infatti, omesso di considerare la strada del­l’interpretazione costituzionalmente conforme, percorribile mediante applicazione analogica dell’art. 135 disp. att. La norma, prevista in materia di patteggiamento, attribuisce all’organo giudicante il potere di ordinare l’esibizione degli atti contenuti nel suddetto fascicolo fini della decisione sulla richiesta di pena concordata. L’estensione della disposizione ad altri riti è ormai largamente ammessa in giurisprudenza [40] e, poiché tra i riti speciali è ora compreso anche quello di messa alla prova, è dunque qui ugualmente valida [41]. Nel suggerire all’interprete di attingere alla tradizione interpretativa dei riti speciali, la Corte non si avventura certo per sentieri inesplorati. Questa iniziale prudenza viene tuttavia messa da parte nel momento in cui la Corte affronta l’argomento forte dell’ordinanza di rimessione: ossia l’asserito contrasto degli artt. 464-quater e 464-quinquies, c.p.p. rispetto alla presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27, secondo comma, Cost., così come motivato dal rimettente sulla base di due profili: l’ina­de­guatezza dell’accertamento storico e l’assenza di una pronuncia formalmente riconducibile al genus della [continua ..]


Gli scenari possibili oltre le categorie tradizionali

Senza timore di esagerare, si può affermare che il dictum della Corte possieda tutte le potenzialità per affermarsi come spartiacque tra il passato e il futuro dell’esegesi della messa alla prova. E questo non perché fornisca tutte le risposte, ma perché, liberando l’interprete dalle sabbie mobili dell’impo­stazione tradizionale, lo abilita finalmente a cercare quelle risposte altrove. L’opportunità non è stata colta, a dire il vero, dall’unica pronuncia costituzionale successiva, in cui la Corte ha continuato ad argomentare sulle note similitudini con la pena [46]. Ad un interprete più volenteroso, l’arresto offre quantomeno una bussola nella ricerca di classificazioni dell’istituto alternative a quella sanzionatoria. Si tratta del concetto di “volontarietà”, che illumina tutta la motivazione e sembra orientare il lettore verso l’universo della giustizia riparativa. [47] Un universo che ruota, appunto, intorno all’asse del consenso, concepito come assunzione di un impegno attivo da parte dell’autore di reato alla ricostruzione del patto sociale infranto con la propria condotta criminosa. Un universo in cui d’altro canto, lo stesso Stato muta ruolo, facendosi carico di promuovere una rieducazione non stigmatizzante del reo e di offrire riconoscimento alla persona offesa. Ebbene, questo modello di giustizia sembrerebbe aver avuto un forte ascendente nella definizione legislativa dei contenuti del programma di prova. Prendendo le mosse dalle prescrizioni direttamente ascrivibili allo strumentario della restorative justice, il programma contempla, ai sensi dell’art. 464-bis, comma l., c.p.p., «le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa». Si tratta di un fondamentale momento di confronto tra reo e vittima, che si appunta non tanto sulla qualificazione giuridica dell’evento storico ma sul riconoscimento del suo disvalore soggettivo, ossia sulla portata che esso ha avuto nella vita degli interlocutori [48]. Attraverso la stessa lente può leggersi il riferimento, di cui all’art. 168-bis, comma 2, alla «prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato» nonché al «risarcimento del danno cagionato, ove possibile». [continua ..]


La disciplina processuale come fortezza garantista per l’applicazione della giustizia riparativa

