Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Pandemie e carcere: diritto alla salute ed esigenze di ordine e sicurezza pubblica (di Alessia Nataloni, Cultore di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Perugia)


Il d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. l. 18 dicembre 2020, n. 176, rappresenta l’ultimo – almeno per ora – intervento governativo nel microcosmo carcerario, volto a deflazionare le carceri e a garantire la tutela della salute di chi vive all’interno degli istituti di pena.

I provvedimenti d’urgenza varati in tempo di pandemia evidenziano, tuttavia, come la prevalenza di logiche autoritarie sulla tutela giurisdizionale dei diritti degradi la “fondamentalità” del diritto alla salute a mero interesse legittimo, condizionato dalle risorse – sempre più scadenti – messe a disposizione dall’amministrazione penitenziaria e dalla sanità regionale.

Il risultato, in buona sostanza, è la prevalenza dell’amministrazione sulla giurisdizione.

Sin quando il virus non entra in cella.

Pandemics and Prison System: Right to Health, Order and Public Security

D.L. n. 137 of 2020, conv. L. n. 176 of 2020, marks the latest – at least for now – Government’s Intervention in the Italian Prison System, aimed to reduce Prison Overcrowding and to ensure the Protection of the Inmates’Health.

The emergency Measures show, however, the prevalence of authoritarian logic on the judicial protection of Rights and degrade the “fundamentality” of the Right to Health to mere legitimate interest, conditioned by the resources available by the Prison Administration and Regional Health Care.

The Result is the Administration’s prevalence over Jurisdiction.

Until the Virus enters the cell.

SOMMARIO:

1. Il diritto alla salute della persona in vinculis - 2. Il diritto alla salute del detenuto tra amministrazione e giurisdizione - 3. Pandemie vecchie e nuove: Aids e carcere - 4. Covid e trattamento penitenziario: i colloqui - 5. (Segue): i permessi - 6. (Segue): le misure alternative alla detenzione - 7. Considerazioni di sintesi - NOTE


1. Il diritto alla salute della persona in vinculis

La proiezione bifronte dell’art. 32, comma 1, Cost., che impone alla Repubblica di tutelare «la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» fotografa da sempre l’antico dibattito avente per oggetto la natura e i contenuti enucleati dalla disposizione costituzionale [1]. Se i meno recenti orientamenti dottrinali sottolineavano la mera valenza programmatica della proposizione, negandone la natura precettiva [2], dagli anni Settanta del secolo passato si è affermata una nozione ampia di salute, il cui sostrato, delineato in maniera analitica da alcune fondamentali decisioni delle Sezioni Unite della Corte di cassazione [3], si traduce nel riconoscimento, in capo all’individuo, di un diritto fondamentale primario ed assoluto, direttamente tutelato dalla Costituzione e insuscettibile di compressione da parte della pubblica amministrazione, quand’anche essa operi a tutela della salute pubblica [4]. La necessità di armonizzare la protezione del diritto alla salute della persona in vinculis con le finalità di ordine e sicurezza caratterizzanti il “penitenziario” impone che l’attività del legislatore ordinario si spieghi nel senso di consentire l’esercizio del diritto nelle forme compatibili con l’ordinamento speciale [5]. Tuttavia, nonostante l’inserimento della medicina penitenziaria nel servizio sanitario nazionale [6], il diritto alla salute della persona privata della libertà personale pare ancora subire limitazioni più consistenti di quelle operanti per gli individui in libertà. Com’è stato da tempo rilevato in letteratura [7], «[l]’apparato normativo preposto alla tutela della salute della persona detenuta si caratterizza per una tecnica legislativa del tutto peculiare, la quale, affidando l’esternazione del precetto a mere varianti di ordine lessicale, ha finito, nel corso dei tempi, per suscitare nell’interprete interrogativi di non sempre agevole risoluzione. Il riferimento è operato non solamente a quegli inevitabili problemi di raccordo, di priorità, ovvero di eventuale cumulabilità degli istituti che il legislatore ha approntato in attuazione dell’art. 32 Cost., ma allo stesso bene giuridico che egli ha inteso salvaguardare, ristretto, come appena detto, tra il diritto del singolo e [continua ..]


