Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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L'autodifesa esclusiva nel processo penale statunitense (di Rosanna Gambini)


L’autodifesa esclusiva, praticata già in epoca coloniale, e riconosciuta dalla Corte suprema come diritto di rango costituzionale nel 1975, è una presenza tuttora visibile negli USA, principalmente, per ragioni ideologiche e socio-economiche, non ostante la sua ammissibilità di modello di difesa alternativo alla difesa tecnica abbia dato e dia luogo a molteplici problemi in termini di correttezza processuale e di uguaglianza di trattamento che, purtroppo, l’innesto del difensore di sostegno, a fianco dell’autodifeso, non è stato in grado di superare.

Self Representation in American Criminal Trials

Pro se representation or pro se defense, well known, since the time of the british colonies, and recognized by the U.S. Supreme court, as a constitutional right in 1975, is still alive in the USA, dependent on many fact or, especially, on ideological or socio-economic ones. Nonetheless it created and ever does serious problems in fairness and discrepancies in equality, if unsolved or not conveniently solved through the appointment of a stand by counsel to guide the accused and assure a fair trial, then the status quo ante remains.

SOMMARIO:

USA: la pro se defense, diritto individuale o finzione del sistema? - Waiver doctrine e rinuncia al difensore - L'alibi della volontarietà nell'inquiry del giudice - Dall'autodifesa esclusiva alla 'pseudo-assistenza' dello stand by counsel - Stand by counsel e/o advising del Giudice? - NOTE


USA: la pro se defense, diritto individuale o finzione del sistema?

Presso di noi, l’adesione al principio della irrinunciabilità della difesa tecnica nel processo penale, in assenza di una norma ad hoc che l’autorizzi, ancora ribadito dal giudice di legittimità [1], ha eretto una barriera, pressoché impenetrabile, all’ingresso dell’autodifesa esclusiva. Non così negli USA, dove, anche per l’influenza del common law, la sua legittimità e la sua valenza di modello alternativo alla fullrepresentation del difensore, hanno trovato, fin da subito, ampio riconoscimento nelle legislazioni degli Stati e della federazione. Va da sé, d’altro canto, che quando si assume la libertà di ognuno, quale valore paradigmatico e connotativo del sistema giuridico e sociale, risulta oltremodo agevole ammettere che qualsiasi diritto riconosciuto, qualsivoglia garanzia, pur se di rango costituzionale, siano liberamente rinunciabili da parte di colui che ne ha la disponibilità (standing), senza doversi considerare la gravità del reato o la severità della pena [2]. Ma, né il richiamo ai valori fondativi o alla tradizione di common law [3] – che valgono, semmai, a giustificarne la genesi – né il favor, a suo tempo, ostentato dalla Corte suprema [4], bastano a spiegare il persistere, in quell’universo processuale [5], di un fenomeno che attraversa, trasversalmente, sia la giustizia civile che quella penale. Si è così appurato [6] che la sua visibile insistenza, nel corso del tempo, si deve a molteplici ragioni ed esprime esigenze tra loro diverse: che talvolta, come nei casi di matrice ideologica o politica, il rifiuto all’ausilio difensivo origina dal disconoscimento dello Stato e di qualunque propaggine dell’autorità statuale [7], talaltra da una percezione ottimistica delle chances di assoluzione [8] o per una sopravvalutazione delle proprie capacità argomentative; che, più spesso, però, l’assenza del difensore dal processo o la rinuncia ad esso si legano allo status finanziario del defendant [9] e, in concreto, discendono da un servizio pubblico di difesa del tutto insufficiente e, per lo più, inadeguato [10]. A farne le spese è, soprattutto, quella fascia di popolazione, che, per reddito familiare [continua ..]


