Il Giudice delle leggi consegna al Parlamento precise direttive per dare concretezza alla ragionevole durata del processo. La posta in gioco è il diritto alla rinnovazione della prova in caso di mutamento del giudice che viene drasticamente ridimensionato per impedire che di esso se ne faccia un uso meramente dilatorio. L’Autrice critica la decisione in oggetto, paventando una pericolosa deriva: la rinnovazione della sola prova “utile”.
Change of the judge and renewal of the evidence: the Constitutional Court comes out from the boundaries of the accusatory system
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La questione - Confini accusatori a rischio - L’art. 111 Cost. e i diversi interessi in gioco - Il peso della ragionevole durata nel gioco del bilanciamento - Lo sconfinamento della Corte costituzionale dai presidi accusatori - Una pericolosa deriva: verso la rinnovazione della sola “prova utile” - NOTE
Con ordinanza del 12 marzo 2018 il Tribunale di Siracusa, sezione unica penale, sollevava le questioni di legittimità costituzionale riguardanti gli artt. 511, 525, comma 2, e 526, comma 1, c.p.p. sospettati di incostituzionalità in relazione all’art. 111 Cost. se interpretati nel senso che a ogni mutamento della persona fisica di un giudice la prova possa ritenersi legittimamente assunta solo se i testimoni, già sentiti nel dibattimento, depongano nuovamente in aula davanti al giudice-persona fisica che deve deliberare sulle medesime circostanze, prospettando come alternativa l’ipotesi che invece ciò debba avvenire solo allorquando non siano violati i principi costituzionali della effettività e della ragionevole durata del processo, quest’ultima, a dire del giudice rimettente, rapportabile al limite di tre anni previsto dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, oltre il quale cesserebbe l’obbligo della rinnovazione della prova dichiarativa con conseguente legittimazione a utilizzare le dichiarazioni già rese dinnanzi al precedente giudice, anche in caso di diversità tra il giudice che ha partecipato al dibattimento e quello che deve decidere. In sostanza, per il giudice rimettente l’imposizione, a ogni mutamento della composizione del collegio giudicante, dell’obbligo di rinnovare l’escussione dei testimoni, fatto salvo il caso in cui le parti processuali prestino il consenso alla lettura delle deposizioni precedentemente rese in dibattimento, sarebbe suscettibile di dilatare in maniera abnorme i tempi del processo, in contrasto con il canone di ragionevole durata, di cui all’art. 111, comma 2, Cost. Inoltre la disciplina censurata violerebbe il principio costituzionale dell’effettività del processo, ex art. 111, comma 1, Cost., poiché la (potenzialmente infinita) reiterazione dell’assunzione della prova dichiarativa impedirebbe di concludere utilmente il processo, così frustrando la piena ed effettiva attuazione della giurisdizione. Va precisato che la questione veniva prospettata nell’ambito di un procedimento penale nel corso del quale per ben sei volte era mutata la composizione del collegio e la difesa per altrettante volte aveva richiesto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale non acconsentendo alla lettura e all’utilizzo dei verbali di prova formatisi dinnanzi al precedente collegio [continua ..]
Se si avverte la necessità di dovere difendere i confini accusatori del nostro sistema significa che v’è il concreto pericolo che se ne possano confondere le tracce, finendo, quelle linee, non solo programmatiche, ben definite dal nostro Costituente, col subire rivisitazioni, o peggio, trasfigurazioni nell’intento di perseguire interessi altri rispetto agli scopi del processo così come originariamente concepiti dal legislatore del 1988. Gli scenari che potrebbero prospettarsi impongono una reazione da parte della dottrina: adoperarsi in favore di una loro difesa rientra nell’impegno che ogni studioso dovrebbe assumersi soprattutto quando aleggia il rischio che possa riaprirsi una nuova stagione di “letture correttive” da parte del Giudice delle leggi non dissimili da quelle che negli anni ’90 hanno operato una orchestrata distorsione in senso inquisitorio del garantismo a cui il codice Vassalli si è ispirato e rispetto al quale ci si ritrova ancora oggi a difenderne gli accenti accusatori, scolpiti in modo più netto, nel riscritto art. 111 Cost. Ed è proprio da tale norma che occorre muovere per comprendere appieno le antinomie in cui sono incorsi i giudici costituzionali allorquando, proprio nell’affrontare questioni interpretative che coinvolgono le linee portanti del giusto processo, suggeriscono opzioni che finiscono con lo svuotare il significato più autentico dei principi che ne stanno alla base, contaminando in senso repressivo gli ambiti della tutela dei diritti fondamentali processuali. L’art. 111 Cost, come si sa, si articola in più commi, ove sono affermati principi e regole da cui possono discendere esigenze di bilanciamenti reciproci. Tuttavia, convenendo con chi ritiene debba distinguersi tra gli effetti che derivano da una proposizione normativa contenente un principio e quelli che discendono da una proposizione normativa contenente una regola, appare opportuna una breve analisi dell’art. 111 Cost., onde estrapolare ciò che è regola e ciò che è principio, tenendo ben presente che mentre la prima è soggetta a deroghe, il secondo è suscettibile di bilanciamento con altri interessi parimenti tutelati dalla Carta fondamentale [7]. Che l’art. 111 Cost. sia da considerare norma baluardo del giusto processo accusatorio non v’è da dubitare. Al suo interno si dà [continua ..]
