Il contributo analizza le novità introdotte con il d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, che risponde alla necessità di disporre di un ordinamento penitenziario minorile, attento alle esigenze dei giovani condannati e teso alla valorizzazione del loro percorso educativo e di inserimento sociale. L’Autore si sofferma però anche su alcuni profili di criticità legati ad una parziale attuazione della delega contenuta nella riforma Orlando e a possibili dubbi di legittimità costituzionale.
The essay analyzes the innovations introduced by Legislative Decree 2 October 2018, n. 121. This provision intends to govern a Juvenile Penitentiary System, attentive to the needs of the young condemned and aimed to enhance their (re-)educational path. The Author also focuses on some critical issues: the non-complete implementation of the Orlando reform and the constitutionality of some legal profile of the provision.
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Lo spirito della riforma - L’(imperfetta) attuazione della delega contenuta nella riforma Orlando - Dal principio di sussidiarietà al finalismo educativo passando per la giustizia riparativa - Le misure penali di comunità: diverso nomen iuris per le misure alternative o reale novità? - Criteri comuni e modalità esecutive delle misure penali di comunità - Uno sguardo d’insieme alle varie misure penali di comunità - Ombre e luci di una disciplina dell’esecuzione penale “specializzata” - Quale extrema ratio, l’accesso in Istituto penale per i minorenni: intervento educativo e organizzazione della vita detentiva - NOTE
Con il d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121 [1] ha visto la luce la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile. Più che di una riforma in senso stretto – che è termine con cui si allude alla modificazione di un assetto preesistente – sembra più opportuno parlare di una vera e propria novella, che, per la prima volta nel tessuto normativo interno, ha introdotto un corpus di previsioni atte a regolamentare la materia dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, finora sguarnita di una legislazione ad hoc. Sul punto, deve osservarsi come l’opera del legislatore sia intervenuta a colmare una lacuna che perdurava da oltre quarant’anni [2], poiché l’unica previsione in materia era quella posta tra le disposizioni transitorie e finali della l. 26 luglio 1975, n. 354, il cui art. 79, comma 1, stabiliva che le norme dell’ordinamento penitenziario dettate per gli adulti «[...] si applicano anche nei confronti dei minori degli anni diciotto sottoposti a misure penali fino a quando non sarà provveduto con apposita legge». Una normativa che, sopravvissuta ad alcune questioni di legittimità costituzionale [3], aveva però tradito sin da subito la totale inadeguatezza a regolamentare un settore tanto delicato quale l’esecuzione penitenziaria del minorenne e che, in verità, nemmeno ne aveva avuto la pretesa, dal momento che era stata varata in extremis [4], allo scadere dei tempi per l’imminente approvazione dell’ordinamento penitenziario degli adulti, al solo scopo di non lasciare del tutto priva di disciplina la materia dell’esecuzione minorile, che non si avrebbe avuto il tempo di regolamentare in maniera autonoma [5]. Si era, così, scelta la strada della temporanea estensione applicativa delle norme dell’ordinamento penitenziario dettate per gli adulti – piuttosto che quella dell’incorporazione nella trama dell’ordinamento penitenziario di alcune disposizioni specializzanti – in attesa dell’edificazione di un autonomo corpus normativo [6]. Ma tale intentio legis, vieppiù supportata anche dalla Corte costituzionale, che ne aveva stigmatizzato ab origine il carattere transitorio [7], è stata poi tradita nella pratica da un sostanziale [continua ..]
Il d.lgs. n. 121 del 2018 attua la delega contenuta nella l. 23 giugno 2017, n. 103, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario” [19], di cui recepisce le disposizioni contenute all’art. 1, commi 81, 83 e 85, lett. p), e si occupa della riforma relativa all’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni. Come si legge nella Relazione Tecnica allo schema di decreto legislativo, per comprendere l’esigenza sottesa all’intervento legislativo in esame, doveva comunque essere «richiamato l’assetto dell’ordinamento penitenziario dettato per gli adulti, che pur basandosi sui principi di legalità e di tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive, del rispetto del principio di umanità della pena, della separazione dei detenuti e della tutela dei diritti compatibili con lo stato di detenzione, è pur sempre destinato a soggetti adulti e mal si concilia nella sostanza con le finalità e gli istituti dettati per i minorenni». Dunque, pur senza sconfessare il passato, uno sguardo al futuro reclamava una precipua attenzione per le specificità della condizione minorile, volta a dotare il sistema di una materia autonoma – ma, come si dirà, non del tutto autosufficiente – e capace di scongiurare quel pericolo di disparità interpretative e trattamentali che inevitabilmente conseguiva all’applicazione di una legislazione penitenziaria destinata e pensata per soggettività del tutto diverse. In tal senso, il legislatore della c.d. Riforma Orlando, forte anche del lavoro svolto dagli Stati Generali dell’Esecuzione penale [20] e del Tavolo appositamente dedicato all’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, aveva infine pensato ad una nuova normativa caratterizzata da: una giurisdizione specializzata affidata al tribunale per i minorenni (art. 1, comma 85, lett. p), n. 1, l. n. 103 del 2017); la previsione di disposizioni riguardanti l’organizzazione penitenziaria degli istituti penali per minorenni nell’ottica della socializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona (art. 1, comma 85, lett. p), n. 2, l. n. 103 del 2017); l’applicabilità della disciplina prevista per i minorenni quantomeno ai detenuti giovani adulti, nel rispetto dei processi educativi in [continua ..]
