Il presente contributo si propone l’obiettivo di analizzare l’attuazione della Direttiva 2016/1919/UE del 26 ottobre 2016 in materia di legal aid, avvenuta con l’adozione del d.lgs. 7 marzo 2019, n. 24. Premessi brevi cenni in ordine al contesto europeo che ha dato origine alla direttiva in parola, ci si è soffermati sulle singole disposizioni che integrano il decreto, esaminandone l’impatto sulla disciplina contenuta nel d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, c.d. “testo unico spese di giustizia”. Particolare attenzione è stata dedicata al profilo dell’effettività del diritto di difesa, autentico fil rouge della direttiva, e al modo in cui la novella ha tentato di garantirla. Da ultimo, si è ritenuto opportuno dedicare alcune considerazioni alle criticità del provvedimento in esame, il quale, nel suo complesso, appare poco incisivo e soddisfacente.
In the present work we analyze the implementation of directive (EU) 2016/1919 of the European Parliament and of the Council of 26 October 2016 on legal aid, which took place with the adoption of Legislative Decree 7th March 2019, n. 24. After a brief introduction to the European context, that gave rise to the directive in object, we focused on the individual provisions that supplement the decree, examining the impact on the discipline contained in d.p.r. 30th May2002, n. 115, so called "Testo unico spese di giustizia". Particular attention was paid to the pro-file of the right of defense effectiveness, a true common thread of the directive, and to the way in which the decree attempted to guarantee it. Finally, we examined the critical points of the provision in object, which, as a whole, appears to be not incisive or satisfactory.
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Premessa - Il quadro europeo e la Direttiva 2016/1919/UE - L’attuazione italiana: un chiaroscuro di addizioni e sottrazioni - L’estensione del patrocinio ai procedimenti di esecuzione del mandato di arresto europeo - L’abrogazione parziale della preclusione di cui all’art. 91, comma 1, lett. a), t.u. - L’aggiunta del contrappeso: la modifica di cui all’art. 76, comma 4-bis, t.u. - Le disposizioni finanziarie - Osservazioni in merito alla trasposizione - Il problema dell’“effective remedy” - I soggetti vulnerabili - Qualità del servizio e formazione del personale - Conclusioni - NOTE
La necessità di dare attuazione alla Direttiva 2016/1919/UE[1] in materia di legal aid ha riacceso l’attenzione del legislatore domestico su un punto nevralgico dell’ordinamento interno, caratterizzato dalla costante frizione tra interessi antagonisti: da un lato, l’imperativo costituzionale di garantire ai non abbienti attinti da un procedimento penale i mezzi per difendersi in giudizio, dall’altro, la cronica carenza di risorse da destinarvi nel concreto. Da decenni, infatti, attorno all’istituto del patrocinio a spese dello Stato si accumulano ansie e speranze[2]: non si allude soltanto al comprensibile timore di chi si trova ad affrontare le incognite e le lungaggini di un procedimento penale a proprio carico senza avere la forza economica per poterselo permettere, ma anche alle preoccupazioni del difensore, che spesso è chiamato a prestare la propria opera professionale nell’incertezza, rischiando di pagarne in prima persona i costi; da ultimo, seppur in misura diversa, si aggiunga anche il magistrato, al quale tocca il compito, non sempre facile, di “fissare il prezzo” del lavoro del professionista[3], che lo Stato dovrà poi corrispondere. Non è un caso che, nel corso degli anni, l’accumulo di tali tensioni abbia dato origine ad un numero cospicuo[4] di pronunce della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite in materia, a riprova della difficoltà di trovare un punto di equilibrio soddisfacente tra istanze contrapposte. Su impulso dell’Europa, il legislatore italiano è stato dunque chiamato a valutare globalmente la funzionalità della propria disciplina interna, a smussarne gli spigoli e a scioglierne i nodi, per realizzare concretamente quell’“effettività” del diritto di difesa[5] che costituisce l’anima e il fil rouge della direttiva in parola. A ciò si aggiunga altresì che l’esigenza di un ripensamento critico della disciplina è divenuta ancor più impellente, attesa la preoccupante espansione del fenomeno delle cosiddette “nuove povertà”, che interessa fette sempre più consistenti della popolazione[6]. L’espansione ipertrofica delle fattispecie penalmente rilevanti[7], unita all’avanzare della soglia dell’indigenza, mette quotidianamente a dura prova la [continua ..]
