Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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L´attività integrativa d´indagine tra diritto di difesa, separazione delle fasi e pseudoprincipi (di Alessandro Pasta, Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Bergamo)


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Le indagini integrative, non imposte da alcuna norma costituzionale, mal si conciliano con l’odierna struttura del processo penale, il quale, in linea con gli ormai tradizionali postulati dell’epistemologia contemporanea, è diviso in fasi. Non vi è dubbio, però, sulla loro legittimità, poiché sono state espressamente previste dal legislatore, il quale ha fornito una scarna disciplina che ha generato svariate questioni. Come spesso accade quando la normativa è laconica, l’interprete è portato a servirsi dei principi generali: quelli realmente esistenti, e quelli creduti tali. L’au­tore suggerisce una lettura.

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Post indictment investigations among right of defense, separation of the stages and pseudolaw

Post indictment investigations, not constitutionally mandatory, don’t fit easily in the structure of criminal trial which, coherently with the traditional postulates of contemporary epistemology, is divided in stages. There is no doubt about their legitimacy, as they have been contemplated by the legislator, who barely disciplined them, though, thus generating various issues. As it often happens when the rule is laconic, the interpreter turns to the general principles – the existent ones, and the ones believed to exist. The author suggests an interpretation.

SOMMARIO:

1. Finalità e oggetto delle indagini: indicazioni e silenzi - 2. L’architrave: la presunzione non colpevolezza - 3. Il trabocchetto: il cosiddetto principio di parità delle parti - 4. «Indagini» e «investigazioni» - 5. Il «luogo privilegiato di stabilizzazione dell’accusa» - 6. L’attività investigativa (non integrativa) del difensore - 7. L’attività integrativa del pubblico ministero: una disposizione laconica - 8. Le indagini integrative del pubblico ministero: le ragioni della ricerca dei confini - 9. Le indagini integrative del pubblico ministero: la novità del tema d’indagine come presupposto - 10. Pseudoprincipi e consuete (inconsapevoli) ansie - NOTE


1. Finalità e oggetto delle indagini: indicazioni e silenzi

Talvolta il codice di procedura penale indica espressamente l’oggetto sul quale deve vertere una determinata attività probatoria. L’art. 194 c.p.p., per esempio, dispone che il testimone deve essere esaminato «sui fatti che costituiscono oggetto di prova», ossia quelli che si riferiscono all’imputazione o alla determinazione della pena e, se vi è costituzione di parte civile, alla responsabilità civile. In altri casi, pur in assenza di una esplicita indicazione legislativa, è agevole determinare in via interpretativa i fatti oggetto dell’accertamento. Nel chiarire le «finalità delle indagini preliminari» l’art. 326 c.p.p. impone al pubblico ministero di svolgere le indagini necessarie «per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale». Sebbene non compia nella disposizione alcun riferimento all’oggetto delle indagini, non sono necessarie soverchie fatiche per giungere alla conclusione che esse debbano vertere su tutto quanto attiene alla possibile imputazione: l’azione penale è il mezzo che dà origine al processo penale, ossia lo strumento che è stato previsto per decidere se sono accaduti i fatti indicati nell’imputazione, se l’imputato deve essere punito e, eventualmente, con quali sanzioni. In questo caso, dunque, pur non essendo espressamente indicati i fatti oggetto dell’attività, è agevole risolvere la questione: «indagine», al pari di «processo» o «prova», è un termine relativo, ossia un termine che «non ha significato, o non ha un significato esatto, se non in riferimento a un altro termine» [1]. Nei libri e nei manuali esistono «indagini», «processi» e «prove», ma nella realtà un’indagine è sempre un’indagine su qualcosa (un fatto in quanto sussumibile in una disposizione incriminatrice), un processo è sempre un processo per qualcosa, e una prova è necessariamente una prova di qualcosa (un fatto in quanto rilevante per l’applicazione di una norma). Indagini «in generale», indagini che non abbiano un oggetto, non solo non esistono, ma non sono nemmeno concepibili [2]. Sono le disposizioni incriminatrici, combinante con quanto emerge dalla notizia di reato e alle ragionevoli generalizzazioni che da [continua ..]


