Il contributo analizza il perimetro del controllo sulla motivazione effettuato dalla Corte di cassazione, affrontando i ricorrenti interrogativi sul ruolo della Corte di legittimità rispetto alla valutazione del fatto. Si sostiene che la Corte, sia pure entro determinati limiti, è inevitabilmente anche giudice del fatto, soprattutto quando la medesima è chiamata a verificare il rispetto della regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Il testo riproduce la relazione tenuta al convegno su “Il codice di procedura penale trent’anni dopo (24 ottobre 1989– 24 ottobre 2019)”, Perugia, 24 ottobre 2019.
Motivation check: isn’t the Court really a 'judge of the fact'? The contribution analyses the perimeter of the control over the reasonig carried out by the Court of Cassation addressing the recurring questions about the role of the Court of Legitimacy in relation to the assessment of the fact. The Court, even within certain limits, is inevitably also a judge of the fact, especially when it is called to verify compliance with the rule of judgment of the beyond reasonable doubt.
Premessa
L’interrogativo evocato dal titolo della mia relazione è assai suggestivo. E mi permette di affrontare un tema intorno al quale si addensano numerosi luoghi comuni. Alla convinzione, apparentemente diffusa, secondo la quale la Cassazione non è giudice del fatto, fanno da contro altare le numerose, e quasi sempre imprevedibili, decisioni della Corte caratterizzate da una significativa incursione nella ricostruzione storica. Insomma, il giudice di legittimità fa, in questo ambito, un po’ quel che vuole, scegliendo in modo non sempre intellegibile. La peculiarità ha una sua giustificazione in almeno tre fenomeni: da un lato, le norme sul controllo della motivazione si prestano a diverse interpretazioni; dall’altro, la giurisprudenza ha una “spiccata” vocazione alla creatività; infine, è evidente che l’idea di giustizia e la tensione ad un epilogo “giusto” condiziona inevitabilmente la decisione.
D’altronde, per restare al tema, distinguere nettamente fatto e diritto, legittimità e merito, è davvero difficile e forse inutile, vista la naturale coesistenza di aspetti che coinvolgono la ricostruzione storica della vicenda e l’applicazione corretta delle norme giuridiche, utilizzate per dare ad essa la migliore soluzione possibile.
Ed anche se il sistema delle impugnazioni – letto alla luce del principio del controllo [1] – riconosce al suo interno la distinzione tra appello, tipico controllo di merito, e ricorso per cassazione, caratterizzato da una (prevalente?) verifica di legittimità, ritenere che la Corte non abbia a che fare col fatto è un errore incomprensibile.
Una prima e sommaria dimostrazione – ma sul punto bisognerà ritornare – si ricava agevolmente prendendo spunto dalla fondamentale regola giuridica dell’oltre ogni ragionevole dubbio, e dal dovere del giudice di legittimità di confrontarsi, in ogni ricorso fondato specificamente su vizi che la coinvolgono, con il suo rispetto e con la inscindibile connessione tra merito e legittimità, fatto e diritto, che la caratterizza.
La ragion d’essere del giudizio di legittimità
L’idea di un giudice collegiale posto all’apice del sistema giudiziario, con una vocazione proiettata alla verifica della corretta ed uniforme interpretazione della legge, pur avendo, soprattutto nelle forme e nell’approccio procedurale, una tipicità indiscutibile, è riconducibile ad una matrice storica e culturale di derivazione francese, ove dall’iniziale esperienza del Tribunal de Cassation, istituito dall’assemblea costituente nel 1790 con funzioni paralegislative, si passò alla istituzione della Cour de Cassation, stabilmente inserita nell’ordinamento e con una funzione peculiare [2].
Nel sistema processuale penale, [continua..]
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