Al fine di garantire una piena ed efficace tutela all’esercizio libero e sereno dell’attività difensiva, l’ordinamento non consente l’intercettazione dei dialoghi tra l’indagato e il suo difensore: infatti, di fronte ad una simile esigenza di riservatezza, l’interesse all’accertamento della responsabilità diviene secondario. Tuttavia, i confini del divieto non appaiono sempre così netti, soprattutto alla luce dei consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità.
Le principali perplessità sorgono con riguardo alle modalità operative delle intercettazioni, relative alla fase di ascolto e trascrizione dei colloqui. Occorre, pertanto, interrogarsi sui poteri e sulla discrezionalità della polizia giudiziaria, per evitare che dati conoscitivi riservati facciano il loro ingresso nel materiale probatorio.
In order to guarantee full and effective protection to the right of defence, it is forbidden to intercept the conversations between the suspected person and his lawyer: indeed, the interest of determining the liability takes second place to the need of confidentiality. Nonetheless, the boundaries of the prohibition are not always so clear, especially in the light of settled Supreme Court decisions.
The main concerns are related to the operating procedures of the interceptions, with regard to the phases of listening and transcription of communications. Hence, it is necessary to raise questions about the powers and the discretion of the judicial police, in order to prevent privileged dialogues from entering the evidentiary material.
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L'oggetto della tutela - La disciplina e le ricadute interpretative - Natura del divieto e profili sanzionatori - Dalla teoria alla prassi: divieto di trascrizione e ruolo della polizia giudiziaria - NOTE
Primario ed imprescindibile nucleo di articolazione della strategia difensiva, lo scambio di informazioni fra la persona sottoposta alle indagini e il suo difensore gode di copertura costituzionale in quanto estrinsecazione essenziale dell’inviolabile diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. Da tale ragione scaturisce la peculiare connotazione che il quadro normativo processualpenalistico riconosce ai suddetti dialoghi: non solo meritevoli di protezione di fronte ad un’eccessiva e sproporzionata ingerenza della pubblica autorità, bensì del tutto inaccessibili per l’organo di accusa, indipendentemente dalle esigenze di ricerca probatoria che dovessero emergere. Infatti, benché la captazione delle conversazioni fra avvocato e indagato si collochi nel solco di quelle situazioni in cui l’attività investigativa si trova in potenziale conflitto con il dispiegarsi di quella difensiva, in questo specifico caso non è sufficiente una soluzione di compromesso fra gli interessi contrapposti ispirata al principio di proporzionalità e ad un livellamento di garanzie tra accertamento penale e protezione dei diritti individuali. Piuttosto, al fine di assicurare la piena effettività della tutela costituzionale, diventa indispensabile una scelta binaria che renda subalterna l’esigenza di intrusione investigativa. Di qui, il divieto posto dall’ordinamento di procedere all’intercettazione dei colloqui difensivi, di cui all’art. 103, comma 5, c.p.p. La ratio della disciplina si innesta su un presupposto assiologico di fondo per il quale l’interesse alla ricerca e alla formazione della prova, motore immobile di tutta la fase investigativa, subisce una battuta di arresto di fronte alla salvaguardia della segretezza di queste conversazioni. Naturalmente, il limite assoluto alla captazione dei colloqui non scaturisce dalla volontà di porre uno sbarramento alla compressione della libertà e della segretezza delle conversazioni così come tutelate dall’art. 15 Cost., giacché nei limiti e secondo i presupposti di cui agli art. 266 ss. c.p.p. l’attività intercettativa è legittima. Ne consegue che, nell’intenzione del legislatore, a dover essere preservate sono quelle conversazioni la cui riservatezza è funzionale al libero e sereno svolgimento dell’attività difensiva. Solo in [continua ..]
In linea con quanto appena affermato in termini di oggetto della tutela, la disciplina codicistica che postula il divieto di intercettazioni, contenuta – come detto – nell’art. 103 c.p.p., rappresenta un esempio di perimetrazione dei casi nei quali è consentito l’uso dello strumento intercettativo. Come tale, impone il rispetto di un rigido rigore formale, cui fa seguito l’aspetto sanzionatorio [10]. Sotto il primo profilo, il disposto del comma 5 dell’art. 103 c.p.p. prevede espressamente che le comunicazioni fra i difensori e i propri assistiti non possono costituire oggetto di captazione; per quanto concerne il secondo, il comma 7 specifica che i risultati delle intercettazioni eseguite in violazione delle disposizioni precedenti non possono essere utilizzate. Partendo dall’analisi del divieto legislativo, occorre preliminarmente inquadrare l’ambito soggettivo nel quale esso opera. La norma, infatti, non consente l’intercettazione «relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite» [11]. Innanzitutto, una simile formulazione non deve lasciar supporre che la tutela sia rivolta a proteggere l’esercizio della professione forense: l’intenzione del legislatore è quella non di riconoscere un particolare privilegio a determinate categorie professionali [12], ma di impedire – innanzitutto – di investigare sull’indagato attraverso il controllo a carico del difensore [13] e, quindi, di riconoscere – in senso più ampio – che esiste un ambito nel quale l’attività difensiva deve poter essere libera di autodeterminarsi [14]. Ciò significa che non solo si vieta la captazione di conversazioni tra il difensore e il suo assistito, ma anche di quelle che intercorrono fra tutti i soggetti appartenenti al nucleo difensivo [15]. Solo in questa chiave, infatti, può essere letta la tutela apprestata dalla norma, che opera in via anticipatoria sulla sfera di garanzie delle libertà del difensore, statuendo, con un’espressione che non dà adito ad equivoci, che l’intercettazione «non è consentita». Proprio il riferimento costante al dato valoriale, legato [continua ..]
