Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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Automatismi penitenziari e tutela del minore: la Consulta detta i criteri di bilanciamento (di Maria Chiara Saporito)


La pronuncia si inserisce nel solco di una copiosa giurisprudenza costituzionale tesa alla rimozione degli automatismi penitenziari che irragionevolmente comprimono il diritto dell’infante a godere delle cure della madre detenuta. La censura investe, questa volta, la disciplina di accesso al beneficio dell’assistenza della prole in esterno, la quale, escludendo alcune categorie di recluse sulla base di presunzioni assolute, lede irrimediabilmente gli interessi del minore anche quando non ricorrano, in concreto, esigenze preventive tali da giustificarne il totale sacrificio. Al vulnusche ne deriva, la Corte offre rimedio formulando cd. delega di bilanciamento, ossia legittimando l’interprete ad accordare preferenza, quando lo imponga la specificità del caso, a valori costituzionali che, altrimenti, la rigida formulazione della norma oblitererebbe.

Penitentiary presumptions and protection of the child's interest: the Constitutional Court sets the balancing criteria

The judgement forms part of a copious amounts of Constitutional Court’s rulings aimed at removing penitentiary presumptions that unresasonably compress the child’s right to mothering. The decision concerns the rules for access to the external assistance of children that, absolutely excluding some types of inmates, harm the child’s interest even if there are not social security needs. The constitutional breach is solved by the Court delegating to the judge the power to prefer, depending on the case, rights that otherwise would be neglected.

SOMMARIO:

La questione - L'inquadramento sistematico dell'assistenza in esterno della prole - La legislazione d'emergenza e il diritto premiale multilivello - Il sacrificio dell'interesse del minore insito nell'automatismo legislativo - I meccanismi presuntivi nella giurisprudenza costituzionale - NOTE


La questione

Con la pronuncia in commento, la Corte Costituzionale torna a censurare il sistema degli automatismi preclusivi di benefici penitenziari. Oggetto della decisione è l’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (di seguito ord. penit.) – norma di riferimento per l’accesso delle detenute madri all’assistenza all’esterno dei figli minori di dieci anni – nella parte in cui, attraverso il rinvio al precedente art. 21, preclude del tutto la concessione del beneficio alle recluse per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater ord. penit. oppure la subordina alla previa espiazione di una frazione di pena, salvo che ricorra la condotta collaborativa di cui all’art. 58-ter ord. penit. A fondamento dell’incostituzionalità della norma, la Consulta ne assume il contrasto con l’art. 31, comma 2, Cost., dichiarando invece assorbiti i motivi sollevati dal giudice a quo con riferimento agli artt. 3, 29, 30 Cost. La questione origina nell’alveo di un procedimento attivato dinanzi al magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi da una detenuta, condannata a quattro anni e dieci mesi di reclusione per i delitti di cui agli artt. 73 e 74 del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, cui era stata rifiutata l’ammissione all’assistenza esterna dei figli. A motivare il diniego dell’amministrazione penitenziaria la circostanza che la ricorrente non avesse espiato almeno un terzo della pena; condizione, questa, espressamente formulata dall’art. 21 ord. penit. per l’accesso al lavoro esterno di detenuti condannati per uno dei reati di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter, 1-quater ord. penit. e operativa, in forza del rinvio svolto dall’art. 21-bis, anche per il beneficio in questione. In sede di reclamo ex art. 35-bis ord. penit., la ricorrente deduceva l’illegittimità costituzionale del­l’art. 21-bis per violazione degli artt. 3, 27, 29, 30, 31 della Carta fondamentale. Appuratane la non manifesta infondatezza e la rilevanza nel giudizio a quo [1], il giudice di sorveglianza sollevava quindi questione di legittimità costituzionale. Nel merito, il magistrato ricordava come l’art. 21-bis ord. penit. fosse stato introdotto, unitamente alla detenzione domiciliare speciale, dalla legge 8 marzo 2001, n. 40 allo scopo di tutelare il diritto del [continua ..]