Com’è noto, la direttiva in parola s’inscrive nell’ambito di un articolato progetto volto a irrobustire le garanzie difensive di imputati e indagati nel procedimento penale, al fine di assicurare loro uno standard minimo e uniforme di tutela nel territorio degli Stati membri. Le linee di sviluppo di tale intervento sono state tracciate dalla c.d. Roadmap, altresì detta “tabella di marcia”, contenuta nella Risoluzione del Consiglio dell’Unione europea del 30 novembre 2009[8] ed in seguito trasfusa nel Programma di Stoccolma[9], intitolato a “un’Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini”. L’intuizione di fondo sottesa a tale iniziativa, significativamente denominata “salami tactic”[10], ha previsto la predisposizione di un ventaglio di misure da attuare secondo un approccio progressivo e costante, che ha permesso una graduale assimilazione delle stesse da parte degli ordinamenti degli Stati membri. Ad una prima fase, contraddistinta dall’emanazione di una nutrita serie di direttive, che hanno già trovato attuazione in Italia, ne è seguita una seconda[11] nel 2013, nella quale si colloca la Direttiva 2016/1919/UE. Per quanto interessa in questa sede, tale atto normativo ha sviluppato nel dettaglio la previsione contenuta nella seconda parte della misura C della Roadmap, relativa al diritto alla consulenza e all’assistenza legale gratuita per l’imputato, l’indagato e il ricercato nel procedimento penale. Secondo quanto prescritto dall’art. 1, par. 2, della direttiva in parola, le regole in materia di patrocinio debbono operare in stretta sinergia con quelle già contenute nella Direttiva 2013/48/UE[12], sul diritto di accesso ad un difensore nel processo penale, e nella Direttiva 2016/800/UE[13], in materia di minori indagati o imputati in procedimenti penali. Tale stretta interdipendenza rivela la valenza strumentale della direttiva sul legal aid, la quale ha la funzione di creare una sorta di “meta-diritto”[14], che permetta il pieno godimento delle facoltà sancite dalle altre direttive citate a prescindere dalle condizioni economiche di partenza. Solo neutralizzando l’incidenza che il fattore povertà spiega sull’accesso alle tutele si può ambire ad un sistema genuinamente efficiente: a tal proposito, appare [continua ..]
Con largo anticipo rispetto allo spirare del termine fissato per il recepimento[15], il legislatore italiano ha dato attuazione alla direttiva in parola con il d.lgs. 7 marzo 2019, n. 24[16], il quale si compone di quattro articoli di telegrafica brevità. D’altro canto, come si evince chiaramente dalla Relazione illustrativa[17] al provvedimento e dalla Tabella di concordanza[18], l’intervento non poteva che essere stringato e conciso, dal momento che «la normativa sul patrocinio legale gratuito attualmente in vigore già [contiene] tutte le prescrizioni di cui alla direttiva in esame», fatta eccezione per i procedimenti di esecuzione del mandato d’arresto europeo e per «l’espressa esclusione dei reati indicati all’art. 91, lett. a), t.u.» che «non si ritiene del tutto in linea con le previsioni di cui alla direttiva».Tale considerazione è sintomatica dell’approccio minimalista adottato dal legislatore, il quale si è limitato a ritoccare una disciplina già valutata soddisfacente e pressoché esaustiva nel suo complesso. Entrando nel merito della trasposizione, si osserva innanzitutto che l’art. 3 della Direttiva 2016/1919/UE ha circoscritto il perimetro dell’intervento ad un oggetto ben preciso, da individuarsi nell’attività di «finanziamento da parte di uno Stato membro dell’assistenza di un difensore che consenta l’esercizio del diritto di avvalersi di un difensore». Sul piano interno, tale definizione ben s’attaglia all’istituto del patrocinio a spese dello Stato in materia penale, che affonda le proprie radici nell’art. 24, comma 3, Cost.[19]. La disciplina di dettaglio è attualmente contenuta negli artt. 74-145, parte III, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115[20], recante il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”(d’ora in poi, per semplicità espositiva, “t.u.”). Tale corpus normativo raccoglie, con qualche innovazione, quanto già disposto dalla precedente l. 30 luglio 1990, n. 217[21], che per prima aveva regolato compiutamente la materia, ponendo fine all’inerzia del legislatore in ambito penale. Infatti, nonostante l’altissimo valore sociale, il comma 3 del citato art. 24 Cost. è stato per lungo tempo una disposizione negletta [continua ..]
