CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 2 MARZO 2018, N. 43 – PRES. LATTANZI
Il mutamento del significato della normativa interposta, sopravvenuto all’ordinanza di rimessione per effetto di una pronuncia della grande camera della Corte di Strasburgo che esprime il diritto vivente europeo, comporta la restituzione degli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 649 c.p.p. Se, infatti, il giudice a quo ritenesse che il giudizio penale è legato temporalmente e materialmente al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem convenzionale, non vi sarebbe necessità ai fini del giudizio principale di introdurre nell’ordinamento, incidendo sull’art. 649 c.p.p., alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto.
> < [Omissis] RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 30 giugno 2016 (r.o. n. 236 del 2016), il Tribunale ordinario di Monza ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), protocollo concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli». Il rimettente giudica un imputato del reato previsto dall’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), per avere omesso di presentare la dichiarazione dell’anno 2008 relativa all’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e all’imposta sul valore aggiunto (IVA), al fine di evadere tali imposte per un importo superiore alla soglia di punibilità. La medesima omissione costituisce illecito tributario ed è sanzionata in via amministrativa, ai sensi degli artt. 1, comma 1, e 5, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 (Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre 1996, n. 662). A tale titolo l’imputato è già stato destinatario di una sanzione amministrativa pari al 120 per cento di entrambe le imposte evase. La sanzione, conseguente a un avviso di accertamento del 20 febbraio 2003, è stata irrogata in via definitiva. Su quest’ultimo punto, il giudice a quo reputa ininfluente che non vi sia prova dell’avvenuto pagamento della sanzione, posto che il procedimento di riscossione è stato sospeso in base all’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 74 del 2000. Ciò che rileva, pertanto, è la sola definitività della sanzione, di cui il rimettente dà atto, rilevando che non sono stati esperiti ricorsi contro l’avviso di accertamento. Attraverso un’accurata ricostruzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con specifico riferimento alle «sovrattasse [continua..]