Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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Astensione collettiva e procedimento con detenuti. La decisione della Consulta e le ricadute processuali (di Teresa Alesci)


La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione contenuta nell’art. 2-bis, l. n. 146/1990, nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni degli avvocati interferisca con la disciplina della libertà personale, permettendo all’imputato, sottoposto a custodia cautelare, di chiedere o meno, in forma e­spres­sa, di procedere malgrado l’astensione del suo difensore. L’analisi della decisione, invero, mostra diverse per­plessità e consente di riflettere sulle conseguenze processuali. Nonostante il clamore sollevato, la decisione lascia irrisolti diversi aspetti problematici, colmabili solo attraverso l’intervento legislativo.

Lawyers strike, prisoners and criminal proceeding. The decision and the processual impact

The Constitutional Court declares the illegitimacy of art. 2-bis, l. 146/1990, that it allows the self-regulation code of the lawyers strike to interfere with the discipline of personal freedom. The analysis of the decision, indeed, shows various perplexities and allows reflection on the consequences of the proceedings. the decision leaves many pro­blematic aspects unresolved, which can only be filled by legislative intervention.

 
SOMMARIO:

Il casus belli. L'astensione del difensore nei processi con imputati detenuti - Le questioni preliminari: dall'intervento dell'Ucpi alla rilevanza della vicenda processuale sul giudizio di legittimità - Il bilanciamento dei diritti nella prospettiva della gerarchia delle fonti - Le dubbie prospettive applicative in relazione alla decorrenza dei termini di custodia cautelare - La natura del rinvio alla disciplina contenuta nell'art. 420-ter c.p.p. - NOTE


Il casus belli. L'astensione del difensore nei processi con imputati detenuti

Con due ordinanze di contenuto sostanzialmente analogo, emesse nell’ambito del medesimo procedimento penale [1], il Tribunale di Reggio Emilia sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis, l. 13 giugno 1990, n. 146, nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati [2] stabilisca all’art. 4, comma 1, lett. b), che «nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, analogamente a quanto previsto dall’art. 420 ter comma 5 c.p.p.», si proceda malgrado l’astensione del difensore solo ove l’imputato lo consenta. Secondo il rimettente la disposizione citata viola diversi parametri costituzionali, dalla libertà personale, derivante dalla sospensione dei termini di custodia cautelare, che non potrebbe essere condizionata dalla prestazione del consenso dell’imputato, al diritto di difesa, laddove la scelta dell’imputato in vinculis di celebrare l’udienza limiterebbe il diritto all’astensione dalle udienze del difensore. È possibile, invero, delineare anche ulteriori tre profili di censura: dal canone della ragionevole durata del processo, che esprime una regola di maggior rigore nel caso di imputato detenuto, alla ragionevolezza intrinseca della disciplina censurata ed alla sua coerenza con il principio di uguaglianza. Con la sentenza in esame, dunque, riaffiora la complessità del tema della astensione collettiva del difensore, nonostante i ripetuti interventi della Corte costituzionale [3] prima, e delle Sezioni Unite [4] poi, che sembravano aver assicurato un equilibrio esegetico. La problematicità dell’argomento investe diversi profili, dall’individuazione della natura giuridica [5] del diritto di sciopero e del suo spazio applicativo alla valenza da attribuire alle disposizioni del codice di autoregolamentazione intervenute a disciplinarla, nonché al rapporto tra quest’ultime e le norme codicistiche [6]. Se con la sentenza Ucciero del 2013 [7], le Sezioni Unite avevano attribuito alle disposizioni del codice di autoregolamentazione la natura di “normativa secondaria alla quale occorre conformarsi”, essendo destinate a realizzare il contemperamento con i diritti della persona [continua ..]