Il d.lgs. n. 24 del 2019 si apre con una disposizione specificamente dedicata all’estensione del patrocinio a spese dello Stato ai procedimenti di esecuzione del mandato di arresto europeo (da qui in avanti, per semplicità espositiva, “m.a.e.”), istituto introdotto nell’ordinamento italiano dalla l. 12 aprile 2005, n. 69[27] in attuazione della Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002[28]. Tale inclusione, prescritta dall’art. 5 della direttiva in esame, rappresenta un punto focale nel progetto europeo di innalzamento degli standard di garanzia, atteso che tra i diversi ordinamenti degli Stati membri vi è una grande disomogeneità di disciplina[29], ulteriormente aggravata dal fatto che la giurisprudenza di Strasburgo non ritiene le procedure di estradizione e di m.a.e. tutelabili ex art. 6 Cedu[30]. L’art. 1 del menzionato decreto rappresenta, dunque, uno dei punti maggiormente qualificanti la novella, in quanto deputato a colmare la vistosa lacuna normativa di cui all’art. 75 t.u., che il legislatore, nell’intento di minimizzarne la portata, aveva più volte definito come una carenza meramente formale[31] e apparente. In particolare, la precedente formulazione di tale articolo non contemplava espressamente la figura del “ricercato non abbiente” nel novero dei possibili beneficiari del patrocinio: tale dimenticanza si traduceva in una potenziale causa di esclusione dal patrocinio ed era tale inficiare il meccanismo della cosiddetta “dual defence”[32]. Tale istituto, conosciuto anche come “dual representation”, consta nel diritto dei ricercati di potersi avvalere di una doppia tutela difensiva, tanto nello Stato membro di emissione del m.a.e., quanto in quello di esecuzione. Sul piano sovranazionale, essa è garantita dall’art. 10 della Direttiva 2013/48/UE, attuata nell’ordinamento italiano con il d.lgs.15 settembre 2016, n. 184. Purtroppo, il recepimento di tale direttiva non si era rivelato sufficiente a garantire una tutela piena ed effettiva ai ricercati. È innegabile, infatti, che la funzionalità concreta di detto sistema dipenda in gran parte dalla disponibilità economica del singolo interessato, il quale deve farsi carico delle spese derivanti dalla duplice assistenza legale, a cavallo tra i due ordinamenti coinvolti. La [continua ..]
