I tagli alle risorse pubbliche destinate al finanziamento delle attività di reinserimento socio-lavorativo dei condannati hanno reso cronico il problema dell’ineffettività del lavoro penitenziario, con immediate ricadute nel contrasto alla recidiva. Il lavoro intende offrire un contributo al dibattito sulla fattibilità in Italia di programmi di finanza ad impatto sociale, realizzati sul modello dei social impact bond e dei pay for success inglesi ed americani.
The cuts in public resources destined to the financing of the social-labor reintegration activities of the convicts have made the problem of the ineffectiveness of the penitentiary work chronic, with immediate repercussions in the contrast to the recidivism. The work aims to offer a contribution to the debate on the feasibility in Italy of social impact finance programs, based on the model of social impact bonds and English and American pay for success.
La centralità del lavoro nel trattamento penitenziario - La crisi del Welfare e l'utopia della pena rieducativa - Il sistema degli incentivi alle imprese e alle cooperative sociali nella l. 22 giugno 2000, n. 193 (c.d. legge Smuraglia). Il finanziamento della cassa delle ammende - Uno sguardo alle esperienze d'oltralpe di finanza ad impatto sociale: i social impact bond e i pay for success - Nuove forme di finanziabilità dei programmi di reinserimento socio-lavorativo dei condannati in Italia: un contributo al dibattito - Le novità della "riforma Orlando" in materia di lavoro penitenziario - NOTE
Il superamento del modello di sanzione penale di tipo repressivo-retributivo segnato dall’avvento della Costituzione repubblicana ha modificato il modo di intendere il lavoro dei condannati. Fino a quel momento il lavoro ha rappresentato una componente afflittiva della sanzione criminale, un aggravamento che ne amplificava la funzione punitiva. Con l’attuazione del modello costituzionale di pena rieducativa ad opera della l. 26 luglio 1975, n. 354, il lavoro è diventato il principale strumento di risocializzazione del condannato [2]. Tale centralità si fonda sulla valorizzazione del lavoro quale stile di vita fondato su una responsabile ricostruzione dei rapporti con l’esterno, indispensabile a creare le condizioni per un ritorno stabile e sicuro del reo nella comunità. Nell’ottica del trattamento, il lavoro diventa uno strumento strategico di contrasto alla pericolosità sociale. Non solo. L’attività lavorativa costituisce la base dei diritti sociali indispensabili a rimuovere gli ostacoli che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza degli individui (art. 3 Cost); a fortiori essa deve essere assicurata a coloro che scontano una condizione di disoccupazione forzata a causa della carcerazione e, più in generale, subiscono gli effetti interdittivi accessori di una sentenza penale di condanna. In questa prospettiva, il lavoro penitenziario ha dovuto conformarsi al lavoro dei liberi. E pertanto, da obbligo, esso si è trasformato in un diritto per i condannati; non è più preteso in via unilaterale e a titolo gratuito dall’amministrazione penitenziaria, ma è prestato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico che prevede una controprestazione di carattere remunerativo a carico di chi assume detenuti lavoranti [3]; chiunque si avvalga del lavoro dei detenuti e degli internati (amministrazione penitenziaria o terzi) ha l’obbligo di versare i relativi contributi assicurativi e previdenziali, determinati, peraltro, in misura diversa da quelli previsti per il lavoro dei liberi [4]. La varietà delle esperienze di lavoro offerte ai condannati rispecchia a grandi linee la complessità dei rapporti di lavoro all’esterno; a tal fine, l’organizzazione ed i metodi del lavoro, in particolare quello intramurario, riflettono i modelli di lavoro nella società libera. Si [continua ..]
La fiducia nelle istanze di riabilitazione della pena, che si riflette nella riforma penitenziaria del ‘75, si è accompagnata alla fiducia, allora all’apice, nei meccanismi del Welfare; nel momento in cui, a partire dalla crisi economica del 2008, quei meccanismi hanno iniziato a vacillare, sono venute meno le migliori aspirazioni ad una presa in carico delle fasce deboli della popolazione. Non è casuale che il «medio evo moderno» del lavoro penitenziario si registri a qualche anno di distanza dall’avvento della crisi; in particolare, nel 2011 si assiste ad una diminuzione vertiginosa della percentuale di detenuti lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, per effetto della diminuzione del budget previsto in bilancio per le mercedi dei detenuti. Si è passati da 71.400.000 di euro stanziati nel 2006 a 49.664.207 di euro disponibili nel 2011, con una contrazione di oltre il 30% delle risorse destinate alla gestione delle industrie penitenziarie [9]. Il dato è allarmante se si considera che la diminuzione delle risorse destinate al lavoro è in controtendenza rispetto al flusso crescente di presenze in carcere registrato negli stessi anni [10]. Le Amministrazioni penitenziarie hanno reagito ai drastici tagli alle risorse pubbliche riducendo l’orario di lavoro pro-capite, in modo da consentire che lo stesso posto di lavoro sia occupato nel corso dell’anno da più detenuti lavoratori a rotazione, mediante contratti part-time e a tempo determinato [11]. L’obiettivo è assicurare un accesso diffuso al lavoro, che consenta di contenere disagi e tensioni nella quotidianità degli istituti penitenziari [12]. L’impiego saltuario dei detenuti però ha prodotto nel trattamento penitenziario una serie di effetti negativi a catena, anzitutto perché compatibile solo con lavori dequalificanti [13] di scarsa utilità ai fini del reinserimento del condannato, e senza alcuna «familiarità» con i criteri fissati dall’art. 20 ord. penit. per la selezione dei detenuti da ammettere al lavoro [14]. All’impiego dequalificante per decenni ha fatto da pendant una remunerazione simbolica. La «mercede» che il legislatore, fino alla recentissima riforma, ha inopportunamente lasciato ad una valutazione «equitativa [continua ..]