Quanto detto finora si traduce, sul piano concettuale, nella dicotomia fra l’approccio che postula la necessità di operare una verifica postuma sul contenuto delle conversazioni intercettate, in linea con il dettato giurisprudenziale sino ad ora consolidatosi, e la soluzione interpretativa offerta dalla dottrina che qualifica la disciplina di cui all’art. 103, comma 5, c.p.p. come un divieto di disporre l’attività captativa a monte [28]. Abbracciando la prima delle due posizioni prospettate, la Suprema Corte esclude, dunque, che la preclusione in esame possa essere considerata un divieto assoluto di conoscenza ex ante ed afferma che solo la violazione dell’obbligo di effettuare la verifica contenutistica ex post, ovvero un eventuale accertamento positivo circa la natura professionale dei colloqui, possano comportare l’inutilizzabilità delle risultanze dell’ascolto non consentito, ex art. 103, comma 7, c.p.p., e la distruzione della relativa documentazione, a mente dell’art. 271 c.p.p. [29]. Uno dei punti di maggiore frizione scaturisce proprio dalla relazione fra le norme da ultimo citate [30]. L’art. 103, comma 7, c.p.p. precisa che i risultati delle intercettazioni eseguite in violazione delle disposizioni precedenti sono inutilizzabili, salvo quanto previsto dall’art. 271 c.p.p. Il richiamo alla norma per intero lascia supporre un rapporto di genus a species tra il comma 1 dell’art. 271 c.p.p. e il comma 7 dell’art. 103 c.p.p.: quest’ultimo rappresenta la specificazione di una sanzione processuale prescritta in via generale dal primo, che stabilisce l’inutilizzabilità delle intercettazioni avvenute contra legem [31] ed è dunque destinato a rimanere residuale. Per quanto concerne il comma 3 dell’art. 271 c.p.p., che dispone la distruzione della relativa documentazione, esso costituisce un utile rimando, in grado di rafforzare l’efficacia della sanzione. Maggiori criticità ha sollevato, invece, il riferimento al comma 2, che sancisce l’inutilizzabilità dei risultati della captazione di comunicazioni di persone tenute al segreto professionale. Seppur potenzialmente coincidenti sul piano soggettivo, in quanto abbracciano – di fatto – anche il medesimo novero di soggetti in esame, le due norme non condividono tuttavia [continua ..]
In soccorso al perseguimento del citato obiettivo, individuato nel rafforzamento del divieto di captazione, sono giunte alcune linee guida dettate dal Consiglio Superiore della Magistratura [38] e da svariati uffici di procura [39], anche nel tentativo di garantire un’applicazione uniforme dell’art. 103, comma 5, c.p.p. Lo scopo di queste direttive è nel senso di espungere dal materiale del procedimento quanto illegittimamente intercettato, provvedendo ad omettere qualsiasi riferimento ai contenuti captati nelle annotazioni, e nei relativi allegati, delle operazioni svolte. La Circolare della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, del 17 gennaio 2017, ad esempio, motiva questa raccomandazione sulla scorta del fatto che «ancorché la conversazione medesima non venga concretamente utilizzata ai fini delle indagini e del processo, la stessa presenza, agli atti del procedimento, della conversazione radicalmente inutilizzabile e dunque la sua concreta conoscenza e potenziale diffusione costituiscono oggettiva violazione delle disposizioni di legge ed elusione delle linee direttive già impartite». Sulla stessa spinta si colloca l’intervento legislativo riformatore contenuto nel d.lgs. n. 216 del 2017, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 84, lett. a), b), c), d) ed e), della legge 23 giugno 2017, n. 103. Esso introduce nel comma 7 dell’art. 103 c.p.p. una nuova disposizione che vieta la trascrizione anche sommaria dei colloqui con l’avvocato comunque intercettati [40], di cui sono indicati – nel verbale delle operazioni – soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta, fermo restando il divieto di utilizzazione già statuito, che rimane un rimedio residuale. È stato, dunque, positivizzato il principio già fatto proprio da alcuni uffici giudiziari, assegnando agli ufficiali di polizia giudiziaria, delegati dal pubblico ministero ad eseguire le operazioni, il compito di vagliare preventivamente il contenuto dei dialoghi e prevenirne l’ingresso nella documentazione [41]. Viene, cioè, anticipato uno sbarramento che, seppur “tardivo”, perché intervenuto in costanza di intercettazione, precede quello dell’inutilizzabilità, andando a coprire tutte quelle situazioni in cui la captazione sebbene legittimamente [continua ..]