La Corte di cassazione conferma l’adagio secondo cui la documentazione dell’attività d’indagine che non venga depositata a mente dell’art. 415-bis c.p.p. diventa inutilizzabile nel corso del processo; correlativamente, esclude che il comportamento elusivo del magistrato inquirente si traduca in una causa di invalidità dell’atto imputativo. Impostazione esegetica, questa, che non raccoglie consensi unanimi in dottrina e che si pone in rotta di collisione con un convincente orientamento giurisprudenziale minoritario, il quale, nel fare salve le indagini compiute secundum legem, censura con la nullità dell’atto di accusa la condotta del pubblico ministero che deposita solo una parte del materiale fruibile. Poiché il contrasto interpretativo rischia di alimentare disparità di trattamento, orientando le sorti processuali di imputati attinti dalla medesima quaestio iuris in direzioni teoriche opposte, è auspicabile che, a mente degli artt. 610, comma 2, e 618, comma 1, c.p.p., siano le Sezioni Unite a dirimere, quanto prima, la contesa ermeneutica.
The Italian Court of Cassation has confirmed the mainstream interpretation that the investigative actions that fail to be disclosed under Article 415-bis of the Italian Code of Criminal Procedure (CPP) shall not be used during the preliminary hearing and the trial. On the contrary, the Court excludes that such a Public Prosecutor’s misconduct shall entail the nullity of the accusation. This standpoint runs counter a convincing but minority case-law orientation, according to which the Public Prosecutor’s misconduct shall cause the nullity of the accusation, while investigations lawfully carried out shall be considered valid. Since these two opposing interpretations are likely to lead to contradictory decisions on the same question of law, the Joint Chambers of the Court of Cassation should, under Articles 610, paragraph 2, and 618, paragraph 1, of the CCP, solve the jurisprudential conflict as soon as possible.
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La dinamica processuale - Le questioni rimesse allo scrutinio di legittimità - Sulla prosecuzione dell’attività d’indagine da parte del pubblico ministero dopo la notifica dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. - Segue: sulle indagini del pubblico ministero correlate alle iniziative assunte dalla difesa ex art. 415-bis, comma 3, c.p.p. - Ricadute sanzionatorie dell’incompleta discovery del materiale d’indagine: le perplessità destate dalla giurisprudenza della Suprema Corte - Conclusioni: divergenze interpretative che richiedono l’intervento delle Sezioni Unite - NOTE
La Suprema Corte si occupa dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari in una sedes atipica per l’istituto, qual è il ricorso di legittimità contemplato, nel perimetro delle cautele reali, dall’art. 325 c.p.p. Il motivo discende dal tratto, impresso dal legislatore al sequestro conservativo disposto su richiesta della parte civile a mente dell’art. 316, comma 2, c.p.p., di istituto processuale stricto sensu, vale a dire applicabile solo ad azione penale esercitata e, dunque, per definizione estraneo alla fase preimputativa: nel caso di specie, l’imputato, deducendo la nullità dell’atto di esercizio dell’azione penale per un’asserita violazione della disciplina contenuta nell’art. 415-bis c.p.p., mirava alla regressione del processo alle indagini preliminari, con conseguente caducazione del presupposto in rito del sequestro conservativo applicato dal giudice dell’udienza preliminare. Più in dettaglio, il ricorrente – mercé un poliedrico atto di impugnazione, del quale, in questa sede, preme richiamare i soli motivi strettamente afferenti alla lamentata invalidità dell’atto di accusa – teorizzava che la richiesta di rinvio a giudizio fosse affetta da nullità, in quanto il pubblico ministero, dopo avere notificato l’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p., aveva proseguito l’attività investigativa, senza provvedere a tempestivo deposito delle nuove acquisizioni o, comunque, senza informarne la persona sottoposta alle indagini, nemmeno in vista dell’interrogatorio effettuato, su richiesta di quest’ultima, ex art. 415-bis, comma 3, c.p.p. Di talché, lo stesso interrogatorio doveva considerarsi affetto da nullità, posto che l’interessato non era stato reso edotto dei nova nella fase preliminare all’espletamento dell’incombente. Anche a prescindere dalle ricadute sull’adempimento ex art. 64 c.p.p., comunque, la difesa assumeva che, notificato l’avviso di conclusione delle indagini, il pubblico ministero non fosse più legittimato a compiere attività investigative motu proprio, dovendosi, viceversa, attenere alle eventuali richieste formulate dal prevenuto a mente dell’art. 415-bis,comma 3, c.p.p.: in tale senso, secondo il ricorrente, deporrebbe la giurisprudenza di [continua ..]