Le questioni preliminari: dall'intervento dell'Ucpi alla rilevanza della vicenda processuale sul giudizio di legittimità

In via preliminare, appare opportuno sottolineare il riconoscimento dell’intervento dell’Unione delle Camere penali nel giudizio innanzi alla Corte costituzionale, nonostante l’associazione non fosse parte in alcuno dei giudizi a quibus. Il diritto di partecipazione è stato riconosciuto in forza di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio. L’apertura per l’inter­vento di terzi rispetto alle parti tradizionalmente ammesse al procedimento di legittimità costituzionale non può, invero, essere circoscritta solo al caso di specie, sebbene la Corte si avvalga della tecnica del distinguishing per limitare la portata della decisione [12]. La motivazione che giustifica l’intervento, seppur ermetica, svela prospettive di più ampio respiro. Ciò che caratterizza l’UCPI, in tal caso, rispetto a qualunque altro ente esponenziale rappresentativo della categoria dei destinatari della norma in oggetto, è che l’associazione risulta coautrice delle norme del codice di autoregolamentazione, cui rinvia la disposizione censurata. Il ruolo “paralegislativo” affidato all’organismo di categoria, dunque, giustifica il suo coinvolgimento, in quanto, quale ente esponenziale, subirebbe “direttamente e irrimediabilmente” gli effetti della sentenza. In secondo luogo, la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile la questione, nonostante il Tribunale avesse sospeso i termini in relazione non all’intero procedimento, ma alle sole udienze in cui i difensori avevano aderito all’astensione collettiva, proclamata dall’associazione di categoria secondo le modalità indicate dalla normativa primaria. La difesa delle parti private costituite, infatti, aveva eccepito l’inammissibilità delle questioni di costituzionalità, poiché il tribunale ordinario, nel giudizio a quo, non avrebbe sospeso l’intero procedimento, ma soltanto l’attività processuale che era prevista nelle udienze alle quali si riferiva la dichiarazione dei difensori di adesione all’astensione collettiva. La prima ordinanza di rimessione della questione alla Corte costituzionale, infatti, aveva sospeso l’attività processuale del 23 maggio e non anche le altre udienze già calendarizzate. La questione, nelle more del giudizio di [continua ..]


Il bilanciamento dei diritti nella prospettiva della gerarchia delle fonti

La Corte costituzionale fonda il ragionamento sulla sentenza n. 171 del 1996 [18]. In quella occasione, la Corte dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 5, l. n. 146/1990, nella parte in cui non prevedeva, nel caso dell’astensione collettiva dell’attività defensionale degli avvocati e dei procuratori legali, l’obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dello sciopero e gli stru­menti idonei ad individuare e assicurare le prestazioni essenziali durante l’astensione stessa, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell’ipotesi di inosservanza. La Corte stabilì, dunque, che l’eser­cizio del diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva deve comunque essere soggetto ad un bilanciamento con altri valori costituzionali meritevoli di tutela, valori che, ove si tratti di processi penali con imputati in stato di detenzione, devono considerarsi prevalenti. In linea con la pronuncia della Corte costituzionale, il legislatore, con la l. 11 aprile 2000, n. 83, inserì nella l. n. 146/1990 il censurato art. 2-bis, non prevedendo una disciplina di rango primario delle fattispecie che richiedono l’effettuazione di prestazioni indispensabili, ma coinvolgendo le associazioni di categoria mediante il richiamo al codice di autoregolamentazione in un’ottica di assetto partecipativo degli stru­menti di composizione del conflitto, insito nella proclamazione dell’astensione collettiva di categoria. Per effetto del rinvio operato dalla norma censurata al codice di autoregolamentazione, nel caso di adesione del difensore all’astensione collettiva delle prestazioni, l’art. 4, comma 1, lett. b), concernente i procedimenti e i processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, condiziona la libertà di adesione del difensore alla prestazione del consenso implicito ovvero esplicito del­l’imputato. Su tale previsione si annida il vizio di legittimità costituzionale poiché la Corte, con la pronuncia in esame, condivide le censure del giudice rimettente, relativamente alla violazione dell’art. 13, comma 5 Cost., «nella parte in cui prevede una riserva assoluta di legge nella definizione dei limiti massimi della carcerazione preventiva, oggi custodia cautelare». La Corte osserva che «la [continua ..]


