Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Primi spunti per una più efficace comunicazione delle ragioni della giustizia penale (di Glauco Giostra)


Cresce anche oltreoceano la consapevolezza che per l’attuazione dei principi di civiltà giuridica, come quello della risocializzazione del condannato, è necessaria un’accorta ecologia del linguaggio, perché parole gratuitamente stigmatizzanti ed umilianti pregiudicano il conseguimento dell’obbiettivo. Ma per evitare che anche il fondamento di tali principi venga rimesso in discussione è necessario, nell’epoca dei social media, elaborare moduli comunicativi nuovi, che contrastino gli slogan populistici sul terreno dove mettono più facilmente radici: la paura e l’insicurezza sociale.

First ideas for a more effective communication on criminal justice’s reasons

Even overseas, the awareness about the necessity of a language ecology, in order to realize legal civilization principles like that of the condemned’s resocialization is growing, for free stigmatizing and humiliating words undermine this accomplishment. Avoiding that those principles’fundaments could be discussed again, in social media era, means developing new communicative forms that can reframe populistic mottos where they more easily roots: fear and social insecurity.

SOMMARIO:

Le scelte di civiltà giuridica si nutrono anche di parole - È necessario cambiare anche i moduli comunicativi - Lasciare marcire i condannati in galera è pericoloso per la collettività - Alzare il livello della risposta punitiva non ha alcuna efficacia generalpreventiva - Arrestare antidoti efficaci agli slogan populistici


Le scelte di civiltà giuridica si nutrono anche di parole

Nello scorso mese di luglio il Board of Supervisors di San Francisco, l’assemblea legislativa della città e della Contea, ha approvato una risoluzione che ha avuto una certa eco, anche internazionale. La risoluzione contiene alcune linee-guida cui la comunicazione istituzionale dovrebbe attenersi, soprattutto quando fa ri­ferimento ai condannati, affinché venga adottato un linguaggio che collochi al primo posto l’indivi­duo (person-first language). L’obbiettivo è quello di evitare parole eccessivamente stigmatizzanti come criminale, galeotto, pregiudicato, perché creano «barriere attitudinali e stereotipi persistenti, che impediscono l’accesso all’impiego, agli alloggi, alle licenze professionali (…) e ad altri aspetti integranti della vita di comunità», rendendo ancor più difficile il reinserimento nella società di coloro che hanno avuto problemi con la giustizia. Quelle parole come una sorta di lettera scarlatta, marchiano gli individui, sospin­gendoli irreversibilmente ai margini della società. Di qui l’idea di sostituirle con «un linguaggio che colloca al primo posto le persone», promuovendo «una comunicazione positiva, sana e im­parziale», per fare in modo che «l’individuo non venga definito in misura esclusiva o determinante in base ai suoi precedenti penali, ai suoi arresti, o ad altri contatti con il sistema giudiziario penale». Un’at­tenzione, anche verbale, alla dignità della persona condannata che fa tornare alla mente la Circolare con cui il Ca­po del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del nostro Ministero della giustizia poco più di due anni fa – era il 31 marzo 2017 – invitava le direzioni competenti a «intraprendere tutte le iniziative necessarie al fine di dismettere nelle strutture penitenziarie, da parte di tutto il personale, l’uso sia verbale che scritto, della terminologia infantilizzante e diminutiva» che caratterizza il gergo corrente all’interno degli istituti penitenziari (ad esempio: domandina, per indicare la richiesta; dama di compagnia, per indicare la presenza di un altro detenuto nella stessa cella). Accomuna le due iniziative la condivisibile convinzione che parole stigmatizzanti o umilianti compromettono, o quanto meno [continua ..]


È necessario cambiare anche i moduli comunicativi

Limitarsi a disinfettare il vocabolario sociale, eliminando le parole culturalmente inquinanti, non basta. Pur dopo questa bonifica, rimarrebbero messaggi e slogan in grado di corrodere presso l’opinione pubblica la fiducia in alcune scelte di civiltà e di preparare il terreno per opzioni regressive. Del resto, facciamo l’esperimento di apportare alla frase “quel criminale deve marcire in galera”, espressione del­l’attuale (in)cultura della pena, gli opportuni adattamenti linguistici suggeriti dal Board of Supervisors: “quella persona coinvolta con la giustizia penale deve marcire in galera”. L’indecenza del messaggio non viene meno, perché non era nella parola “criminale”, bensì nell’auspicio che l’imputato sconti la pena marcendo in galera. Proviamo allora, interpretando lo spirito più che i suggerimenti terminologici di quella risoluzione, a riformulare l’intera frase con espressioni meno rozze: “sarebbe bene che l’accu­sato di questo delitto venga condannato e che sconti la pena in carcere, nell’assoluta inedia, sino all’ulti­mo giorno”. L’auspicio, pur dopo il restyling, resterebbe inaccettabile. Ma il problema non è deprecarlo, bensì disinnescarlo culturalmente, affinché intorno ad esso non si coaguli un consenso politicamente significativo. Pensare di contrastare quell’invocazione di cieca inesorabilità della pena facendo notare che contiene una grave sgrammaticatura costituzionale, poiché per la nostra Carta costituzionale le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato, sarebbe tanto sacrosanto, quanto inefficace: sul nobile precetto dell’art. 27 comma 3 Cost. farebbero brutalmente premio i grossolani proclami “chi sbaglia paga”, “sbattiamolo dentro e buttiamo le chiavi, un delinquente in meno in circolazione”; o il più anodino “la certezza della pena”, che, sebbene scritto come uno dei principi cardine del diritto penale liberale (relativo alla predeterminazione legale della risposta sanzionatoria dello Stato), è ormai stentoreamente pronunciato, e acriticamente inteso, come “inesorabile fissità della pena”. Bisogna cercare di capire, invece, per quale ragione questi slogan finiscono oggi per avere la meglio. Sino all’avvento dei [continua ..]


