Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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Giustizia penale e sistema produttivo: non prevalga solo l'idea di accorciare i tempi del processo (di Adolfo Scalfati, Professore ordinario di Procedura penale – Università degli studi Tor Vergata di Roma)


Il disegno di legge delega auspicato dal precedente Governo punta alla ragionevole durata, con alcune distorsioni sul terreno delle garanzie e senza meditare su percorsi di mediazione. Tuttavia, una giustizia lenta non è l’unico fattore che influenza l’economia del Paese, come tanti dicono: emergono altri significativi aspetti, connessi all’uso del potere investigativo, del tutto ignorati dalla riforma in cantiere.

Criminal justice and economy: not just the idea of shortening the time of the trial

The draft law recommended by the previous Government aims at a reasonable lenght of the proceedings, with some unfavorable effects for defensive guarantees. In any case slow justice is not the only factor that influences the Country’s Economy: other significant aspects related to the use of investigative power are relevant, but completely ignored by the Reform.

SOMMARIO:

1. Un settore nevralgico - 2. Procedure lente: quali soluzioni? - 3. Giustizia penale e riflessi socio-economici - 4. Durata del processo e paralisi della prescrizione: alcun nesso (anzi) - 5. Irrobustire udienza preliminare e riti alternativi


1. Un settore nevralgico

È (ancora) tempo di riforme ma, forse, con un cambio di passo. Non che si speri in un impegno legislativo di sistema. La fase politica, sempre così incerta, e la priorità di fronteggiare rischi sanitari, con i dolorosi riflessi anche sul terreno economico, non lo permetterebbero; e poi, il polimorfismo delle fonti, i dibattiti tra le Corti, un’evoluzione sociale travolgente, l’uso della tecnologia impietosamente mutevole, sconsigliano di mettere in cantiere un’architettura normativa organica (lo erano i codici) con la pretesa che duri nel tempo.

Travolti dai dubbi di trasparenza sull’esercizio del terzo potere dello Stato, urge una riflessione profonda sul perdurare dell’assetto giudiziario delineato dalla Costituzione (era il 1946), magari riallineando l’indipendenza della magistratura, ordine che oggi appare immune da modelli seri di verifica esterna rischiando di alterare gli equilibri democratici. Non è un caso che le recenti ed autorevoli spinte chiedano di modificare la selezione dei componenti del CSM, per contrarre il fenomeno del correntismo, soprattutto, nelle scelte delle funzioni da assegnare ai magistrati.

Naturalmente, il riassetto di tale disciplina non basterebbe a ridare fiato e credibilità alla giustizia penale, dovendosi agire sul piano dell’organizzazione giudiziaria, massimamente sul comparto amministrativo degli uffici; il momento potrebbe essere propizio per effettuare investimenti diretti a irrobustire il quadro del personale, incluso il livello culturale specifico, e ad implementare gli strumenti tecnologici il cui attuale quanto parziale esperimento sta generando notevoli incertezze operative.


2. Procedure lente: quali soluzioni?

Nello stato paludoso in cui versa la giustizia penale rappresenta un obbiettivo encomiabile che i processi durino poco; la collettività ha bisogno di certezze, gli investitori stranieri pretendono che il capitale sia protetto dal diritto applicato, le parti intendono ottenere rapidamente risposte e, soprattutto, l’imputato non deve restare sotto la spada di Damocle per un tempo indefinibile; d’altro canto, sarebbe sbagliato privilegiare la brevità a detrimento dei diritti partecipativi di chi capita tra le maglie del­l’ac­certamento penale. Dalle Carte internazionali alla Costituzione è delineabile un piano inclinato a vantaggio delle libertà fondamentali, circostanza di cui tener conto quando s’interviene nell’ottica della ragionevole durata. Formulare preclusioni processuali dipendenti da una condotta difficilmente “esigibile” dalle parti, ridurre l’appellabilità delle sentenze, sottrarre la collegialità delle decisioni al secondo grado di giudizio, ampliare l’area dei procedimenti camerali non partecipati dinanzi alla Corte di cassa­zione rappresentano metodi per sveltire l’accertamento non adeguatamente bilanciati sul terreno delle garanzie, soprattutto se si tratta dell’imputato.