Analogamente a quanto accade con la normativa che disciplina il procedimento penale a carico degli imputati minorenni – ossia il d.p.r. n. 448 del 1988, il cui art. 1, significativamente rubricato “Principi generali del processo minorile”, statuisce l’operatività delle disposizioni contenute nel decreto e, «per quanto da esse non previsto», la ricorribilità alle previsioni del codice di rito penale- anche il decreto di recente conio si apre con un Capo I rubricato “Disposizioni generali”, che regolamenta il c.d. “principio di sussidiarietà” o “principio di specialità” [26]. In particolare, si prevede che «nel procedimento per l’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità a carico di minorenni, nonché per l’applicazione di queste ultime, si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale, della l. 26 luglio 1975, n. 354, del relativo regolamento di attuazione di cui al d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230, e del d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448, e relative norme di attuazione, di coordinamento e transitorie approvate con d.lgs. 28 luglio 1989, n. 272». Com’è evidente, si tratta di una disposizione posta a raccordo tra la disciplina sull’esecuzione penale minorile così come introdotta con la normativa in commento e le altre fonti principali del sistema minorile, processuale penale e penitenziario, con la quale si stabilisce un criterio di priorità nell’individuazione delle fonti normative di riferimento che, solo laddove non trovino espressa disciplina nelle previsioni di nuovo conio, determineranno “per quanto da esse non previsto” il richiamo, in via sussidiaria, alle norme più generali indicate. Così, nel valorizzare la specificità della disciplina normata, finalmente posta a salvaguardia del microsistema dell’esecuzione penale minorile, se ne dichiara implicitamente la natura non autosufficiente, laddove – per carenza o incompletezza di previsioni – sia necessario fare ricorso alle statuizioni generali in materia. Ebbene, nonostante il tenore strettamente letterale della previsione, che ha indotto taluno a ritenere circoscritto l’intervento sussidiario delle leggi richiamate solo ad alcuni aspetti [continua ..]
Il decreto legislativo in commento introduce, al Capo II, le c.d. “misure penali di comunità”; misure che, previste ad esclusivo vantaggio dei condannati minori d’età e dei giovani adulti, intendono rispondere alla logica del trattamento differenziato e della carcerazione quale extrema ratio. Se particolarmente felice sembra essere la nomenclatura prescelta dal legislatore per riferirsi, in definitiva, a quelle misure che – ad eccezione dell’affidamento in prova con detenzione domiciliare – già erano conosciute nel nostro sistema penitenziario come alternative alla detenzione, resta da capire se alla novità formale – e, dunque, al diverso nomen iuris – si sia accompagnata anche una novità sostanziale. Come accennato, piuttosto apprezzata è risultata la scelta di riferirsi alle misure minorili extra moenia con la locuzione di “misure di comunità”. Così come precisato nella Relazione illustrativa, lo scopo è quello di «sottolineare l’opzione di sistema e la prospettiva verso cui tendere», valorizzando «anche un ulteriore aspetto, e cioè il coinvolgimento diretto ed immediato della collettività nel processo di recupero e reinserimento sociale del minorenne» [36]. In tal senso, del tutto condivisibile appare anche la preferenza per il termine “comunità” e non “società”, non del tutto coincidenti. Essendo l’appartenenza ad una comunità una condizione base per lo sviluppo identitario di ogni singolo individuo, l’opzione lessicale appare eloquente laddove colloca il minore deviante in una nuova dimensione collettiva da cui partire per strutturare la propria personalità. Avviare il minore ad una misura di “comunità” significa, dunque, in qualche modo, tentare di restituirlo all’ambiente di appartenenza all’esito di un percorso di maturazione, in cui un grande contributo per la buona riuscita dello stesso proviene proprio da quella collettività dalla quale il minore si era allontanato con l’azione delittuosa. Non senza dimenticare che, affinché il percorso possa dirsi davvero compiuto, grande importanza avrebbe lavorare anche su quell’ambiente, su quel contesto socio-economico, che tanta influenza può assumere nel contribuire alle [continua ..]