2. Il diritto alla salute del detenuto tra amministrazione e giurisdizione

Sotto il profilo contenutistico, non tutti i predicati della formula «diritto alla salute» sono suscettibili di essere riferiti alla persona detenuta: nella realtà delle cose, la libertà terapeutica del malato è, infatti, subordinata all’esigenza di assicurare la tutela delle esigenze di sicurezza istituzionalmente demandate all’amministrazione penitenziaria. È il caso, ad esempio, della possibilità di scegliere il luogo di cura o il medico curante [19], anche se, in una prospettiva più generale, il problema concerne l’effettività di tutti i trattamenti sanitari. La degradazione del diritto fondamentale dell’individuo è, infatti, evidente, laddove si consideri che la sua azionabilità è spesso subordinata all’emissione di un provvedimento amministrativo, qual è l’autorizzazione del direttore dell’istituto. E non giova obiettare che per gli imputati il provvedimento assume forme giurisdizionali, posto che il regime dei controlli dinanzi il giudice ordinario è il medesimo, cioè a dire nessuno. Invero, nonostante la Corte costituzionale [20] e la giurisprudenza di legittimità [21] ne abbiano da tempo formalizzato il riconoscimento, la tutela del diritto alla salute in carcere è caratterizzata, da un’inquie­tante informalità, dal momento che la legge dell’ordinamento penitenziario, anche dopo la recente riforma del 2018, tratteggia un procedimento carente delle benché minime garanzie in punto di contraddittorio e controllo. I commi 4, 5 e 6 dell’art. 11 ord. penit. ridefiniscono profondamente la disciplina dei ricoveri esterni e la ripartizione delle competenze in materia. Da un lato, infatti, il presupposto legittimante il trasferimento «in strutture sanitarie esterne di diagnosi o di cura» evidenzia una rilevante modificazione lessicale, dai contenuti maggiormente ampi, operando riferimento alla necessità di «cure o accertamenti sanitari» (non più meramente «diagnostici»), «che non possono essere apprestati dai servizi sanitari presso gli istituti». Dall’altro lato, il sistema delle competenze subisce una vera e propria rivoluzione, restituendo – condivisibilmente – al «giudice che procede» (ed alleggerendo di conseguenza i carichi del magistrato di [continua ..]


3. Pandemie vecchie e nuove: Aids e carcere

I delicati equilibri, faticosamente ricercati nella predeterminazione legislativa della compatibilità tra detenzione e condizioni di salute, hanno registrato nel fenomeno AIDS momenti di difficile composizione. Ci si riferisce alle vicende inerenti le modalità di tutela delle patologie terminali riconducibili alla sindrome da immunodeficienza acquisita, inserite nel tessuto codicistico (ed operanti sia ante iudicatum che in sede esecutiva) per effetto degli artt. 1 e 2, d.l. 14 maggio 1993, n. 139, convertiti dall’art. 1, comma 1, l. 14 luglio 1993, n. 222. In particolare, per effetto dell’art. 2, d.l. n. 139/1993, n. 139, l’automatica operatività del rinvio obbligatorio era stata contemplata in riferimento alle persone affette da infezione da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell’art. 286 bis, comma 1, c.p.p., sino a quando, con la sent. n. 438/1995 [24], la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 146, comma 1, n. 3, c.p., nella parte in cui prevede che il differimento abbia luogo anche quando l’espiazione della pena possa avvenire senza pregiudizio della salute del soggetto e di quella degli altri detenuti [25]. Le questioni di legittimità costituzionale prospettavano la presunta irragionevolezza dell’art. 146 c.p. derivante, secondo il giudice rimettente, dalla disparità di trattamento riscontrabile, in un caso, tra individui sieropositivi, e nell’altro, tra malati di AIDS socialmente pericolosi [26]. Sempre secondo le proposte avanzate dal giudice a quo, si sarebbe, inoltre, verificata una sostanziale obliterazione di tutte le finalità che la Costituzione assegna alla pena, «in un’ottica di deresponsabilizzazione che contraddice il principio stabilito dal primo comma dell’art. 27 della Costituzione». Nondimeno, le censure maggiormente risolutive si incentravano sulla valenza del diritto alla salute in ambito carcerario. Il giudice rimettente, infatti, deduceva la violazione dell’art. 27, commi 1 e 3 Cost., in considerazione del fatto che «la violazione del personalismo e finalismo rieducativo della pena» appare tanto più grave dal momento che il bene della salute collettiva carceraria si presenta estraneo rispetto alle finalità costituzionali della pena, e, in prospettiva diversificata, deduceva la [continua ..]