2. L’architrave: la presunzione non colpevolezza

Ci si potrebbe chiedere se la presunzione di non colpevolezza sia una garanzia della quale beneficiano tutte le persone, o solo alcune di esse. Così posto l’interrogativo non sembrerebbe molto sensato: è ovvio che la garanzia costituzionale non opera – per parafrasare l’art. 3 della Costituzione – distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Intesa in un altro modo, però, la questione appare meno banale. Non sembra, infatti, sbagliato affermare che dall’art. 27, comma 2, Cost. non traggono un immediato beneficio tutti gli individui, ma solo quelli che in un certo momento sono stati accusati, ossia le persone a carico delle quali l’autorità pubblica ha acquisito uno o più elementi che giustificano la formulazione dell’ipotesi della colpevolezza. La disposizione costituzionale riguarda solo coloro i quali, per via del giudizio di un pubblico ministero, hanno abbandonato la categoria epistemologica dei presunti innocenti per passare a quella dei presunti non colpevoli [6]: gli indagati e gli imputati, secondo la terminologia del codice. La presunzione di non colpevolezza, così come il diritto di difesa, sono essenzialmente legati a un’accusa, all’ipotesi della colpevolezza. Se questa mancasse, il secondo comma dell’art. 27 Cost. sarebbe privo di senso [7]. Affermare che «logicamente, l’accusa viene prima della difesa» [8], equivale a calare il processo nella corretta dimensione epistemologica: nella realtà delle aule di giustizia l’esercizio del diritto di difesa presuppone l’acquisizione di almeno un elemento che giustifica la formulazione dell’ipotesi della colpevolezza. Se il secondo comma dell’art. 27 Cost. presuppone l’ipotesi della colpevolezza e un processo penale strutturato attorno a questa ipotesi, è inevitabile interrogarsi sull’identità del soggetto incaricato di verificare questa ipotesi. O meglio, incaricato di provare a convincere un giudice che l’ipotesi sia verificata. Trovare una risposta è tutt’altro che difficile: «fra le regole del gioco vi è quella, preminente ed essenziale, che la prova va offerta e prodotta da chi accusa» [9]; «l’onere della prova incombente sull’organo statuale persecutore si staglia in nitida [continua ..]


3. Il trabocchetto: il cosiddetto principio di parità delle parti

Mentre il secondo comma dell’art. 27 Cost. deve guidare legislatori e interpreti nella retta edificazione del processo penale, il cosiddetto principio di parità delle parti, sciaguratamente introdotto nel 1999 nell’art. 111 Cost., rischia di minarne le fondamenta [20]. Una lettura della normativa costituzionale mostra un quadro lineare e organico. Pubblico ministero e imputato non hanno nulla in comune: una parte, l’imputato, è titolare del diritto di difesa (art. 24, comma 2, Cost.), non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva (art. 27 comma 2 Cost.) e, in caso di condanna, subisce una limitazione alle proprie libertà. L’altra parte, il pubblico ministero, può limitare le libertà dell’imputato (artt. 13-15 Cost.), svolge una funzione pubblica, la qual cosa comporta il dovere di adempierla con disciplina ed onore (art. 54 Cost); appartiene alla magistratura, «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104 Cost.); è inamovibile e sottoposto al potere disciplinare del Consiglio superiore della magistratura; gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 107 Cost.) e dispone direttamente della polizia giudiziaria (art. 109 Cost.). Ha l’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.) e il compito di sovvertire la presunzione di non colpevolezza; per questa ragione gli sono riconosciuti poteri coercitivi (artt. 13-15 Cost.). È difficile immaginare posizioni e ruoli, funzioni e obiettivi, altrettanto diversi in uno stesso ambito. In questo quadro del tutto differenziato, disomogeneo, in cui la differenza, la disparità è la regola, all’imputato vengono riconosciuti dalla Costituzione una serie di diritti che possono apparire analoghi a quelli del pubblico ministero. Le due parti non hanno nulla in comune, ma nel corso del processo, in alcune occasioni, si servono di alcuni strumenti analoghi. E qui nasce l’idea che le due parti, per nulla simili o uguali, siano «pari», o meglio, debbano essere «pari». Nel linguaggio corrente, però, il termine «parità» ha un significato preciso, e la parola è del tutto inadatta a descrivere il rapporto che sussiste tra la posizione del pubblico ministero e quella dell’imputato. Anche nella Costituzione il termine non era usato a [continua ..]