Nonostante le rilevate criticità, restano innegabili gli aspetti positivi di una disciplina, che – foss’anche il primo tassello di un più ampio percorso – coglie nel segno laddove, nel disciplinare le misure alternative, oggi “misure di comunità”, le arricchisce di prescrizioni specializzanti, rendendole operanti solo laddove non vi sia un fondato pericolo che il condannato si sottragga all’esecuzione o commetta altri reati, ma soprattutto quando, ai sensi dell’art. 2, esse risultino in concreto idonee a favorire l’evoluzione positiva della personalità e un proficuo percorso educativo e di recupero del minore. Peraltro, parallelamente a quanto accade in seno al procedimento penale minorile – in cui la valutazione della personalità del minore operata ai sensi dell’art. 9 d.p.r. n. 448 del 1988 costituisce la base su cui fondare la costruzione di un percorso giudiziario il più possibile parametrato alle esigenze e alle peculiarità soggettive dell’imputato minorenne [48] – così l’osservazione e la valutazione della personalità del minorenne, delle condizioni di salute psico-fisica, dell’età e del grado di maturità, del contesto di vita e di ogni altro elemento utile rappresentano anche in sede di esecuzione il fondamento conoscitivo da porre a base della decisione del tribunale di sorveglianza [49]. Il decreto valorizza ulteriormente in fase esecutiva il ruolo assai pregnante già rivestito dall’ufficio di servizio sociale per i minorenni in seno al procedimento penale del minore e chiarisce come si debba tenere in espressa considerazione sia la proposta di programma di intervento educativo dallo stesso redatta, che dovrà sempre accompagnare ciascuna misura, sia l’esistenza di percorsi formativi in atto. Nella delicata operazione di scelta della misura più adeguata al caso concreto e ai connotati personologici del soggetto, il tribunale persegue l’obiettivo di garantire il più rapido inserimento sociale del condannato con il minor sacrificio possibile per la sua libertà personale, giovandosi del sostegno e della supervisione dei servizi sociali e scongiurando il pericolo di recidiva. Così poste le linee guida del sistema delle misure penali di comunità, si stabilisce ancora che le stesse debbano [continua ..]
Come si legge nella Relazione Illustrativa, la disciplina dell’affidamento in prova è ritenuta la misura che «più di ogni altra è in grado di soddisfare le istanze educative del condannato minorenne e giovane adulto, alla luce anche del criterio di delega di cui al n. 5 della lett. p) dell’art. 1, comma 85, l. n. 103 del 2017, atteso il suo prevalente carattere pedagogico e i ridotti contenuti afflittivi». La sua collocazione al primo posto tra le misure di comunità, d’altro canto, tradisce la volontà del legislatore di puntare sulla stessa quale migliore alternativa alla detenzione carceraria [51]. L’art. 4 descrive i presupposti di applicabilità della misura, concedibile qualora la pena da eseguire – da ritenersi sempre quale pena inflitta in concreto o residua di maggior pena – non superi i quattro anni di reclusione, in ciò modificandosi quanto statuito nello schema di decreto, che inizialmente prevedeva il più congruo termine di sei anni e così, di fatto, recuperandosi i medesimi limiti oggi previsti per l’adulto [52]. Analogamente a quanto accade per i condannati adulti, che però vengono affidati ai servizi sociali dell’ufficio di esecuzione penale esterna, tale misura contempla l’affidamento all’ufficio di servizio sociale per i minorenni per lo svolgimento di uno specifico programma di intervento educativo elaborato in collaborazione con i servizi socio-sanitari territoriali. Esso prevede una serie di prescrizioni relative agli impegni del condannato in tema di istruzione, formazione professionale, lavoro ma anche dimora e libertà di movimento e di frequentazioni personali, nonché obblighi di assistenza familiare [53] e ogni altra prescrizione utile per l’educazione e il positivo inserimento sociale del minorenne, compreso l’eventuale collocamento in comunità, sempre disponibile qualora il minore non disponga di un domicilio adeguato e rischi per ciò solo di non poter accedere alla misura premiale. L’ordinanza con la quale si dispone la suddetta misura, poi, deve indicare il ruolo dei servizi coinvolti e le modalità di svolgimento delle attività di utilità sociale. Per quanto concerne, in particolare, il ruolo dei servizi sociali dell’amministrazione della giustizia, essi svolgono una funzione [continua ..]