Il secondo profilo ritenuto meritevole di un intervento specifico è stato individuato nell’art. 91 t.u., che disciplina i casi di esclusione in radice dalla possibilità di fruire del beneficio. In particolare, il comma 1, lett. a) della disposizione, nella sua formulazione precedente alla novella in esame, conteneva una preclusione di carattere assoluto, volta a impedire l’accesso al patrocinio a spese dello Stato all’indagato, all’imputato e al condannato per «reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto». Invero, tale divieto era già stato previsto dall’art. 1, comma 9, l. n. 217 del 1990, ma all’epoca esso era stato dettato in relazione al solo imputato: nel passaggio al t.u. del 2002 la regola è divenuta ancor più ferrea e restrittiva, estendendosi anche all’indagato e al condannato, nell’intento di fare terra bruciata attorno alla figura dell’evasore fiscale, anche se supposto tale, a prescindere dallo status[40] procedimentale da esso rivestito. La ratio sottesa a tale trattamento deteriore era fondata su un assunto non passibile di alcuna prova contraria, secondo cui i soggetti sopracitati avrebbero senz’altro potuto contare sulla disponibilità di risparmi occulti, derivanti dalla presunta evasione fiscale, tali da rendere la persona non meritevole di ricevere alcun supporto economico da parte dello Stato. Sul punto, quasi a voler stemperare tale rigore, la Corte di cassazione ha precisato che la scelta del legislatore di istituire tale divieto è stata in realtà dettata dalla «impossibilità di verifica delle condizioni economiche dell’imputato»[41], ravvisando la ragion d’essere della preclusione in un problema di carattere probatorio, anziché nella natura del reato contestato. Tale disciplina prestava indubbiamente il fianco a numerosi rilievi critici, essendo affetta da delicati problemi di consonanza rispetto ad alcuni fondamentali principi sanciti dalla Carta costituzionale, segnatamente quelli previsti dagli artt. 3, 24 e 27, comma 3, Cost. Innanzitutto, era del tutto palese la contrarietà dell’art. 91, comma 1, lett. a), t.u. al principio della presunzione di innocenza di cui all’art. 27, comma 3, Cost., laddove il [continua ..]
Il terzo intervento di modifica ha interessato l’art. 76, comma 4-bis, t.u., che era stato introdotto dall’art. 12-ter l. 24 luglio 2008, n. 125[53], al fine di rendere più incisiva la lotta alla criminalità organizzata mediante l’adozione del c.d. “pacchetto sicurezza”. Nello specifico, nella sua formulazione originaria, tale disposizione dettava una presunzione iuris et de iure in base alla quale, ai soli fini del t.u., il reddito valutabile ai fini dell’ammissione al beneficio si doveva ritenere superiore ai limiti fissati dallo stesso art. 76 t.u., per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i titoli di reato ivi tassativamente elencati[54], accomunati dal carattere marcatamente lucrativo[55] e dalla struttura di tipo associativo. La ratio insita in tale scelta legislativa andava dunque ravvisata nella precisa volontà di escludere dal beneficio i soggetti condannati per i reati in questione, considerata «l’estrema difficoltà di accertare in modo oggettivo il reddito proveniente dalle attività delittuose della criminalità organizzata, a causa delle maggiori possibilità, per i partecipi delle relative associazioni, di avvalersi di coperture soggettive e di strumenti di occultamento delle somme di denaro e dei beni accumulati»[56], nonché del sostegno economico sovente fornito agli affiliati da parte dell’associazione criminale di appartenenza[57]. La medesima logica di fondo ha indotto il legislatore della novella ad ampliare[58] il catalogo delle fattispecie interessate dall’esclusione dal beneficio, aggiungendovi anche i soggetti condannati per i reati commessi «in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto», ossia la stessa categoria di persone contemplata dall’art. 91, comma 1, lett. a), t.u., cui si è già fatto riferimento in precedenza. Tale intervento ha destato non poche perplessità, atteso che esso si colloca in un contesto già di per sé controverso[59]. In primo luogo, come già anticipato, la novella ha travalicato l’ambito di applicazione di cui all’art. 1 della direttiva che, lo si ribadisce, riguarda soltanto gli indagati, gli imputati e i ricercati, non i soggetti già giudicati in via definitiva. [continua ..]