4. «Indagini» e «investigazioni»

La logica della «parità delle parti», fortunatamente, non ha avuto una grande influenza sul legislatore che ha disciplinato le investigazioni difensive nel 2000 [29]. Sebbene agli atti probatori formati dal difensore si applichi il medesimo regime di utilizzabilità riservato a quelli formati dal pubblico ministero (in attuazione del diritto alla prova: art. 111, comma 2, Cost., declinazione del diritto di difesa: art. 24, comma 2, Cost.), emergono dalla disciplina legislativa le ontologiche differenze. 1) Tutti gli atti probatori del magistrato inquirente nascono nel segno della coercizione [30]. Sebbene l’esercizio di questo potere possa apparire più evidente quando si discorre dei mezzi di ricerca della prova disciplinati dal titolo III del libro III (ispezioni, personali e locali, perquisizioni, personali e locali, sequestri probatori) o del ruolo del pubblico ministero nell’attivare mezzi e misure lesive dei diritti costituzionalmente garantiti (intercettazioni, misure cautelari, personali e reali, fermi, pedinamenti ad opera della polizia giudiziaria etc.), non si dovrebbe mai dimenticare che non esiste attività dell’inquirente che non comporti l’uso, più o meno marcato, della coercizione. Anche gli atti d’indagine apparentemente più innocui comportano la limitazione delle libertà delle persone [31]. A nessuno piace non solo subire una perquisizione o un’ispezione, ma nemmeno recarsi nelle procure per rendere dichiarazioni a un pubblico ministero, magari dovendo rivelare, sotto la minaccia di una sanzione penale, fatti sui quali si vorrebbe tacere. Eppure la Repubblica, che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2 Cost.), tra i quali vi sono quello di rendere dichiarazioni a inquirenti e giudici, di rispondere secondo verità e di rivelare anche informazioni strettamente personali. Nonostante si parli di «solidarietà sociale» non si tratta di obblighi morali: la traduzione legislativa della norma costituzionale si è concretizzata in ben precisi precetti normativi, capaci di condizionare in modo assai incisivo la volontà delle persone, le quali, se [continua ..]


5. Il «luogo privilegiato di stabilizzazione dell’accusa»

Nell’odierno processo penale è stato previsto che tra queste due fasi un giudice debba effettuare un vaglio sulla fondatezza dell’accusa. O meglio, per come l’udienza preliminare è intesa oggi dall’ormai consolidato orientamento della Corte di cassazione, la funzione è diversa rispetto a quella prevista nell’impianto originario del codice: le novelle legislative che si sono susseguite negli ultimi decenni hanno infatti «mutato la struttura e le funzioni dell’udienza preliminare, nel senso di una sua progressiva marginalizzazione quale “momento processuale” orientato al mero controllo dell’azione penale promossa dal P.M. in vista dell’apertura della fase del giudizio, e, per contro, del suo avvicinamento ai segmenti di uno sviluppo procedimentale in cui, per la completezza del quadro probatorio di cui il giudice dispone, per il potenziamento dei poteri riconosciuti alle parti in materia di prova e per l’obiet­tivo arricchimento, qualitativo e quantitativo, dell’orizzonte prospettico del giudice rispetto all’epilogo decisionale, è stimolata la valutazione del “merito” circa la consistenza dell’accusa, in base ad una prognosi sulla possibilità di successo nella fase dibattimentale» [39]. La giurisprudenza, dunque, si è adeguata alla nuova configurazione che una pronuncia delle Sezioni unite, tanto nota quanto contestata, ha dato all’udienza preliminare, che sarebbe ora «il luogo privilegiato di stabilizzazione dell’ac­cusa» in cui si realizza «il progressivo consolidamento dell’imputazione» [40]. In effetti il convincimento del giudice dell’udienza preliminare può oggi fondarsi sui più svariati elementi, introdotti per iniziativa di chiunque abbia avuto un ruolo nel processo: non solo i tradizionali atti delle indagini preliminari, magari compiuti dopo la proroga ex art. 406 c.p.p., ma anche quelli formati o acquisiti dopo la richiesta di rinvio a giudizio (le c.d. indagini suppletive: art. 419, comma 3, c.p.p. [41]), le investigazioni difensive già confluite nel fascicolo delle indagini prima dell’esercizio dell’a­zione penale o quelle depositate in udienza preliminare; o, ancora, i verbali di incidente probatorio, le prove assunte dal giudice ex art. 422 c.p.p. o le «ulteriori indagini» [continua ..]