A ben considerare, l’occasio della decisione della Suprema Corte, offerta da un incidente cautelare, non vale a circoscrivere entro il perimetro di quest’ultimo la portata delle questioni giuridiche trattate, le quali, al contrario, hanno una rilevanza più ampia, poiché involgono le dinamiche del processo di merito e, precisamente, le regole che sovrintendono alla chiusura delle indagini preliminari e al corretto esercizio dell’azione penale: viene qui in gioco la disciplina compendiata nel trittico di norme costituito dagli artt. 415-bis, 416 e 552 c.p.p. Per un verso, ci si chiede se il pubblico ministero, disponendo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, sancisca, in ossequio al nomen iuris dell’istituto, che la fase di investigazione è chiusa, sicché le uniche attività che gli inquirenti potranno legittimamente svolgere, in vista della formulazione dell’imputazione, saranno quelle correlate alle iniziative della difesa, ove poste in essere, tempestivamente, a’ sensi dell’art. 415-bis, comma 3, c.p.p. In secondo luogo, ci si interroga sulle ricadute processuali, da intendersi in chiave sanzionatoria, vuoi di un’attività investigativa che il pubblico ministero protragga, di propria iniziativa, in violazione della regula iuris che risponde all’interrogativo precedente, vuoi di un’omissione, totale o parziale, di quella discovery che è l’elemento caratterizzante l’istituto introdotto dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479.
Il dubbio sulla legittimità di attività investigative che il magistrato inquirente compia, di propria iniziativa, dopo la notifica dell’avviso in commento non trova, in dottrina, soluzioni unanimi. Per taluni interpreti, infatti, l’architettura della disciplina forgiata dall’art. 415-bis c.p.p. vacillerebbe se si ammettesse che gli inquirenti possano continuare a svolgere attività d’indagine dopo la notifica dell’avviso, dato che il legislatore volutamente non contempla tale evenienza, la quale si rivela contraria alla ratio stessa dell’istituto [1]. Altri autori [2], invece, osservano come, nell’ordito codicistico, nemmeno l’esercizio dell’azione penale segni, di per sé, la fine dell’attività di ricerca e della sua documentazione, vero essendo che gli artt. 419, comma 3, e 430 c.p.p. ascrivono un peso specifico a investigazioni – definite suppletive e integrative [3] – che addirittura seguono l’elevazione dell’accusa: legittimo, dunque, che gli organi inquirenti continuino la propria attività anche dopo avere notificato l’avviso ex art. 415-bis c.p.p., ferma la necessità di rispettare la dead line tracciata dagli artt. 405-407 c.p.p. rispetto ai termini massimi d’indagine; come meglio si vedrà in seguito, eventuali riverberi di matrice sanzionatoria conseguiranno, semmai, a una diversa condotta elusiva del pubblico ministero, consistente nell’omettere il tempestivo deposito in segreteria della documentazione dell’attività in discorso. A parere di chi scrive, è la seconda l’impostazione preferibile, sia perché si rivela rispettosa del principio di tassatività che governa la materia delle sanzioni processuali [4], sia perché si pone in sintonia con uno spunto di matrice sistematica che trova ancoraggio, tanto al predicato di ragionevole durata del processo, enunciato dall’art. 111, comma 2, Cost., quanto ai presidi metaprimari dell’interesse difensivo alla tempestiva informazione sul procedimento e sull’addebito. Invero, quando il primo comma dell’art. 415-bis c.p.p. si riferisce agli archi temporali di cui all’art. 405 c.p.p., se del caso prorogati ex art. 406 c.p.p., scandisce il termine ultimo entro il quale il pubblico ministero si deve [continua ..]
Uno scrupolo di completezza suggerisce, incidentalmente, di osservare come la giurisprudenza adotti canoni ermeneutici peculiari rispetto all’atto investigativo che il magistrato inquirente ponga in essere, sì, ex officio, manon in totale autonomia, bensì in relazione consequenziale con una delle iniziative assunte dalla difesa a fronte dell’accesso alla documentazione depositata. La Cassazione [12], infatti, tende a qualificare tale attività del pubblico ministero ammissibile e utilizzabile anche se sono scaduti i termini ordinari d’indagine ex artt. 405 ss. c.p.p., dato che la fattispecie rientrerebbe nel novero degli atti investigativi di cui all’art. 415-bis c.p.p., fatti salvi, expressis verbis, dall’incipit dell’art. 407, comma 3, c.p.p. In effetti, deve ammettersi che quest’ultima norma rinvia, senza distinguo, a «quanto previsto dall’articolo 415-bis», il cui quarto comma si riferisce, con formula anodina, alle «nuove indagini» che il pubblico ministero dispone «a seguito delle richieste dell’indagato», mentre il comma 5 fa salvi «i nuovi atti d’indagine del pubblico ministero», purché compiuti entro i termini stabiliti nel capoverso precedente, i quali potrebbero esorbitare dai confini temporali tracciati dagli artt. 405-407 c.p.p.: un assetto di regole, questo, che può sorreggere l’esegesi permissiva, la quale, per «nuove indagini» disposte «a seguito delle richieste dell’indagato», intende, non solo quelle esplicitamente sollecitate da quest’ultimo, ma anche quelle che il magistrato inquirente pone in essere di propria iniziativa, purché in stringente connessione con le prime o, più in generale, con le iniziative assunte dalla difesa a mente dell’art. 415-bis, comma 3, c.p.p. [13]. Ferma l’ortodossia sul piano dell’interpretazione letterale, non deve, tuttavia, sfuggire un riverbero di questa lettura, che potrebbe scardinare il sistema dei termini d’indagine. Infatti, ove il pubblico ministero, nonostante il decorso degli archi temporali scanditi dagli artt. 405-407 c.p.p., vada oltre le richieste della persona indagata, per compiere altre attività, connesse alle prime, dovrebbe poi – in ossequio a quanto detto supra – depositare in [continua ..]