Escludere la natura sanzionatoria dell’istituto non vuol dire affrancarne i contenuti dalle garanzie costituzionali che regolano ogni forma di risposta statale all’illecito. Anzi, si può affermare che la messa alla prova rappresenti un valido banco di prova per l’attuazione del paradigma riparativo all’interno di un contesto di giustizia formale: proprio per mezzo di quei congegni a lungo criticati, infatti, si recepisce l’input a considerare la reintegrazione dell’offesa quale obiettivo (com)primario del diritto penale, al contempo, però, salvaguardando i principi cardine di quest’ultimo. Intanto, la scelta di meccanismi riparativi “istituzionalizzati” scongiura ogni rischio di violazione del principio di obbligatorietà che disciplina l’azione penale (art. 112 Cost.). Solo in virtù del suo regolare esercizio, infatti, si potrà parlare di un procedimento penale il cui corso dirottare verso esiti differenti da quelli della celebrazione del processo e della pena [59]. Anche la verifica sommaria del fatto storico prescritta dall’art. 464-quater, comma 1 c.p.p., assume in questa prospettiva tutt’altro pregio, mutando da malferma base del piedistallo sanzionatorio a solida garanzia per l’imputato. Il controllo giudiziale lo tutela infatti dall’assumere impegni riparativi quando difettino le condizioni per procedere, risulti l’infondatezza del fatto o l’estraneità del soggetto [60]. In piena coscienza della carica afflittiva della misura, non si può rinunciare a un apprezzamento, seppur blando, dell’esistenza del fatto, della sua tipicità e del coinvolgimento del richiedente, per quanto non ancora definito in termini di responsabilità penale. Così, appurata una evidenza di innocenza, la vicenda giudiziaria deve concludersi, non trovando ragion d’essere altro epilogo che l’immediata fuoriuscita del soggetto dal circuito penale. D’altro canto, la verifica della tipicità formale assicura il procedimento da preoccupanti infiltrazioni antilegalitarie [61], facendo coincidere il perimetro di azione della restorative justice con quello del penalmente rilevante. Si impedisce, cioè, che la giustizia riparativa trascini la risposta dello Stato su fatti ab origine estranei al suo controllo, prevenendo così il [continua ..]


Gli scopi riparativi quale nuova linfa vitale per la premialità

L’incursione di concetti riparativi non rappresenta, a dire il vero, un’assoluta novità per il nostro ordinamento penale. Negli ultimi tempi il legislatore si è mostrato, in effetti, particolarmente propenso ad avvalorare, in termini giuridici, il positivo contegno post factum del reo. I picchi più intensi [65] di questa tendenza si sono registrati nell’ambito di “microsistemi” della giurisdizione penale, con la messa alla prova minorile (art. 28 d.p.r. 448/88) e l’estinzione del reato per condotte riparative nei procedimenti dinanzi al giudice di pace (all’art 35 d.lgs. 274/2000) [66]. Ma la sperimentazione ha investito anche il processo ordinario, con l’inserimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) e il potenziamento, in senso riparativo, di istituti già collaudati. Si pensi all’oblazione discrezionale, che, pur originando nel codice (art. 162-bis c.p.), [67] rileva oggi quale causa di estinzione per le contravvenzioni in materia di sicurezza e igiene del lavoro ex art. 24 d.lgs. 758/2004. Il meccanismo che accomuna gli istituti citati [68] è piuttosto lineare: condotta riparativa – estinzione del reato. Quest’operazione, all’apparenza banale, presenta un significato giuridico complesso: l’atti­vazione del soggetto nella rimozione delle conseguenze del reato non è imposta dall’ordinamento a titolo di risposta “penale” bensì è volontaria e, per ciò, in grado di svuotare il precedente comportamento della propria antigiuridicità. Laddove la sanzione mira ad attestare definitivamente il disvalore del fatto e ad esprimere la disapprovazione dell’ordinamento, la riparazione offre la chance all’autore e agli altri protagonisti dell’evento di affermare – e vedere affermato – un fatto nuovo e diverso rispetto al doloroso vissuto del crimine. Riassorbendone l’offesa, la riparazione è in grado di incidere “retroattivamente” sullo stesso disvalore del reato, fino ad esaurirlo e ad annullare la stessa necessità della pena [69]. Nell’arretramento dello Stato non vi è tuttavia alcun atto di pietismo: come sostenuto da un’eccellente dottrina tedesca della seconda [continua ..]


NOTE
Fascicolo 5 - 2019