La tendenziale equiparazione del lavoro dei detenuti a quello dei liberi ha avuto come inevitabile conseguenza una contrazione di posti di lavoro per i condannati, in quanto, a parità tendenziale di retribuzione e di oneri sociali, le imprese non hanno tratto più alcun vantaggio dall’impiego di manodopera carceraria. Per far fronte alla diminuzione di posti di lavoro che l’amministrazione penitenziaria non è stata in grado di neutralizzare, tentata senza grossi risultati la strada della privatizzazione delle lavorazioni intramurarie [29], il legislatore nel 2000 ha previsto un sistema di incentivi, consistenti in risparmi di spesa per le imprese e le cooperative sociali che assumono condannati. Nell’ottica del legislatore, tali agevolazioni sarebbero servite a compensare il gap di competitività rispetto al lavoro libero, dovuto al minor rendimento del lavoro penitenziario. Alla riduzione nella misura di 1/3 del costo della retribuzione del lavoro intramoenia rispetto alle soglie stabilite nei contratti collettivi di lavoro – non più consentita dopo la modifica dell’art. 22 ad opera del d.lgs. n. 124 del 2018 [30] – e al risparmio di spesa, per il datore di lavoro, derivante dalla possibilità di ricevere in comodato d’uso i locali dell’amministrazione penitenziaria necessari all’organizzazione delle lavorazioni (art. 47 reg. es.), si sono aggiunti i benefici fiscali e contributivi che la legge Smuraglia ha previsto a vantaggio delle cooperative sociali [31] che assumono soggetti in stato di reclusione (inclusi i semiliberi) o ammessi al lavoro all’esterno ex art. 21 ord. penit. ed a misure alternative, nonché a favore delle aziende pubbliche o private che organizzano attività produttive o di servizi all’interno degli istituti, impiegando manodopera carceraria. [32] La copertura finanziaria di tali agevolazioni è a carico dello Stato, che annualmente stanzia un budget [33] suddiviso tra i vari Provveditorati regionali [34]. Con l’entrata in vigore della legge Smuraglia è iniziata la parabola ascendente delle assunzioni di detenuti alle dipendenze di terzi [35]; tuttavia, per un decennio, il budget non è stato aggiornato in maniera proporzionata alla crescente domanda di lavoro, determinando in alcuni casi l’interruzione di [continua ..]
La strada intrapresa da alcuni Paesi è consistita nel ricercare nuove forme di cooperazione tra Stato, mercato e terzo settore, sfociate nei c.d. social impact bond o, secondo la denominazione statunitense, pay for success o pay by results. In via di estrema sintesi, si tratta di un accordo che ha come fulcro la pubblica amministrazione, disposta a condividere, con investitori privati, i risparmi di spesa pubblica generati da interventi sociali a carattere preventivo finanziati dai privati. Sono interventi ad alto rischio di insuccesso, nei quali, di regola, agli elevati costi iniziali si associano guadagni solo a lungo termine. La pubblica amministrazione circoscrive la sua partecipazione al rischio alla sola quota di risparmio che è disposta a cedere agli investitori, a titolo di remunerazione del capitale investito, nel caso in cui il programma finanziato raggiunga la performance fissata nell’accordo. La performance, di regola, consiste nel raggiungimento di obiettivi di rilievo sociale, monetizzabili in termini di risparmio di spesa pubblica. La remunerazione dell’investimento, dunque, presuppone una misurazione dell’impatto sociale dell’operazione finanziata, affidata ad un valutatore indipendente. Il terzo attore di questa cooperazione, l’impresa sociale, è affidataria dell’intervento, ma è sollevata dal problema di reperire le risorse necessarie a mantenere in vita le proprie attività. In questo modo, le imprese responsabili dei progetti sono selezionate non in base alla loro capacità di reperire fondi, bensì in base alla loro efficacia operativa [40]. A fare da trait d’union tra pubblica amministrazione, investitori privati e terzo settore vi è di regola un intermediario che, grazie ad un’approfondita conoscenza del contesto e delle problematiche sociali su cui intervenire, si occupa della raccolta delle risorse necessarie a finanziare il progetto (c.d. “capitali pazienti” provenienti da investitori socialmente orientati), nonché della selezione dei fornitori del servizio sociale [41]. Il primo modello di social impact bond è stato messo a punto in Gran Bretagna nel 2010 per finanziare un progetto di prevenzione della recidiva rivolto ai detenuti del carcere di Peterborough. Era stato accertato che più della metà dei condannati a [continua ..]