Waiver doctrine e rinuncia al difensore

Purtroppo, nell’affrontare il tema, ben poca attenzione vi ha dedicato il giudiziario statunitense, il quale, ancora una volta, si è mostrato incapace di cogliere i riflessi condizionanti che le sperequazioni socio-economiche introducono nel processo e, quindi, di riconoscere che il criminal justice system non funziona per tutti allo stesso modo. Nell’ottica, talvolta, miope delle Corti, lo status finanziario dell’imputato non rileva, e nemmeno rilevano l’inefficienza o l’insufficienza del sistema-difesa. Ciò che conta, alla fine, e consente al giudice di validare o no la rinuncia al difensore, sono solo la ”conoscenza” dei sequitur e la “intenzionalità” manifestate dal rinunciante. Pertanto, se l’imputato è stato adeguatamente informato dei suoi diritti, ammonito degli svantaggi derivanti dalla self representation e degli effetti negativi scaturenti dalla sua scelta, in caso di condanna, è, per ciò stesso, ritenuto consapevole. Mentre, se non è etero diretto o, peggio, costretto con violenza, minacce o blandizie, la rinuncia è volontaria, ed il giudice la avalla, tenendo conto di taluni fattori soggettivi, quali background, età, condizioni mentali, esperienze pregresse [23], il cui apprezzamento congiunto dovrebbe assicurare un esito di maggiore ponderatezza. Ma, ammesso e concesso che, alla luce dei principi fondativi dell’ordinamento, l’imputato vanti il diritto di decidere se difendersi di persona, purché sia in grado di rinunciare “consapevolmente e volontariamente” al suo diritto al difensore, mi chiedo, e la domanda è puramente retorica, come si possano trascurare profili, quali la capacità del soggetto di organizzare per sé una difesa adeguata, di avere familiarità con le norme sostanziali o procedurali o cognizione dei tecnicismi processuali [24], alla cui osservanza, peraltro, il self defendant è tenuto, perché l’ignoranza della legge non lo scusa [25]? Tutti profili di sicura rilevanza e decisività che, se presi in seria considerazione, a mio avviso, dovrebbero, nella maggior parte dei casi, indurre il giudice a considerare unfair la richiesta di autodifendersi e, di converso, a respingerla. Il fatto poi che il togato si rifiuti di accoglierla, [continua ..]


L'alibi della volontarietà nell'inquiry del giudice

Da quanto detto, mi pare evidente che né i requisiti che presiedono alla scelta, per come vengono interpretati dalla giurisprudenza, né l’inquiry rimessa al giudice possano fornire a quest’ultimo i dati necessari, per addivenire ad una decisione meditata sulla rinuncia. Si consideri, in particolare, l’incidenza che vi assume il voluntariness requirement. Qui, come per ogni altra ipotesi di rinuncia ad un diritto o ad una garanzia, l’intenzionalità che deve sorreggere l’atto riguarda l’aspetto formale del “dichiarato” e l’accettazione delle conseguenze da parte del “dichiarante”, ma non offre un canone decisorio al quale attenersi in tutte le situazioni rappresentabili. E mi spiego. Non dubito che alla luce del requisito della volontarietà, come declinato dalla giurisprudenza statunitense [28], una rinuncia al difensore, resa dietro violenza minaccia o inganno, sia certamente invalida, perché divergente dalla scelta che l’imputato avrebbe fatto, per sé, ove non fosse stato sottoposto a quelle pressioni; che, invece, nei casi di c.d. autodifesa “anarchica”, il rifiuto opposto all’ausilio difensivo sia sicuramente volontario [29]. Che dire, però, rispetto ad altre ipotesi, tra quelle prima elencate, ovverossia, allorché la decisione di autodifendersi rifletta le condizioni socio-economiche dell’imputato, né ricco né povero, oppure sia un esito indotto da un servizio di difesa insufficiente, a causa dei robusti tagli che, in omaggio ad una gestione volutamente realistica, quasi cinica, della finanza statale, o ai desiderata di un’opinione pubblica sempre più forcaiola, sono stati inferti al sistema di patrocinio gratuito? Può quella rinuncia o quel rifiuto, per come sono maturati, considerarsi, a tutti gli effetti, intenzionali? Credo proprio di no. Ma, non poche perplessità mi suscita anche l’indagine demandata al giudice, indagine che, come è costume nei sistemi di case law, non è disciplinata ex lege [30], né, a dispetto dei parametri ai quali, in Von Moltke, ha dato il suo imprimatur la Corte suprema [31] uniformemente standardizzata nelle varie giurisdizioni [32]. E, last but not least, perché temo che, nella quotidianità del lavoro [continua ..]