Le riforme in materia – o i suggerimenti agli organi in grado di farle – dovrebbero provenire da chi ha consapevolezza di come vanno le cose nel quotidiano giudiziario e quali sono i reali problemi che ostacolano il funzionamento dell’apparato. Se si vuole un processo penale più breve (dunque, più efficace), si cominci dalla oculata scelta dei capi degli uffici, da un organizzazione amministrativa più razionale, dall’accrescimento numerico e dalla formazione del personale, dai fascicoli elettronici (purché siano) agevolmente accessibili agli utenti, dall’adeguata implementazione tecnologica in uso a segretari e cancellieri in smart working, dai meccanismi – ma di semplice funzionamento e introdotti progressivamente – per notifiche e deposito atti, tutti fattori in grado di agevolare un ingranaggio – oggi vischioso – riducendo notevolmente i tempi.


3. Giustizia penale e riflessi socio-economici

Abbreviare la durata del processo è solo uno dei fattori di miglioramento. Contano anche i rapporti tra l’intervento repressivo ed altri settori del Paese ugualmente significativi. Non vanno sottovalutati i riflessi del fenomeno giudiziario sulla fluidità dell’amministrazione pubblica e sulle attività produttive. Una riforma – come quella ipotizzata dal precedente Governo – che ignori altre cause capaci di paralizzare o di comprimere il contesto socio-economico e quello, intimamente legato, dell’amministrazione rischierebbe di essere monoculare, trascurando che anche un’attività giudiziaria ipertrofica influisce sul sistema produttivo.

In linea di fondo, emerge un folto impiego dell’iniziativa criminale, dovuto sia alle continue iniezioni legislative di norme penali che allargano o inaspriscono spaventosamente i fattori di deterrenza (che incentivano la paralisi), sia al ricorso all’intervento giudiziario penale quale arnese deputato a risolvere conflitti socio-economici, come se fosse venuta meno ogni altra modalità risolutoria; peraltro, in talune occasioni– in verità non da oggi – riemerge l’abitudine ad impiegare i mezzi del procedimento penale per conseguire pretese finalità da “Stato etico”, fenomeno al quale risponde simmetricamente la cd. giurisprudenza creativa quando – al di là del principio di determinatezza – mira a punire condotte che, secondo una più rigorosa interpretazione, mancherebbero di copertura penalistica o quando affievolisce le garanzie partecipative in nome della funzionalità (si pensi agli orientamenti recenti in tema di im­mediatezza dibattimentale).

Il vero pericolo, come s’intuisce, è quello di maneggiare un’arma molto affilata come mezzo di deter­renza e di controllo nei confronti del tessuto sociale e produttivo; basta brandire l’azione penale o iniziare le indagini, ed ecco apparire limiti alle prerogative personali ed economiche, ricadute disciplinari, danni reputazionali, alterazione dei mercati mobiliari, riassetto delle compagini politiche, forme di risarcimento non spontanee, ed altro ancora; un importante contributo in tale ottica nasce dalla disciplina sulla responsabilità degli enti, con il dilagante ampliamento dei delitti presupposto via via introdotto dal legislatore ed il potenziale delle misure cautelari sfruttabili sulle unità produttive.

Al riguardo, ferma l’esigenza di stabilire una volta per tutte a cosa serve il diritto penale e a delimitare l’area degli interessi da tutelare tramite la minaccia di gravi sanzioni, un punto nodale dell’i­pertrofia giudiziaria sta nelle attuali potenzialità del pubblico ministero e nei suoi rapporti con il giudice per le indagini. Gli strumenti della fase preliminare sono sufficienti ad influenzare il tessuto economico e sociale molto più di quanto lo sia il giudizio e il suo risultato: dalla propagazione di notizie che dovrebbero essere note solo all’ufficio inquirente, all’impiego diffuso di atti invasivi delle libertà, al­l’uso non contenuto di mezzi di ricerca della prova capaci di colpire diritti fondamentali, anche di terzi. Si tratta di aspetti che il tentativo di riforma ignora del tutto, limitandosi ad intervenire sui confini cronologici entro i quali – cessate le investigazioni – il pubblico ministero deve scegliere se esercitare l’a­zione penale; ben poca cosa, in verità, in assenza peraltro di una ricaduta processuale capace di fronteg­giare gli effetti del mancato rispetto dei tempi. Invece, è proprio la disciplina delle indagini preliminari – e il suo uso disinvolto – a manifestare potenzialità ben in grado di influire sui contesti socio-eco­no­mi­ci, talvolta nell’assoluta eterodossia dei fini.