Le dubbie prospettive applicative in relazione alla decorrenza dei termini di custodia cautelare

Le ricadute processuali derivanti dalla dichiarazione di illegittimità lasciano perplessi. La decisione risulta foriera di criticità, soprattutto laddove è possibile dimostrare che l’originario obiettivo della Corte, ovvero escludere la condizionabilità della decorrenza del termine di custodia cautelare ad una scelta dell’imputato, risulta di fatto tradito. La Corte, in riferimento alla questione di legittimità costituzionale, si è limitata, dunque, a dichiarare l’il­legittimità dell’art. 2-bis, l. n. 140/1990, nella parte in cui attribuisce alla fonte regolamentare la disciplina della astensione nei procedimenti a carico di imputati detenuti [20]. La pronuncia travolge la normativa regolamentare, con la conseguenza che il consenso non risulta più rilevante per l’adesione del difensore all’a­stensione [21]. Tuttavia, quanto ai profili processuali nulla è cambiato, se si esclude l’effetto paradosso. Il nuovo assetto normativo, dunque, non prevede più distinzioni tra processi con imputati detenuti e processi con imputati in libertà; di conseguenza, alla luce della giurisprudenza formatasi negli anni in tema di astensione collettiva, il giudice avrà soltanto la discrezionalità di verificare «se il rinvio dell’u­dienza sia ascrivibile al legittimo esercizio del diritto del difensore di aderire all’a­sten­sione collettiva». La mancata possibilità per l’imputato detenuto di non prestare il consenso al­l’adesione del proprio difensore comporta, dunque, che lo stesso non può più limitare la scelta dell’av­vo­cato, sebbene il rinvio per astensione condizioni necessariamente lo status libertatis dell’imputato, che subisce la sospensione del termine di decorrenza dei termini di fase e dei termini finali. La giurisprudenza, infatti, risulta costante nell’escludere la riconducibilità della astensione del difensore alla categoria del legittimo impedimento di cui all’art. 420-ter c.p.p., con conseguente applicazione dell’art. 304, comma 1, lett. b) [22]. Con la dichiarazione di astensione del difensore, dunque, il giudice rinvia il processo sospendendo il dibattimento; in tal caso, ai sensi dell’art. 304, comma 1, lett. b), i termini di fase di cui all’art. 303 [continua ..]


La natura del rinvio alla disciplina contenuta nell'art. 420-ter c.p.p.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale, dunque, travolge l’art. 4 comma 1, lett. b) del Codice di autoregolamentazione, secondo cui «nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, ove l’imputato chieda espressamente, analogamente a quanto previsto dall’art. 420‐ter, comma 5 (introdotto dalla legge n. 479/1999) del codice di procedura penale, che si proceda malgrado l’astensione del difensore. In tal caso il difensore di fiducia o d’ufficio, non può legittimamente astenersi ed ha l’obbligo di assicurare la propria prestazione professionale». Il rinvio alla disciplina codicistica in materia di impedimento del difensore, tuttavia, non può condurre a conclusioni errate. La linea di demarcazione tra le due figure si consolida potendo cogliersi sotto diversi aspetti [26]. L’astensione dalle udienze è un diritto, espressione della libertà di associazione di cui all’art. 18 Cost.; il legittimo impedimento consiste in una situazione di fatto di assoluta impossibilità di comparire. Entrambe le situazioni si caratterizzano per essere dirette al rinvio dell’udienza o dell’at­ti­vità da compiere, ma la ratio resta ben distinta. Nel primo caso, è decisiva la garanzia di effettività del libero esercizio del diritto di astensione (la mancata previsione del rinvio impedirebbe al difensore di astenersi, per non nuocere alla difesa); nel secondo caso, invece, rileva il diritto di difesa sotto il profilo della partecipazione del difensore [27]. La disposizione dichiarata illegittima, invero, rinviava alla norma relativa al legittimo impedimento del difensore esclusivamente nella parte in cui quest’ultima attribuisce rilevanza alla volontà dell’impu­tato, il quale può togliere effetto alla scelta del difensore, che, di conseguenza, ha l’obbligo di assicurare la propria prestazione professionale. La scelta dell’imputato prevale su quella del difensore, in attuazione del principio generale sancito dall’art. 99, comma 2 c.p.p.; del resto, dubitare della libertà di autodeterminazione dell’imputato nella scelta equivale, come denunciato dagli organi rappresentativi del­l’Unione delle Camere penali, a sospettare il difensore di patrocinio [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2019