L’articolo che chiude il decreto in esame è dedicato alle disposizioni finanziarie, aspetto di importanza tutt’altro che marginale ai fini di una piena attuazione delle garanzie previste dalla direttiva. La novella prevede che gli oneri derivanti dall’art. 2 del decreto, valutati in 2.400.000 euro annui a decorrere dall’anno 2019, debbano gravare sul Fondo per il recepimento della normativa europea previsto dall'art. 41-bis l. 24 dicembre 2012, n. 228[70] (c.d. “legge di stabilità per il 2013”) come richiamato dall'art. 1, comma 3, l. 25 ottobre 2017, n. 163[71]. Invece, per quanto concerne le residue disposizioni, riguardanti essenzialmente il m.a.e., si è stabilito che da esse non possano derivare «nuovi o maggiori oneri» a carico della finanza pubblica, e che le risorse umane, finanziarie e strumentali necessarie vadano attinte da quelle disponibili. Pertanto, a fronte di un ampliamento della platea dei possibili destinatari del beneficio, si è deciso di prevedere una copertura specifica soltanto in favore degli indagati e degli imputati per i reati fiscali e non per i ricercati attinti dal m.a.e. Il motivo di tale scelta è stato illustrato dalla Relazione tecnica[72] a corredo del decreto, secondo cui la disposizione sul m.a.e. «interviene solo per formalizzare un obbligo di adeguamento alla normativa europea, ma che di per sé è già correntemente applicata» e che la stessa «non è suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, fatta eccezione per quelli, in definitiva contenuti, indicati nella distinta Relazione tecnica di accompagnamento al presente provvedimento». In materia di competenza, si ricorda che l’onere di garantire adeguate coperture economiche per l’implementazione del servizio deve gravare interamente ed in via esclusiva sullo Stato, non potendo configurarsi in materia alcuna potestà concorrente delle Regioni[73]. Tale breve panoramica esaurisce le considerazioni sui risvolti economico-finanziari della novella, la quale nulla dispone in relazione ad altri profili. Balza all’occhio la mancata previsione di risorse ad hoc da dedicare alla formazione dei professionisti e del personale coinvolto nella procedura: nonostante la cronica carenza di mezzi, destinare anche una piccola parte di fondi a tale scopo non [continua ..]
Dopo aver cercato di dare conto delle modifiche apportate dalle singole disposizioni attuative, si possono trarre alcune conclusioni. Un rapido confronto con il testo della direttiva è sufficiente per constatare che tante suggestioni sono rimaste inascoltate e che il legislatore, nella sua attuazione frettolosa, ha glissato su profili che meritavano maggiore considerazione, forse spinto dalla sciatteria, forse per scelta consapevole e deliberata. L’effettività, da principio cardine cui improntare l’azione di adeguamento, in sede di trasposizione sembra essere stata annacquata dalla presenza concorrente di altri fattori, legati alle esigenze di bilancio, alla politica criminale e ad un certo disinteresse verso l’approfondimento delle questioni. Indubbiamente, il nodo problematico più consistente è rappresentato dal fattore “tempo”, che in più occasioni, seppur a diverso titolo, si è rivelato causa di attrito con l’Europa[74]. Nel complesso, il meccanismo del patrocinio a spese dello Stato presenta rilevanti aspetti di inefficienza, dovuti alle tempistiche dilatate e poco definite della procedura, che si pongono in netto contrasto con il dettato degli artt. 4, par. 5, e 6, par. 1, della direttiva. In particolar modo, i punti critici sono due: il tempo sprecato “a monte”, nell’attesa della valutazione della domanda di ammissione, e le lungaggini che si verificano “a valle”, causate dal cronico ritardo nella liquidazione degli onorari ai difensori. Per quanto concerne il primo punto, l’art. 4, par. 5, della direttiva richiede alle autorità competenti di assicurare che «il patrocinio a spese dello Stato sia concesso senza indebito ritardo e, al più tardi, prima che sia svolto l'interrogatorio dell'interessato da parte della polizia, di un'altra autorità di contrasto o di un'autorità giudiziaria, oppure prima che siano svolti gli atti investigativi o altri atti di raccolta delle prove di cui all'articolo 2, paragrafo 1, lettera c)». La verifica delle condizioni di accesso al beneficio, nonché l’eventuale ammissione, dovrebbero dunque collocarsi prima di tali incombenti, onde consentire all’interessato e al proprio difensore di affrontare con serenità gli accertamenti svolti dal p.m. e dalla polizia. Sul piano pratico, ciò non è sempre possibile, [continua ..]