Lasciare marcire i condannati in galera è pericoloso per la collettività

Bisognerebbe, invece, contrapporre alle esibite rodomontate punitive un perentorio warning: la segregazione senza speranza mette a grave rischio la sicurezza sociale. Un’affermazione perentoria di cui non sarebbe difficile alla bisogna dimostrare il fondamento. Fatta eccezione per coloro che scontano un ergastolo c.d. ostativo, i condannati prima o poi, espiata la pena, escono dal carcere. Sovente per tornare a commettere reati: l’indice di recidiva, con qualche sensibile oscillazione da Paese a Paese – ad esempio, supera più dell’80% in Brasile (non a caso il Paese con il tasso di carcerazione tra i più alti del mondo), in Inghilterra si attesta intorno al 50% – è sempre molto alto. Questa inclinazione a ri-delinquere diminuisce fortemente quando il condannato sconta la pena in un regime carcerario che ne rispetti la dignità, lo responsabilizzi e gli offra la possibilità di guadagnarsi – anche adoperandosi in favore della collettività e delle vittime dei reati – un graduale, controllato reinserimento sociale. Pure in tal caso gli indici statistici oscillano (in Italia si scende al 19%, in Inghilterra al 22%, in Brasile, limitatamente ai penitenziari pilota Apac, al 12%) sino a registrare circoscritte realtà con percentuali di recidiva ad una cifra (il 5%, per i dimessi dal penitenziario La Stampa di Lugano). Sarebbe intellettualmente poco onesto non riconoscere che si tratta di percentuali non certo affidabili al decimale, essendo spesso frutto di metodiche diverse di rilevazione e di calcolo. Ma sarebbe intellettualmente disonesto negare l’esistenza di una forbice molto significativa tra i crimini commessi da ex condannati, a seconda che questi abbiano subìto una pena ciecamente segregativa, orfana di ogni speranza di cambiamento, oppure una pena severa, ma non insensibile alla loro effettiva partecipazione ad un progetto di riabilitazione che li abbia preparati a rientrare nella società civile, con l’intento e la capacità di viverci come avrebbero sempre dovuto. Se poi opportune provvidenze di assistenza e sostegno accompagnano il condannato quando ha terminato di scontare la pena anche nelle modalità attenuate delle misure alternative nella sua “convalescenza sociale”, quasi sempre viene restituito alla società un buon cittadino. Dunque, [continua ..]


Alzare il livello della risposta punitiva non ha alcuna efficacia generalpreventiva

Ma restiamo al tema della punizione penale. Da sempre, e sempre più negli ultimi tempi, i Governi di fronte a forme di criminalità che inquietano l’opinione pubblica imboccano la via meno impegnativa e più inefficace dell’innalzamento della pena. Non sanno far altro che esibire una muscolarità sanzionatoria: mettono mano alla “fondina legislativa”, innalzando il livello della pena e restringendo i diritti dei condannati. In questa corsa al rialzo punitivo si è arrivati anche ad adombrare la possibilità di introdurre la pena di morte per i reati più efferati (tra l’altro, inquietanti sondaggi riferiscono che il 30% degli italiani sarebbe favorevole). Anche in questi casi, sarebbe inutile obiettare che la pena di morte è vietata dalla nostra Costituzione o che comporta la certezza di uccidere degli innocenti (più del 4% dei giustiziati, secondo studi statunitensi). Verità intangibili, ma che sul piano dialettico-emotivo costituiscono un’aberratio ictus. Bisogna ribattere con forza che l’entità della pena non ha alcun effetto generalpreventivo (consapevolezza, che non è di oggi, né dei soli giuristi: in un quadro del xv secolo, il pittore fiammingo Dieric Bouts raffigurava un patibolo, in cui viene impiccato un ladro: tra la folla assiepata intorno alla forca per assistere all’esecuzione si vede un uomo sfilare banconote a colui che gli volge le spalle). Anzi, la minaccia della pena di morte sembra avere effetti controproducenti. Emblematico il caso degli USA, do­ve è largamente ammessa. Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, non soltanto vi si registrano mediamente 5,3 omicidi ogni 100.000 abitanti, mentre in Italia la media flette sensibilmente ad uno 0,8. Ma negli Stati degli USA che non ammettono la pena di morte si conta un minor numero di omicidi rispetto a quelli che la prevedono. Anche l’idea che aumentare le pene serva a prevenire la commissione di reati, dunque, è un’idea dileggiata dalla realtà.


Arrestare antidoti efficaci agli slogan populistici
Fascicolo 6 - 2019