Il secondo tema attinto dalla Corte di cassazione nella decisione in commento è quello relativo alle conseguenze di un’eventuale omessa disclosure di una parte della documentazione di cui il pubblico ministero dispone [18]. La fattispecie elusiva può essere perpetrata in almeno due modi, dato che il magistrato inquirente può escludere dal deposito in segreteria alcuni atti: a) ab origine, cioè nel momento stesso in cui effettua la discovery generalizzata [19], concomitante con la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, oppure b) ex post, ove a non essere depositati siano proprio gli atti investigativi di cui si è trattato in apertura, vale a dire quelli che il magistrato pone in essere, di propria iniziativa, dopo avere notificato l’avviso, nel rispetto degli archi temporali di cui agli artt. 405-407 c.p.p. In ragione di quanto osservato poc’anzi, restano, invece, estranee alla casistica de qua le indagini che il pubblico ministero compia su esplicita richiesta difensiva, formulata a mente dell’art. 415-bis c.p.p., poiché non riguardate, ex se, dall’obbligo di deposito previsto da tale norma. In materia, la decisione in rassegna – che, in ragione dei motivi di ricorso, si occupa solo della casistica sub b) – aderisce a un orientamento giurisprudenziale consolidato[20](sebbene – come si vedrà – non monolitico), secondo il quale la scelta del pubblico ministero verrà sanzionata con l’inutilizzabilità degli atti non ostentati . Eletta questa via, la Cassazione, in linea con i menzionati precedenti, esclude l’altra, propugnata invece dal ricorrente, il quale lamentava la nullità dell’atto imputativo [21]. Tale impostazione, nonostante il forte credito goduto nella giurisprudenza di legittimità, meriterebbe, ad avviso di chi scrive, un ripensamento, anzitutto perché fa leva su un istituto, quello dell’inutilizzabilità, che, in subiecta materia, sembra invocato con eccessiva disinvoltura. La sanzione de qua, infatti, opera – com’è noto – secondo due schemi profondamente diversi tra loro [22]: quello, imperniato sull’art. 191 c.p.p., della violazione di un divieto stabilito dalla legge con riguardo all’ammissione o [continua ..]
La giurisprudenza maggioritaria sposa, dunque, la tesi che sanziona con l’inutilizzabilità l’omesso deposito del materiale d’indagine di cui il pubblico ministero disponga al momento della notifica ex art. 415-bis c.p.p. o che, di propria iniziativa, formi successivamente ad essa; contestualmente, esclude che il comportamento elusivo de quo si traduca in una causa di invalidità dell’atto di accusa. Le notazioni che precedono tendono a spiegare perché tali conclusioni non convincano e perché sia, invece, preferibile l’assunto minoritario, comunque presente in giurisprudenza, che, nel fare salva l’utilizzabilità delle indagini compiute secundum legem,sanziona con la nullità a regime intermedio l’atto imputativo elevato nonostante la mancata o incompleta discovery. La differenza di vedute non è di poco momento: da un lato, atti d’indagine fulminati nella loro valenza euristica, ma atto di accusa pienamente legittimo e, dunque, processo destinato a seguire il proprio corso; dall’altro lato, materiale investigativo fruibile secondo il consueto regime, ma imputazione nulla e procedimento a rischio di regressione. A prescindere dalle preferenze espresse in questo contributo per la seconda impostazione esegetica, va detto che entrambe hanno un fondamento razionale e più di un addentellato nel sistema di regole del codice di rito: la loro convivenza si deve al silenzio che il legislatore serba su certi risvolti applicativi dell’art. 415-bis c.p.p., sicché le lacune legislative vengono colmate dagli interpreti seguendo linee di pensiero che, legittimamente, possono divergere. Se il confronto fra tesi diverse, ma parimenti solide per fondamenta concettuali, rientra nella fisiologia dell’esercizio speculativo, non può, tuttavia, celarsi la preoccupazione circa il rischio che procedimenti penali investiti dalla medesima quaestio iuris diventino matrici di profonde disparità di trattamento. Ad avviso di chi scrive, mercé gli artt. 610, comma 2, e 618, comma 1, c.p.p., sarebbe auspicabile, in subiecta materia, un tempestivo intervento delle Sezioni Unite, inteso a dirimere la contesa ermeneutica, ‘sì da elidere, anzitutto, il pericolo che le sorti processuali di imputati che si trovano in situazioni analoghe siano condotte dai giudici di merito o di [continua ..]