Al fondo, primeggia una ridotta determinatezza descrittiva quanto alle condizioni per l’esercizio del potere, circostanza che permette un eccesso di fluidità nell’uso di strumenti pervasivi. Segue il mefitico rapporto tra organi di stampa e uffici giudiziari, divenuto incontrollabile sul piano qualitativo e quantitativo per una serie intrecciata di ragioni e di interessi convergenti. Ma il punctum dolens sta nella ridotta capacità del giudice per le indagini preliminari – non per suo demerito – di compiere un’analisi effettiva sulle richieste del pubblico ministero. La disciplina che permette agli inquirenti – in tempi privi di un reale controllo – di collezionare un ampio dossier investigativo da sottoporre al giudice e la brevità della risposta giurisdizionale fisiologicamente imposta dalla natura delle richieste inducono a pronunce veloci poco ragionate, talvolta acritiche. Sarebbero auspicabili, sia l’aumento dell’organico, sia l’allar­ga­mento del controllo agli atti di intrusione domiciliare, sia l’inserimento di limitati poteri istruttori operanti quando il giudice avverte l’esigenza di chiarire lati incerti della vicenda. Peraltro, tale ultimo profilo sarebbe in grado di riequilibrare i poteri in campo laddove un limitato intervento istruttorio operasse anche su domanda della difesa.


4. Durata del processo e paralisi della prescrizione: alcun nesso (anzi)

Tornando ai contenuti del disegno di legge allestito dalla precedente gestione ministeriale – il cui testo rappresenta la base di un cantiere aperto – qui lo sguardo è limitato ad alcuni argomenti in campo; si tratta di rilievi che naturalmente meriterebbero ben altro spazio.

La recente riforma della prescrizione, laddove paralizza il decorso dei termini dopo la decisione di primo grado, è censurabile e va ripensata: non tanto per il temuto riflesso sulla durata del processo quanto per gli effetti distorsivi in tema di funzione della pena.

Storicamente, prevedere una clausola estintiva significa che, a date condizioni, sfuma l’interesse a punire; il passare del tempo costituisce un ragionevole motivo che induce ad attenuare il conflitto derivante dal reato, sino a rinunciare alla sanzione. Pertanto, intervenire sulla prescrizione, provocandone una sostanziale inefficacia, genera un aumento del popolo carcerario pur dinanzi all’esigenza repressiva ingiallita dal tempo. Intendiamoci. Non che la riformata disciplina non sia capace di produrre distorsioni sui tempi della giustizia penale, magari affrancando la magistratura dai ritmi che legittimano un accettabile grado di efficienza nella trattazione. Ma il punto centrale è che azzerare o comprimere la prescrizione del reato determina il serio rischio di applicare la pena quando si è molto lontani dal fatto, con intuibile tradimento del principio rieducativo. È già così oggi, sulla base della disciplina applicabile, “clemente” solo verso fasce di illeciti di scarso allarme; lo sarà molto di più domani.

Dal canto suo, la celerità del processo rappresenta un’esigenza autonoma, indipendentemente da modi e forme delle cause estintive: l’accertamento potrebbe avere lunga durata anche se non si accrescesse la sospensione dei tempi della prescrizione (è accaduto sino ad oggi) pregiudicando il diritto ad una durata ragionevole; viceversa, il processo potrebbe essere rapido ma ugualmente non eviterebbe una clausola estintiva se il fatto è molto lontano nel tempo.

Prevedere, come taluno ipotizza, confini temporali per ciascuna fase del processo, istituendo la cd. prescrizione dell’azione penale, non scioglierebbe due nodi: la difficoltà di stabilire quali criteri influen­zino la durata delle singole fasi, con inevitabile pericolo di introdurre discrezionalità in virtù della quale i limiti cronologici mutino da ufficio a ufficio; la permanenza della punizione anche a notevole distanza dai fatti, provocando un pregiudizio incompatibile con l’art. 27 comma 3 Cost.


5. Irrobustire udienza preliminare e riti alternativi

Un altro interrogativo di cui si parla – prendendo spunto dal testo del disegno di legge – riguarda l’abolire o meno l’udienza preliminare.

Taluni, muovendo da una prassi effettivamente ipotonica, sostengono che la fase sia inutile, contraria alla snellezza del procedimento penale; si sottolinea che semmai il legislatore concepisse un filtro più rigoroso, questo diverrebbe persino rischioso, considerando come l’eventuale decreto che dispone il giudizio rappresenti, di fatto, un’ipoteca sul giudice del dibattimento. Così, sempre seguendo tale orientamento, la soppressione della fase, ora ridotta ad una camera compensativa in vista dei riti differenziati, determinerebbe una maggiore fluidità delle forme e un rapporto meno pregiudiziale con il giudice del merito. Si tratta, naturalmente, di tesi pregevoli, talvolta dotate di notevole apparato critico, qui non sintetizzabile.