È noto che al suo interno l’art. 111 Cost. ingloba sia «enunciati che focalizzano ex professo principi già da tempo ritenuti implicitamente presenti nella Carta fondamentale», sia «canoni introduttivi di sostanziali novità rispetto al precedente regime» [13]. È noto altresì che le garanzie processuali ivi contenute sono vicendevolmente legate da precisi nessi funzionali. È nesso inscindibile ad esempio quello, sancito al primo comma, che lega la giurisdizione al giusto processo prevedendosi che ogni procedura volta ad attuare la giurisdizione deve possedere i caratteri del giusto processo regolato dalla legge. Ne deriva che il giusto processo della formula di esordio costituisce «il collante tra le analitiche garanzie poste dall’ulteriore tessuto della norma, offrendo, perciò, al legislatore ma anche all’interprete, la direttrice di metodo circa il “dover essere” del processo che trascende la mera, compilativa sommatoria degli addendi – principi e regole – di seguito consacrati» [14]. Del resto, costituzionalizzare l’idea del giusto processo ha voluto dire che un processo è tale non solo se è regolare, legale o legittimo, ma anche quando è conforme ai principi etici e politici dell’ordinamento che lo esprime, quando rispetta i parametri fissati dalle norme costituzionali e dai valori condivisi dalla collettività, e, in particolare, quando corrisponde al modello processuale scelto, caratterizzato da certe garanzie. I principi che devono governare lo svolgimento di ogni processo giusto sono enunciati al secondo comma: imparzialità-terzietà del giudice, contraddittorio inteso come proiezione del diritto di difesa, parità delle parti e, infine, posta separatamente, la ragionevole durata la cui attuazione è rimessa al legislatore, sempre che siano salvaguardate le garanzie dell’imputato e la qualità dell’accertamento. Al terzo comma sono elencate specifiche forme di estrinsecazione del diritto di difesa che ogni processo penale per essere giusto deve riconoscere alla persona accusata, senza costituire tuttavia un catalogo chiuso. In una diversa prospettiva si pongono quarto e quinto comma, dove si consacra la regola del contraddittorio per la formazione della prova prevedendosi tre tassative deroghe al metodo dialogico [continua ..]
Nell’architettura dell’art. 111 Cost. il canone della ragionevole durata, enunciato al comma 2 tra le garanzie oggettive [28], oltre a rappresentare un diritto della persona coinvolta nel processo, risponde a esigenze di tutela dell’interesse pubblico della celerità processuale. Esso appartiene al novero dei principi suscettibili di bilanciamento con altri interessi confliggenti. Si diceva che l’insieme dei principi sanciti nell’art. 111 Cost. sottende la scelta di un modello processuale ben preciso, quello a vocazione accusatoria caratterizzato da primarie garanzie processuali [29]. Ne consegue che qualsiasi opera di bilanciamento non può in ogni caso compromettere il nucleo essenziale di garanzie correlato ai valori della terzietà e imparzialità del giudice, del contraddittorio e della parità delle armi, rispetto ai quali la ragionevole durata può al più frenarne l’espansione, ma mai comprimerne l’attuazione [30]. Le estrinsecazioni del diritto di difesa, proprio perché tanto l’art. 24 Cost. quanto l’art. 111 Cost. non costituiscono un catalogo chiuso, potrebbero, infatti, moltiplicarsi al punto da paralizzare la giustizia. Questa la ragione per la quale all’interno del quadro di garanzie processuali che qualificano come giusto il processo «occorre ponderare attentamente le ripercussioni che il surplus di garanzie comporta sui tempi processuali» [31]. Ciò nondimeno il profilo dei tempi processuali potrà rilevare solo quando quegli interessi essenziali per l’attuazione del giusto processo, tra cui il contraddittorio, il diritto di difesa, la neutralità del giudice, siano stati adeguatamente protetti. In altri termini, si può parlare effettivamente di ragionevole durata solo se si è data effettività a tutti i principi del giusto processo. Ne deriva che il valore espresso nel principio de quo è sì suscettibile di bilanciamento con i diritti fondamentali, ma – come efficacemente affermato – in secondo grado [32], in via sussidiaria [33], con funzione, quindi, non limitatrice bensì contenitrice, essendo impensabile scalfire il diritto inviolabile di difesa in nome dell’efficienza o di altri valori. Altro discorso è invece quello che ha a che fare con forme di abuso delle garanzie difensive [continua ..]