Dall'autodifesa esclusiva alla 'pseudo-assistenza' dello stand by counsel

Del tutto inadeguata, a fini di reale tutela, la figura dello stand by counsel, o difensore d’appoggio o di sostegno [34] – introdotta da una sentenza, per certi versi storica, anche se molto dibattuta tra i Giudici supremi [35] – e ciò sia nella sua versione primigenia, sia in quella successiva [36], dove i suoi contorni, prima lasciati, irresponsabilmente, nel vago [37], vengono meglio esplicitati [38]. Infatti, ben poco rileva che in Mc Kaskle in Mc Kaskle lo stand by counsel non sia più solo un mero spettatore, la cui presenza in aula poteva venire utile, se e quando l’autodifesa dovesse, per qualche motivo [39], cessare nel corso del processo; che gli venga riconosciuto, dunque, un ruolo più “difensivistico”; che lo si autorizzi ad agire in giudizio, senza che i suoi interventi difensivi debbano venire richiesti dal pro se defendant, ma a patto che siano a bassa frequenza e di poca sostanza [40], giacché, a mio modo di vedere, il risultato non cambia: si tratta, pur sempre, di un difensore depotenziato, al quale non si riconoscono né spettano la conduzione e l’organizzazione della difesa [41]. Del resto, era in re ipsa che la vaghezza degli standards, assunti in sentenza, non si prestassero, a dissipare tutte le incognite che, nella prassi, il legale prescelto avrebbe dovuto affrontare. Anzi era, già in allora, facile preconizzare [42] come, il più delle volte, costui si sarebbe trovato, suo malgrado, a presenziare in udienza, senza sapere quali siano e fin dove si estendano i suoi poteri di azione e di intervento. Né, a ben vedere, da quel corpus di norme che disciplinano l’etica professionale [43] e prefigurano ex ante la condotta corretta per ogni difensore, possono venirgli lumi bastanti a guidarlo. Tra l’altro e, per il rilievo che occupa, mi pare sia un omissis di non poco conto, non è affatto chiaro se il dovere di difendere con zelo e lealtà il cliente, con il solo limite di rispettare la legge e l’etica professionale, che dovrebbe intervenire ad orientare il percorso di ogni difensore penale, meriti altrettanta osservanza nel rapporto sui generis che si dipana tra stand by counsel e imputato pro se. Si consideri che, di regola, in nome [continua ..]


Stand by counsel e/o advising del Giudice?

Di recente, però, la dottrina statunitense ha cominciato a chiedersi se la soluzione, prospettata nei companion cases, Faretta-Mc Kaskle, e che, forse più per esigenze conservative dell’esistente, che per profonda convinzione ideologica, non è stata ancora smentita dalla Corte suprema [57], rappresenti la sola via d’uscita, fermo restando che altre, però, avrebbero potuto alterare le geometrie di un processo inteso come una contesa a due avanti ad un organo terzo. Così sarebbe stato, se, in luogo dello stand by counsel, si fosse optato per destinare interamente al giudice il delicato compito di sopperire all’ignoranza legale dell’imputato, dispensandogli in udienza tutti i suggerimenti necessari a sostenere una difesa appropriata [58]. Va da sé, infatti, che una tale scelta, se non governata, oltre a rallentare i tempi di un processo, informato ai criteri dell’oralità e dell’immediatezza, avrebbe comportato una metamorfosi del Trial Judge, il quale da arbitro, neutral e detached, si sarebbe trasformato o, per lo meno, così sarebbe stato percepito dalla jury e dall’opinione pubblica come il “custode” degli interessi di colui che si autodifende [59]. Ma, pur dovendosi riconoscere che un rischio di devianza rispetto ad un’ipotesi corretta dello schema processuale triadico, sussiste ogni qualvolta si decide di assegnare a colui che presiede un ruolo più pregnante e meno afasico, non di meno una tale preoccupazione non andrebbe estremizzata. Non è detto, infatti, che la concessione di maggiori spazi di intervento al giudice – sempre che siano attentamente calibrati e che l’advising da parte sua non si traduca in una vera e propria attività di supporto tecnico-giuridico ovverossia di couching – debba scontrarsi con o compromettere l’efficiency o la judicial impartiality [60]. Piuttosto, si è obiettato [61], vi sarebbero taluni avvertimenti che il giudice potrebbe impartire a colui che si autodifende, senza per questo perdere la sua caratura di mere unpire: così, a mo’ di esempio, quando i suoi moniti, pur se ad adiuvandum, apparissero mirati a garantire al pro se defendant il pieno esercizio delle garanzie che gli competono o a difenderlo dagli attacchi [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2019