Un altro ambito in cui si è riscontrata una scarsa attenzione all’effettività, richiesta espressamente dall’art. 8[78] della direttiva, è quello dei rimedi predisposti per i casi di infruttuoso esito della domanda, da individuarsi rispettivamente nelle ipotesi di rigetto dell’istanza di ammissione e di revoca del beneficio. Per quanto riguarda la prima fattispecie, disciplinata all’art. 99 t.u., la Tabella di concordanza ha ritenuto superfluo qualsiasi tipo di intervento, ritenendo sufficiente la previsione del «doppio vaglio giurisdizionale»: «uno pieno e di merito» da individuarsi nella possibilità di esperire ricorso dinanzi al Presidente del Tribunale o della Corte d’appello cui appartiene il magistrato che ha emesso il provvedimento; «l’altro di legittimità», ravvisabile nel ricorso alla Corte di cassazione per violazione di legge. Tuttavia, anche in tal caso il legislatore sembra essersi fermato alla superficie, ignorando del tutto le esigenze della prassi. Il termine di venti giorni, concesso sia per impugnare il rigetto dell’istanza, sia per ricorrere in cassazione avverso il provvedimento negativo emesso dal Presidente del Tribunale o della Corte d’Appello, risulta infatti troppo ristretto per consentire alla difesa di reperire tutti i documenti necessari per sostenere la propria pretesa. Inoltre, anche i motivi di ricorso per cassazione sembrano eccessivamente limitati, essendo auspicabile l’estensione[79] dell’impugnazione anche per le ipotesi di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. Al di là di tali profili, l’incongruenza più preoccupante si riscontra nel comma 3 dell’art. 99 t.u., secondo cui «il processo è quello speciale previsto per gli onorari di avvocato e l'ufficio giudiziario procede in composizione monocratica». Da ciò deriva che i procedimenti in questione rientrano a pieno titolo nell’area della volontaria giurisdizione e, dovendosi considerare autonomi rispetto al giudizio principale, sono soggetti al pagamento del contributo unificato[80]. A questo punto, il carattere paradossale di tale meccanismo è del tutto evidente, poiché esso richiede un esborso di denaro proprio al soggetto che agisce cercando di dimostrare il proprio status di “non abbiente”. Per [continua ..]
Lo stesso approccio epidermico è stato riservato all’art. 9 della direttiva, dedicato ai soggetti che, oltre alla condizione di debolezza economica, assommano in sé ulteriori caratteri di vulnerabilità. L’articolo in parola, così come il considerando n. 18, non precisa in maniera dettagliata quali siano gli aspetti di fragilità da tenere in considerazione, ma si limita a prescrivere che «nell'attuazione della presente direttiva si tenga conto delle particolari esigenze di indagati, imputati e persone ricercate vulnerabili». Sul punto, il legislatore italiano non ha sentito la necessità di introdurre alcuna norma ad hoc, limitandosi a richiamare cinque fattispecie[81] che risulterebbero già allineate alle prescrizioni eurounitarie. La prima disposizione citata dalla Tabella di concordanza è l’art. 76, comma 4-quater[82], t.u., introdotto dalla l. 7 aprile 2017, n. 47[83] e riguardante la figura del minore straniero non accompagnato. Tale disposizione, ai fini che qui interessano, non sembra invero aggiungere nulla alla disciplina già esistente[84], dato che essa si limita a ribadire il diritto del minore di essere informato circa la possibilità di “avvalersi, in base alla normativa vigente, del gratuito patrocinio a spese dello Stato in ogni stato e grado del procedimento”. L’estrema laconicità di tale rinvio solleva, invero, più problemi di quanti ne risolva, poiché non è ben chiaro come avvenga nella pratica il raccordo con l’art. 118 t.u. Infatti, il comma 2 di tale articolo prevede che, contestualmente alla comunicazione del decreto di pagamento, l’ufficio debba richiedere ai familiari del minore la presentazione, entro un mese di tempo, della documentazione di cui all’art. 79, comma 1, lett. c), consistente in una dichiarazione sostitutiva di certificazione «attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l'ammissione, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini, determinato secondo le modalità indicate nell'articolo 76», oltre ad una certificazione dell'autorità consolare competente che attesti la veridicità di quanto in essa indicato, in relazione ai redditi prodotti all'estero da cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea. È evidente che la regola [continua ..]