6. L’attività investigativa (non integrativa) del difensore

Solo dopo aver considerato il contesto in cui si colloca l’art. 430 c.p.p. è possibile tentare darne una lettura. Innanzitutto va identificata l’attività alla quale si riferisce, o meglio quella alla quale non si riferisce. Non riguarda – il punto è davvero pacifico – l’attività d’indagine della polizia giudiziaria [42], la quale non è menzionata nella disposizione. Non riguarda però nemmeno l’attività d’investigazione del difensore il quale, contrariamente alla precedente, nell’articolo è menzionato. Proprio la novella sulle investigazioni difensive [43], che aveva evitato innaturali torsioni nel segno della logica della parità delle parti, ha trasformato «l’attività integrativa di indagine del pubblico ministero» nell’«attività integrativa di indagine del pubblico ministero e del difensore». Che le eventuali indagini svolte dal pubblico ministero ex art. 430 c.p.p. possano essere considerate «integrative», è ben comprensibile: «successivamente all’emis­sione del decreto che dispone il giudizio» sono già state necessariamente svolte delle indagini. Che tale qualifica sia però attribuibile anche alle indagini – recte – alle investigazioni del difensore, lo è molto meno: sta, per così dire, dall’altro lato del secondo comma dell’art. 27 Cost. e non può certo darsi per scontato che siano già state svolte investigazioni. Anzi. Ma che l’articolo, nonostante la specifica menzione del difensore, non sia applicabile alla sua attività d’investigazione, risulta dalla disciplina positiva. Per un motivo ovvio: volendo attribuire al pubblico ministero la legittimazione a svolgere indagini in una fase successiva a quella in cui era stato doveroso attribuire tale potere in virtù dell’art. 112 Cost., una espressa previsione era necessaria. Non così invece per il difensore: nel momento in cui l’art. 327 bis c.p.p. gli ha riconosciuto il diritto di svolgere investigazioni senza alcun limite temporale «per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito», una previsione che lo legittimasse a svolgere investigazioni dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio «ai fini delle proprie richieste [continua ..]