Il Capo III del decreto legislativo in questione si occupa della “Disciplina dell’esecuzione”, cui dedica gli artt. 9-13. Esso si apre con l’art. 9 che, nel modificare la previsione di cui all’art. 24, comma 1, primo periodo, d.lgs. n. 272 del 1989, estende la disciplina dell’esecuzione già prevista per le sole misure alternative anche alle neo introdotte misure penali di comunità. Si stabilisce, inoltre, che le modalità esecutive previste per i minorenni si applichino anche a chi, nel corso dell’esecuzione, abbia compiuto il diciottesimo ma non il venticinquesimo anno d’età salvo che non ricorrano particolari ragioni di sicurezza e tenuto conto, altresì, delle specifiche finalità rieducative e del fatto che le stesse non siano in alcun modo perseguibili a causa della mancata adesione al trattamento in atto. Con la modifica in discorso, dunque, si amplia la discrezionalità concessa al giudice competente che potrà valutare la modalità ritenuta più consona al caso concreto, derogando all’applicazione delle previsioni specificamente pensate per la condizione minorile, non solo al compimento del ventunesimo anno d’età, come avveniva prima della riforma, ma sempre al compimento della maggiore età. Inoltre, il giudizio non dovrà più tener conto solo della sussistenza di generiche finalità rieducative, ma anche del fatto che la mancata partecipazione soggettiva da parte del condannato nell’evenienza considerata renda materialmente impossibile il perseguimento delle citate finalità [58]. Quindi, il decreto passa alla disamina delle specifiche regole relative all’estensione dell’ambito di esecuzione delle pene secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni nell’evenienza in cui si trovino contemporaneamente in esecuzione pene per fatti commessi da minorenne e pene per fatti commessi da maggiorenne. Si tratta di una disciplina che si potrebbe definire “specializzata”, finora sconosciuta al sistema dell’esecuzione delle pene contemplata dal codice di rito penale, il quale prevedeva come unica regola quella generale sulla competenza di cui all’art. 665, comma 4, che, in caso di plurimi titoli esecutivi, la stabiliva sulla base della sentenza divenuta irrevocabile per ultima [59]. Ora, posto che una tale soluzione – [continua ..]
L’ultima parte del decreto legislativo in discorso, ossia il Capo IV, si occupa di regolamentare l’intervento educativo e l’organizzazione degli istituti penali per i minorenni; una sezione che, stando alla ratio della novella, sarebbe dovuta essere residuale, così come residuale si è sempre inteso il ricorso alla detenzione carceraria. Ciò nonostante, deve prendersi atto di come il decreto abbia destinato uno spazio assai rilevante alla relativa disciplina, probabilmente motivato dalla necessità di garantire una normativa di dettaglio proprio per quelle situazioni più complesse, che – rappresentando la riprova del fallimento del sistema, dimostratosi incapace di consentire l’accesso a modalità di espiazione della pena meno afflittive – meritano ancor più l’attenzione del legislatore nostrano. Un’attenzione dovuta anche in considerazione del fatto che – già con la modifica dell’art. 24 d.lgs. n. 272 del 1989 [62] – le regole sull’esecuzione dei provvedimenti limitativi della libertà personale si erano estese ai soggetti infraventicinquenni, riscontrandosi il frequente accesso negli istituti penali di soggetti sempre più grandi di età. E allora, è del tutto evidente che proporzionalmente con l’età dei detenuti, crescono le possibili problematiche connesse al trattamento penitenziario di una popolazione carceraria più adulta, già venuta in contatto con altre realtà [63], dalla personalità tendenzialmente più strutturata e meno malleabile ad eventuali interventi esterni e, proprio per questo, bisognosa di un maggior dispendio di energie tese a determinarne l’adesione a modelli sociali positivi. In tal senso, debito rilievo è dedicato alla disciplina del c.d. “progetto educativo” [64], che – disciplinato all’art. 14 – rappresenta la vera novità della riforma e il fulcro su cui ruota l’intero segmento penitenziario minorile. Si tratta di una previsione di estrema importanza laddove segna il cambio di rotta di un sistema che propone interventi educativi, più che azioni repressive e punitive, che agisce con provvedimenti tesi ad orientare, valorizzare e promuovere la persona in fase di maturazione, piuttosto che reprimerla [65]. Il progetto, da predisporsi [continua ..]