Partendo dal presupposto che «il nostro sistema interno del patrocinio a spese dello Stato può essere ritenuto efficace e di qualità adeguata»[94], il legislatore italiano ha affrontato in maniera sbrigativa anche l’art. 7 della direttiva, relativo alla qualità del servizio e alla formazione del personale. A giustificazione di tale approccio, è stata richiamata la disciplina degli artt. 80 e 81 t.u., nonché dell’art. 20 l. 29 marzo 2001, n. 134, istitutivo del “Servizio al pubblico in materia di patrocinio a spese dello Stato”[95]. L’art. 80 t.u., in effetti,può essere considerato una disposizione che si pone al di sopra degli standard minimi europei, dal momento che prevede espressamente la possibilità, per la persona ammessa al patrocinio, di poter scegliere il proprio difensore dall’apposito elenco, come accade per la persona abbiente. L’art. 81 t.u., invece, prescrive particolari requisiti per il difensore che intenda iscriversi in tale registro, tra i quali vi sono l’anzianità professionale, pari ad almeno due anni di iscrizione all’albo istituito presso le sezioni locali dell’Ordine degli avvocati, unita al possesso di attitudini ed esperienza professionale specifica e all’assenza di sanzioni disciplinari superiori all’avvertimento, irrogate nei cinque anni antecedenti alla domanda. Al di là di tali elementi, molto è demandato alla professionalità del singolo difensore, atteso che «l’effettività della difesa non può essere (...) ridotta ad una mera formale presenza di un tecnico del diritto che, per mancanza di significativi rapporti con le parti o per il ridotto tempo a disposizione, non sia in grado di padroneggiare adeguatamente il materiale di causa»[96]. Come già anticipato, nulla è stato previsto per migliorare la formazione del personale di cancelleria, nonché dei professionisti, chiamati ad assumere nel concreto la difesa dei soggetti non abbienti, salvo un breve richiamo ai sistemi di formazione decentrata di settore, cui viene delegato il compito di assicurare l’aggiornamento delle diverse figure professionali. Il discorso sulla qualità del servizio si intreccia necessariamente con la tematica della retribuzione del professionista, la quale non sempre appare adeguata rispetto al lavoro [continua ..]
Il tentativo di sintonizzare la disciplina interna con quella di derivazione eurounitaria lascia nel complesso insoddisfatti, atteso che il d.lgs. n. 24 del 2019 sembra essersi limitato a recepire a macchia di leopardo quanto di buono elaborato dalla giurisprudenza, senza distinguersi, se non per coraggio, almeno per diligenza. La novella, invero, si è focalizzata unicamente sulla regolazione dell’accesso al beneficio in favore, o a discapito, di determinate categorie di soggetti, appiattendosi sulla logica binaria dell’esclusione/inclusione. Tale approccio appare epidermico e privo di profondità e lungimiranza, dal momento che non è stato accompagnato da alcun ripensamento critico dei meccanismi. La complessità della disciplina e la delicatezza degli interessi coinvolti avrebbero richiesto una maggiore ponderazione, al fine di elaborare una procedura più snella ed efficiente, incrementando al contempo le garanzie predisposte per i soggetti più deboli. La sensazione che resta è di rammarico, per non aver saputo cogliere tutte le potenzialità e la carica innovativa insita nella Direttiva 1919/2016/UE.