7. L’attività integrativa del pubblico ministero: una disposizione laconica

Il primo comma dell’art. 430 c.p.p., norma che si pone in vistoso contrasto con il principio di separazione delle fasi [48], è chiarissimo nello stabilire cosa il pubblico ministero non possa fare: non può compiere atti «per i quali è prevista la partecipazione dell’imputato o del difensore di questo», ossia gli atti per i quali è stabilita la necessaria partecipazione del difensore (art. 364 comma 1 c.p.p.: interrogatorio, ispezioni, individuazione di persone, confronto cui deve partecipare l’indagato), e quelli ai quali il difensore ha diritto di assistere senza avviso in quanto atti a sorpresa [49], quali le perquisizioni e i sequestri [50]. All’inosservanza del divieto segue l’inutilizzabilità degli atti [51]. È altresì pacifico che, ai sensi del comma 2 dell’art. 430 c.p.p., le indagini eventualmente compiute debbano essere immediatamente depositate nella segreteria del pubblico ministero, con facoltà delle parti di prenderne visione ed estrarne copia. Per rendere conoscibile questa possibilità, l’art. 18, reg. esec. c.p.p. impone alla segreteria del magistrato di dare avviso senza ritardo ai difensori del deposito. La collocazione fisica di questi atti di indagine non è espressamente disciplinata da alcuna disposizione, ma è pacifica l’interpretazione che ritiene debbano essere conservati in un fascicolo diverso rispetto a quelli previsti dagli artt. 431 e 433 c.p.p., ossia nel c.d. terzo fascicolo [52]. L’art. 433, comma 3, c.p.p., prevede infatti che nell’eventualità in cui le parti si siano servite delle indagini integrative per la formulazione di richieste al giudice del dibattimento, e quest’ultimo le abbia accolte, gli atti debbano essere inseriti nel fascicolo del pubblico ministero, nel quale – evidentemente – già non erano. Nel periodo intercorrente tra il deposito e l’accoglimento della richiesta (o nell’eventualità di un rigetto del­l’istanza), deve dunque essere formato presso la segreteria del pubblico ministero un fascicolo in cui collocare le indagini integrative [53]. Un altro punto fermo della disciplina sembrerebbe quello relativo allo scopo che deve essere perseguito: è espressamente richiesto che le indagini siano finalizzate alla formulazione «delle proprie richieste al giudice [continua ..]


8. Le indagini integrative del pubblico ministero: le ragioni della ricerca dei confini

Talora trascurata nelle trattazioni sull’art. 430 c.p.p., incentrate sui temi della tipologia degli atti che possono essere compiuti, del regime di utilizzabilità e dei limiti cronologici, è la questione relativa all’oggetto delle indagini integrative, forse considerata banale. In effetti, sin dai primi commenti, è stato osservato che «trattandosi di un’attività che si svolge quando il quadro di riferimento, costituito dall’imputazione, è già stato definito e assunto nel decreto che dispone il giudizio, rappresenta un limite logico dell’attività stessa la sua pertinenza a tale quadro» [65]. Sembra dunque ragionevole concludere che «l’attività integrativa d’indagine, intervenendo dopo il decreto che dispone il giudizio, non può che muoversi all’interno del quadro d’accusa così come precisato con le richieste già effettuate dal p.m.» [66]. Posto però che ogni attività d’indagine, così come ogni ricerca, presuppone la formulazione di un’i­potesi da verificare, è lecito chiedersi quale ipotesi potrebbe giustificare l’attribuzione di nuovi poteri d’indagine al pubblico ministero dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio. Quale necessità si potrebbe soddisfare attribuendo all’inquirente il potere di indagare sugli stessi fatti sui quali ha già indagato, ottenendo un provvedimento giurisdizionale che non solo ha recepito quanto richiesto, ma ha anche implicitamente certificato la «non incompletezza» [67] delle indagini? Le indagini necessarie per «le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale», ossia sul fatto descritto nell’imputazione, sono le indagini preliminari e, visto il supplemento d’indagine concesso dal legislatore prima della pronuncia del giudice dell’udienza preliminare, le indagini implicitamente previste dall’art. 419, comma 3, c.p.p. Queste hanno come oggetto il fatto che verrà, o che è stato, cristallizzato nell’imputazione. Se si attribuisce alle indagini integrative l’identico oggetto si scardina l’intero sistema: non avrebbe senso prevedere dei rigidi tempi di indagine, prorogabili con una procedura formale, con la previsione di una sanzione per gli atti compiuti dopo la [continua ..]