L'inquadramento sistematico dell'assistenza in esterno della prole

La Corte ricostruisce la disciplina censurata muovendo dalla sua genesi: introdotto nell’ordinamento penitenziario dalla legge n. 40/2001, l’art. 21-bis funge da valvola di sfogo per tutte quelle situazioni che, seppur meritevoli di protezione, non trovavano tutela nella detenzione domiciliare, ordinaria o speciale. Rispetto a queste ultime misure, il beneficio dell’assistenza in esterno alla prole si presenta assai meno favorevole perché modifica ma non elide la condizione detentiva della madre, la cui permanenza in carcere viene semplicemente intervallata da uscite programmate in funzione dell’accudimento del bambino [5]. Pur nella diversità di regime, gli istituti in parola condividono un’identica ratio: quella, esplicitata dalla stessa Corte, di favorire il rapporto madre-figlio in un contesto non segregante. Per meglio comprendere il dato assiologico della misura in esame, è opportuno osservare come essa non rappresenti che un tassello di un più ampio progetto di riforme, avviato negli anni ‘80 con lo scopo di estromettere progressivamente le detenute madri dall’ambiente penitenziario. A spingere in questa direzione evolutiva, la maturata consapevolezza che maternità e infanzia rappresentino valori non adeguatamente salvaguardati negli istituti di reclusione e che le misure che vi favoriscono l’ingresso anche dell’infante, per quanto animate dal nobile intento di non recidere bruscamente il legame materno, presentino più controindicazioni che utilità. Misure di tal genere, già contemplate nella legge sull’ordina­mento penitenziario del 1975 [6], non risolvono ma solamente posticipano il distacco dalla madre, rendendolo, se possibile, ancor più traumatico. Peraltro, è la stessa permanenza, anche provvisoria, in un ambiente punitivo, povero di stimoli e nel quale la figura genitoriale è defraudata di ogni autorevolezza, a mostrarsi dannosa per lo sviluppo psicofisico del bambino. Riconosciuta l’inadeguatezza, se non la nocività, degli strumenti inframurari a tutela della maternità, il legislatore ha cominciato a volgere lo sguardo verso misure alternative alla detenzione in carcere. La condizione delle madri detenute veniva così inserita, ad opera della legge n. 663/1986 (c.d. legge Gozzini), nel testo dell’art. 47-ter ord. penit. come uno dei [continua ..]


La legislazione d'emergenza e il diritto premiale multilivello

Individuata la ratio del beneficio dell’assistenza alla prole, la Corte illustra i nodi che il richiamo al­l’art. 21 ord. penit. comporta con riferimento alla situazione delle detenute per i reati enunciati dall’art. 4-bis ord. penit. ai commi 1, 1-ter e 1-quater (cd. ostativi). L’accesso di queste persone al lavoro in esterno è condizionato, a norma del citato art. 21 ord. penit., alla previa espiazione di un terzo della pena, o di dieci anni in caso di ergastolo. Dalla lettura congiunta della norma con gli artt. 4-bis e 58-ter ord. penit emergono, tuttavia, ulteriori sbarramenti legati alla collaborazione con la giustizia. Come è noto, l’introduzione, all’indomani della stagione stragista del 1991-1992, degli artt. 4-bis e 58-ter ord. penit. ha segnato l’esautoramento del principio di uguaglianza dei condannati in fase esecutiva [15] a favore di un sistema trattamentale diversificato in funzione del Tatertypus: [16] detenuti “comuni”, collaboratori di giustizia e detenuti per delitti di mafia non collaboranti. Muovendosi su direttrici di intervento diverse ma convergenti nello scopo [17], il decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203 [18], da un lato ha stabilito divieti e limitazioni ai benefici penitenziari nei confronti degli autori di delitti riguardanti la criminalità organizzata, dall’altro ha istituito un privilegio di esclusione dal suddetto regime per quelli tra di loro che avessero collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. penit. Pur se soggetto negli anni a frequenti ed estese interpolazioni [19], l’art. 4-bis ord. penit. ha mantenuto il suo scheletro originario, presentandosi ancora oggi come un catalogo di reati, ordinati secondo un criterio di pericolosità e “ostatività” decrescente [20]. Il disegno tracciato dall’art. 4-bis ord. penit. è arricchito nel dettaglio dalle singole disposizioni inerenti i benefici e le misure alternative cui la disciplina restrittiva si applica. In particolare, l’art. 21 ord. penit., con riferimento ai detenuti per tutti i reati di cui all’art. 4-bis, subordina l’accesso al lavoro esterno all’avvenuta espiazione di un quantum di pena, stabilito in un terzo della pena o dieci [continua ..]