Come si diceva, la decisione in esame si connota per poco rigore argomentativo. Se, in principio, si dà risalto alla pregnanza del valore e della funzione dei principi di oralità e immediatezza, tant’è che se ne sottolinea la duplice vocazione epistemica: da un lato, consentire al giudice deliberante la diretta percezione della prova nel momento della sua formazione, onde poterne cogliere tutti i connotati espressivi, inclusi quelli di carattere non verbale, prodotti dal metodo dialettico dell’esame incrociato e utili nel giudizio di attendibilità del risultato probatorio, e, dall’altro, assicurare al giudice che decide non un ruolo di passivo fruitore di prove dichiarative già da altri acquisite, bensì un ruolo attivo che gli consenta, ai sensi dell’art. 506 c.p.p., di intervenire nella formazione della prova stessa, ponendo direttamente domande ai dichiaranti e persino indicando alle parti nuovi o più ampi temi di prova a completamento dell’esame; in seconda battuta, tuttavia, la Corte afferma come l’effettività dei suddetti principi possa realizzarsi soltanto in un modello ideale di dibattimento, molto distante da quello reale, fortemente concentrato nel tempo, da celebrarsi, quindi, o in un’unica udienza o, al più, in udienze svolte senza soluzione di continuità. La riflessione, assai stringata, muove dalla constatazione che l’esperienza maturata in trent’anni di vita del codice di rito rifletterebbe un assetto in cui i suddetti canoni, e, in particolare, il principio di immediatezza, rischiano di divenire un mero simulacro. A quel punto avrebbe dovuto seguire un ragionamento inteso a cercare rimedi interni per ritrovare quell’effettività della dialettica dibattimentale che negli anni si è persa. Invece, la Corte, muovendo dalla inesorabile inefficienza del sistema, prospetta, quale unica soluzione, l’abdicazione del modello accusatorio in favore di un sistema ove l’oralità-immediatezza è declassata a eccezione in forza di nuove deroghe alla rinnovazione delle prove in caso di mutamento del giudice, aventi portata generale, volte a scongiurare presunti o effettivi abusi delle garanzie difensive da parte dell’imputato e a restituire efficienza al sistema sopprimendo un’attività probatoria ritenuta di fatto inidonea allo scopo. Ecco i passaggi salienti della [continua ..]
Il trend non è nuovo. Già si discuteva qualche anno fa [46] della possibilità di esercitare le prerogative processuali di cui ciascuno è titolare secondo il parametro dell’utilità concreta e non già astratta, secondo, quindi, una lettura nuova del processo che impone di compiere solo atti e attività “utili”. L’obiettivo richiedeva l’elaborazione di nuove regole, non più fisse e rigide, ma dotate di maggiore elasticità e flessibilità. Si proponeva, pertanto, di modificare l’art. 190-bis c.p.p., in modo che il diritto alla riassunzione delle prove dichiarative in caso di mutamento del giudice nel corso dell’istruttoria dibattimentale fosse ammissibile secondo parametri normativi di necessarietà. Non più una regola rigida, ma una regola più duttile, che obbligava comunque il giudice ad ammettere la prova di fronte all’effettività dell’esigenza allegata (esigenze difensive o di accertamento). Non un giudizio di ammissibilità arbitrario, bensì guidato da criteri legali, già codificati nei più diversi contesti processuali. In tal guisa ragionevole durata del processo e principio di identità del giudice trovavano un nuovo assetto: la ragionevole durata avrebbe ceduto il posto all’immediatezza, se la prova fosse stata utile e l’immediatezza avrebbe lasciato il passo alla ragionevole durata, se la prova fosse stata inutile [47]. V’è da chiedersi, a questo punto, se possa davvero considerarsi sempre inutile la riassunzione della prova davanti al giudice subentrato che non sia giustificata da esigenze di accertamento indirizzato su nuovi temi di indagine. La risposta non può che essere negativa: la finalità cognitiva dello strumento è quella di mettere in contatto la fonte di prova con il nuovo giudice affinché questi possa esercitare il suo libero convincimento in modo spontaneo e genuino, esercitando, se del caso, i poteri ex officio di cui agli artt. 506 e 507 c.p.p. Si potrebbe obiettare come la lettura delle dichiarazioni rese davanti ad altro giudice non impedirebbe comunque al nuovo decidente di attivarsi ai sensi degli artt. 506 e 507 c.p.p. Ma, lo si è più volte ricordato, il rapporto immediato non si forma tra giudice e singolo dato probatorio, essendo [continua ..]