9. Le indagini integrative del pubblico ministero: la novità del tema d’indagine come presupposto

Posto che, come detto, nel corso dell’attività integrativa non possono essere indagati gli stessi fatti suscettibili d’indagine già in precedenza, resta da vedere quali fatti possono invece essere oggetto delle indagini ex art. 430 c.p.p. Vale il contrario della risposta tradizionale (l’attività integrativa d’indagine, «non può che muoversi all’interno del quadro d’accusa così come precisato con le richieste già effettuate dal p.m.» [84]). Con la «stabilizzazione» dell’accusa il potere d’indagare su quei fatti cessa (l’articolata disciplina dei termini prevista dall’art. 407 c.p.p., del resto, non avrebbe senso). Entro quei confini stanno le indagini dell’inquirente antecedenti al decreto che dispone il giudizio. In seguito deve necessariamente essere individuato un elemento di novità del tema d’indagine [85]. Come si è visto, nel corso dell’istruzione dibattimentale non mancano occasioni per l’individuazione di temi che non avrebbero potuto essere indagati in precedenza dal magistrato. Si pensi al caso in cui un perito o un consulente tecnico affermi di avere una determinata qualifica, la cui reale esistenza risulta, per via delle contradditorie o singolari dichiarazioni dell’esperto, dubbia. Ai sensi dell’art. 430 c.p.p. ben potrebbe il pubblico ministero esercitare i poteri coercitivi che il legislatore gli riconosce per convocare persone in grado di dimostrare la falsità di quanto riferito in udienza, per poi, eventualmente, avanzare una richiesta ex art. 507 c.p.p. Analogo discorso può essere formulato in relazione a svariate disposizioni: oggetto delle indagini integrative potrebbero essere «i fatti e le circostanze imprevedibili» che giustificano la lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione (art. 512 c.p.p.). Oppure potrebbero essere svolte per acquisire «gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso» ai fini dell’applica­zione del quarto comma dell’art. 500 c.p.p., o per dimostrare che l’esame del testimone indiretto «risult[a] impossibile per morte, infermità o irreperibilità» (art. 195, [continua ..]


10. Pseudoprincipi e consuete (inconsapevoli) ansie

Fino ad ora non sono stati menzionati né il cosiddetto principio di completezza delle indagini, né quello «della continuità investigativa», tradizionalmente richiamati nelle interpretazioni dell’art. 430 c.p.p. La scelta è consapevole. Purtroppo si è spesso troppo generosi nell’attribuire la qualifica di «principio» a ciò che principio proprio non è, dimostrando d’aver dimenticato il monito lanciato più di sessant’anni fa da uno dei più ascoltati processual penalisti del Novecento. Osservava Giovanni Conso che «la ricerca dei principi generali propri di una determinata materia è compito squisitamente scientifico. Di qui la preoccupazione che, in modo magari inconscio, induce i giuristi – specie quando siano dominati dall’assillo di dimostrare che anche il diritto può costituire scienza – a rintracciare, in questo o in quel settore dell’ordinamento preso in esame, un grande numero di principi generali, persino a costo di includere fra essi principi di cui si riconosce, al tempo stesso, un’applicazione limitata alla maggioranza dei casi, senza neppure darsi la pena di precisare quali e quante siano le relative eccezioni. Un siffatto atteggiamento è, per lo meno, rischioso. Se c’è una ricerca che deve svolgersi al di fuori di qualunque preoccupazione, di qualunque assillo, prescindendo da ogni posizione aprioristica, questa è proprio la ricerca dei principi generali realmente operanti nel settore prescelto come oggetto dell’inda­gine» [88]. Il c.d. principio di completezza delle indagini viene fatto risalire a una delle più note sentenze della Corte costituzionale [89]. Nella (rimarchevole) motivazione si parlava effettivamente di «principio di completezza», espressione alla quale ne veniva immediatamente affiancata un’altra («almeno tendenziale, come si preciserà più innanzi»). La Corte affermava che «la completa individuazione dei mezzi di prova è, invero, necessaria, da un lato, per consentire al pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili (tra cui la richiesta di giudizio immediato, “saltando” l’udienza preliminare) e per indurre l’imputato ad accettare i riti alternativi: ciò che è essenziale ai fini della complessiva [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2022