Il sacrificio dell'interesse del minore insito nell'automatismo legislativo

Quale che sia il suo status in base alla classificazione “interna” offerta dall’art. 4-bis, il detenuto per reato ostativo si vedrà sempre negato il beneficio premiale nell’ipotesi in cui non abbia prestato la condotta collaborativa o non abbia parzialmente scontato la pena. La normativa di riferimento non lascia spazio per interpretazioni correttive ed esibisce una tecnica legislativa – quella degli automatismi – che, come si avrà modo di dire, è da tempo oggetto di critiche da parte dello stesso giudice costituzionale. La censura qui mossa dalla Corte riguarda la trasposizione anche al beneficio dell’assistenza alla prole del complesso sistema di preclusioni inderogabili descritto in precedenza. A generare perplessità sono le divergenze che il beneficio in esame e il lavoro in esterno registrano sul piano assiologico. Pur condividendo con il lavoro esterno le aspirazioni rieducative nei confronti della madre, l’assistenza all’esterno della prole appare votata prioritariamente a preservare il figlio dalla perdita della figura genitoriale in una fase nevralgica del proprio sviluppo. Scopo primo dell’istituto è, quindi, la tutela del minore, soggetto distinto dalla detenuta e le cui istanze trovano riconoscimento sul piano costituzionale e sovranazionale. Si vedano in proposito le disposizioni della Carta fondamentale a tutela della famiglia come società naturale, del diritto-dovere all’educazione dei figli e della protezione dell’infanzia (artt. 29, 30 e 31 Cost.). Nella stessa prospettiva, fonti internazionali quali la Convenzione sui diritti del fanciullo, adottata a New York il 20 novembre 1989 [23] e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, esprimono, nel complesso, il principio generale per cui il “superiore” interesse del minore può risultare soccombente, nelle decisioni assunte da autorità pubbliche o istituzioni private, solo in esito ad un’operazione di bilanciamento con gli altri interessi in gioco [24]. Preso atto dello statuto di tutela di cui gode il minore, la Corte ha ribadito le osservazioni già espresse nella sentenza n. 239 del 2014 con riferimento all’esclusione, ad opera dell’art. 4-bis, comma 1, delle detenute non collaboranti dalla detenzione domiciliare speciale. In [continua ..]


I meccanismi presuntivi nella giurisprudenza costituzionale

Che il tema degli automatismi giunga con tanta frequenza all’attenzione della Consulta non sorprende: esso non è che l’altra faccia dell’eterna questione circa i limiti del giudice nell’interpretazione della legge penale. Tentando di semplificare, si può affermare che la discussione verte sulla ricerca di un accettabile equilibrio tra le due anime del diritto, «quella sapienziale, che vorrebbe ancorare la decisione giudiziale all’apprezzamento quasi equitativo delle esigenze che emergono nel caso concreto; e quella formalistica, se non legalistica, che aspira alla certezza del diritto e alla prevedibilità delle decisioni giudiziali adottate sulla base di norme generali e astratte» [27]. Se è vero che, in ossequio al principio di legalità, l’attività creatrice del diritto resta prerogativa delle istituzioni rappresentative, non si può, tuttavia, negare che la tutela di altri principi di pari valore costituzionale pare oggi richiedere al formante giurisprudenziale un ruolo sempre più incisivo. Lo stimolo a riconoscere in capo al giudice taluni margini di autonomia rispetto alle previsioni della legge proviene, innanzitutto, dall’urgenza di dare attuazione al principio di uguaglianza, o, meglio, di realizzare la c.d. dimensione negativa di tale principio, che impone di trattare diversamente situazioni tra loro difformi. Ma è la stessa funzione rieducativa della pena, predicata dall’art. 27, comma 3, Cost., a vietare la strumentalizzazione del singolo a fini general-preventivi di deterrenza e ad esigere una modulazione del trattamento sanzionatorio sulla base del fatto e alle caratteristiche del suo autore. Nonostante la portata di tali input, l’indirizzo assunto dal legislatore negli ultimi anni nei confronti del potere giudiziario è stato più restrittivo che concessorio [28]. E terreno elettivo di questa tendenza alla compressione è stato proprio il diritto punitivo, che, per il suo valore anche simbolico [29], si è ritenuto necessitasse, più di altri, di essere reso impermeabile a pericolose interferenze nel momento applicativo. L’ordinamento ha visto così progressivamente proliferare i cd. automatismi legislativi: disposizioni che radicalizzano il normale rapporto di consequenzialità fra apodosi (se A) e protasi (allora B), proprio in generale di [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2019