Tuttavia, constatare il cattivo funzionamento di una disciplina non rappresenta un buon motivo per eliminarla se, in linea di fondo, essa è stata concepita come strumento di tutela, circostanza questa che appare indiscutibile atteso che l’udienza preliminare rappresenta l’unico stadio in cui la difesa chiede al giudice di evitare un processo inutile. Fino a quel momento – in verità – l’accusato subisce tempi, modi e strategie essenzialmente governati dal pubblico ministero.

L’esercizio dell’azione, di per sé, non equivale ad un’iniziativa sempre ben promossa; eppure, tale potere, quando è male esercitato, genera conseguenze sulla sfera soggettiva, tanto per l’inutile prolungamento della vicenda, quanto sul terreno dell’indebita emersione del ruolo di imputato e delle ulteriori patologie mediatiche conseguenti al diffondersi della richiesta di giudizio; il punto è che tali distorsioni sono amplificate dall’idea di un udienza preliminare “debole”: intervenuto l’atto d’accusa, si immagina – con verosimiglianza – che la fissazione del dibattimento sia solo una questione di tempo. Emerge oggi con chiarezza, osservando l’elevato numero di sentenze di proscioglimento, che il pubblico ministero riesce ad innestare il giudizio anche se gli elementi di cui dispone non sono convincenti; detto in altri termini, prevale un esercizio del potere giudiziario in chiave marcatamente punitiva stante l’assenza di un robusto controllo sulla consistenza della domanda.

Occorre un filtro in udienza preliminare dove la regola selettiva sulla necessità del giudizio sia a “maglie strette”; le modifiche sull’art. 425 c.p.p., introdotte fino ad ora dal legislatore, si sono rivelate insufficienti ad evitare vicende giudiziarie avviate da iniziative penali di scarsa consistenza. Il rischio secondo cui un intervento normativo del genere, nel caso di rinvio a giudizio, determinerebbe nei magistrati del dibattimento una “opinione di colpevolezza” radicata sui retropensieri boscosi, piuttosto che condurre a soluzioni abrogative dell’udienza preliminare, dovrebbe essere fronteggiato irrobustendo l’educazione culturale del giudice che accresca in lui la consapevolezza della propria neutralità.

Un filtro preliminare effettivo, d’altro canto, indurrebbe il pubblico ministero ad un più rigoroso completamento investigativo, colmando eventuali debolezze dell’impianto accusatorio dinanzi ad allegazioni indiziarie di segno contrario che potrebbero rivelarsi determinanti sulla effettiva consistenza dell’azione vagliata nell’udienza preliminare; in secondo luogo, la indotta maggior robustezza del panorama investigativo incentiverebbe scelte più estese verso le procedure contratte da parte dell’imputa­to, con intuibile risparmio dei tempi.

Un punto rilevante sul quale gioca il disegno di legge presentato dalla precedente compagine gover­nativa riguarda lo sfoltimento giudiziario ricorrendo ad un “patteggiamento allargato” capace di irrogare una sanzione pari a 8-10 anni di reclusione. Qui è evidente il fine di decomprimere un apparato al collasso. Tuttavia, l’ipotesi accresce – ancor più di oggi – la dimensione anticognitiva della giustizia; sappiamo quanto sia povera la procedura di pena concordata sul versante dell’accertamento e come essa, sfiorando la crisi dei canoni fondamentali della giurisdizione, rimetta alle parti l’adozione della pena, incrinando il fisiologico rapporto causale tra giudizio di colpevolezza e sanzione penale. Pertanto, accrescere ancora le potenzialità del patteggiamento equivale a solcare un binario già di per sé denso di criticità e fonte di aporie sul piano della commisurazione sanzionatoria.

Dinanzi al sistema dei valori – anche perché è giunto il momento di ripensare alla soluzione del carcere come effetto centrale del reato (art. 27, comma 3, Cost.) – appare più adeguato ricalibrare gli strumenti di mediazione (condotte riparatorie), soprattutto quando richiedono comportamenti collaborativi dell’imputato (messa alla prova) finora inopinatamente riservati a delitti di scarso impatto.