Negli ultimi anni, in molti si sono chiesti se l’attività delle cooperative in carcere, che ha patito maggiormente i tagli alle risorse pubbliche, rappresenti un possibile scenario attuativo dei social impact bond nel nostro Paese [44]. Partendo dall’analisi delle esperienze pilota nel Regno Unito e in America, è agevole osservare che, dall’esperienza del carcere di Peterborough, sarebbe certamente mutuabile, in una replica tutta italiana, la condizione della partecipazione dei detenuti al progetto su base volontaria. Come si è già evidenziato, il lavoro non rappresenta più un obbligo, bensì un diritto, un’opportunità per il condannato. D’altro canto, l’offerta trattamentale può aspirare ad un’autentica risocializzazione del reo a condizione che vi sia una sua adesione spontanea; al contrario, un trattamento coattivo alimenta forme di infantilizzazione del detenuto. Condivisibile anche la scelta di non coinvolgere condannati già impegnati in altri programmi di riabilitazione; un’opzione di segno contrario potrebbe diminuire l’attendibilità della misurazione dell’impatto sociale del progetto finanziato (abbassamento della recidiva), con conseguenti ricadute sulla certezza della remunerabilità dell’investimento. Le possibili criticità sono invece ricollegabili alla sussistenza, nell’architettura di questi strumenti di finanza sociale, di un nesso tra il raggiungimento della performance e la remunerabilità del capitale investito. Sono dubbie anche l’attendibilità della misurazione dell’impatto sociale e l’adeguatezza della metrica impiegata. Sotto il primo profilo, lo studio del fenomeno della recidiva evidenzia una maggiore propensione alla risocializzazione di alcuni condannati rispetto ad altri. A tal fine rilevano fattori legati all’età, in quanto i comportamenti criminali tendono a regredire con essa, al genere, al vissuto, al grado di istruzione, alla rete di relazioni stabili coltivate all’esterno e, in generale, alle risorse personali e familiari del condannato, alle regioni di provenienza del reo, alla salute, con particolare riferimento alle patologie che hanno una forte incidenza sulla propensione a delinquere, quale lo stato di tossicodipendenza ed alcol dipendenza [45]. Connesso a queste [continua ..]
Nel 2015 è stato avviato nel nostro Paese un ambizioso progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario con il tentativo di «restaurare» i tratti identitari del sistema di esecuzione penale impressi dalla Costituzione, ampiamente recepiti nella legge penitenziaria n. 354 del 1975 e rimarcati dalle successive leggi 10 ottobre 1986, n. 663 e 27 maggio 1998, n. 165. L’obiettivo della “Riforma Orlando” [64] è stato duplice: da un lato, rimuovere tutte le «incrostazioni» (divieti, automatismi, preclusioni) stratificatesi nella legge penitenziaria nel corso degli anni per effetto di interventi d’urgenza che, sulla scorta di vere o presunte emergenze, hanno determinato un abuso dello strumento carcerario [65], degenerato nella grave situazione di sovraffollamento delle carceri stigmatizzata dalla Corte di Strasburgo, in quanto causa di trattamenti inumani e degradanti [66]; dall’altro, rivitalizzare alcuni istituti chiave del sistema di esecuzione penale, in primis il lavoro, al fine di restituire «effettività» alla funzione rieducativa della pena. L’aspetto inedito del progetto riformatore è certamente rappresentato dal suo valore culturale, che l’allora Ministro di Giustizia ha voluto coltivare, nella consapevolezza che un disegno così ambizioso richiedeva prima ancora del placet istituzionale, un placet popolare [67]. Con questo spirito è nata l’esperienza degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale a cui hanno preso parte tutte le professionalità che interagiscono nell’esecuzione della pena (magistrati, studiosi delle scienze giuridiche e umanistiche, avvocati, operatori penitenziari, rappresentanti del terzo settore) [68]. Ne è nato un confronto dialettico che non ha mancato di evidenziare divergenze di opinioni anche su nodi essenziali della riforma, riproducendo la pluralità delle sensibilità sui temi trattati, senza mai tradire però la comune matrice costituzionale del pensiero, ossia il rispetto della dignità della persona. Sono note ormai da mesi le sorti definitive di quel progetto di riforma che ha avuto la sventura di nascere e di svilupparsi nel passaggio da un ciclo politico ad un altro [69]. In taluni casi il legislatore delegato ha apertamente preso le distanze dallo schema di [continua ..]