4. Covid e trattamento penitenziario: i colloqui

Le linee normative in materia penitenziaria, inaugurate all’indomani dell’emergenza Covid, si sono dipanate essenzialmente intorno a tre presidi trattamentali: colloqui, permessi e misure alternative. Quanto al primo, il legislatore d’urgenza è intervenuto disponendo la chiusura degli istituti penitenziari da accessi dall’esterno, al fine di evitare che il virus potesse varcare la soglia del carcere [31]. In tale prospettiva, il pericolo di contagio, anche sulla scorta delle raccomandazioni organizzative diffuse dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria [32], è stato arginato con un primo decreto legge [33], il quale sopprimeva, all’interno degli istituti penitenziari e degli istituti penali per i minorenni ubicati nelle regioni di Lombardia e Veneto, il diritto ai colloqui visivi, con i congiunti o con altre persone, riconosciuto ai condannati, agli imputati e agli internati, dall’art. 18, l. 26 luglio 1975, n. 354, dall’art. 37, d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 e dall’art. 19, d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121. Si legge, infatti (art. 10, comma 14), che, sino alla data del 31 marzo 2020, i colloqui sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti di cui all’art. 39, comma 2, reg. ord. penit. e all’art. 19, comma 1, d.lgs. n. 121/2018. Successivamente, sulla medesima lunghezza d’onda, l’art. 2, comma 8, d.l. 8 marzo 2020, n. 11[34], seguito dall’art. 83, comma 16, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, ha esteso ad ogni istituto di pena presente sul territorio nazionale (ma sino alla data del 22 marzo 2020) le disposizioni derogatorie già previste dal d.l. n. 9 del 2020 [35]. Il parziale isolamento dei soggetti ristretti, però, oltre a non aver impedito l’ingresso del coronavirus in carcere [36], ha altresì causato violente proteste in diversi istituti penitenziari [37]. A fronte della particolare situazione dei detenuti, ulteriormente abbrutiti dal lockdown, l’ammi­nistrazione penitenziaria è intervenuta con nuove disposizioni operative volte ad alleggerire l’impatto delle restrizioni disposte in materia di colloqui visivi [38]. In questo senso deve essere [continua ..]


5. (Segue): i permessi

Con riferimento alle interpolazioni apportate alla procedura per la concessione dei permessi “di necessità” (artt. 30 e 30 bis ord. penit.), torna all’attenzione il d.l. 30 aprile 2020, n. 28. Quest’ultimo provvedimento ha, infatti, introdotto specifici oneri istruttori in capo all’autorità giudiziaria competente per la decisione sull’istanza del beneficio [44]. In particolare, l’art. 2 del citato decreto legge interpola l’art. 30-bis, comma 1, ord. penit., il quale prevede che, nel caso di detenuti per uno dei delitti previsti dall’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p., l’autorità competente, prima di pronunciarsi, deve chiedere altresì il parere del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto nel quale è stata pronunciata la sentenza di condanna o ove ha sede il giudice che procede e, nel caso di detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis ord. penit., anche quello del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e alla pericolosità del soggetto. Ad ogni modo, presentata istanza di rilascio dei prescritti pareri, il giudice procedente potrà decidere liberamente trascorse ventiquattro ore dalla richiesta, od anche prima, qualora ricorrano «esigenze di motivata eccezionale urgenza». Tale disposizione incombe come un macigno sui provvedimenti in materia di permessi[45]. In effetti, anteriormente alla novella, il legislatore si limitava a stabilire che, prima di assumere la decisione sulla concessione del permesso, l’autorità giudiziaria competente dovesse assumere «informazioni sulla sussistenza dei motivi addotti, a mezzo dell’autorità di pubblica sicurezza, anche del luogo in cui l’istante chiede di recarsi»[46]. Va, tuttavia, considerato che i “nuovi” pareri imposti al giudice procedente seppur obbligatori, non risultano vincolanti. Pertanto, decorsi i termini previsti, il magistrato potrà pronunciarsi sulla richiesta di beneficio anche in assenza di essi [47]. Una simile interpretazione si pone in linea con la ratio sottesa ai permessi cosiddetti “di necessità”, cui la magistratura ricorre in circostanze nei quali le tempistiche dei pareri potrebbero risultare incompatibili con l’esigenza [continua ..]


6. (Segue): le misure alternative alla detenzione

La strategia del Governo volta esclusivamente a chiudere le porte del carcere al mondo esterno, senza un contestuale intervento strutturale sul problema del sovraffollamento [54], non risulta sufficiente ad impedire la diffusione del covid-19 tra le mura degli istituti penitenziari [55]. Tale consapevolezza ha costretto l’esecutivo a cambiare rotta. Da qui il già menzionato intervento operato con il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 [56], che ha introdotto soluzioni volte a favorire l’espiazione della pena in forma extramuraria per le persone già detenute e, al tempo stesso, ha cercato di evitare l’ingresso in carcere dei condannati a pena detentiva, in procinto di espiarla [57]. Lo strumento principale è stato individuato nell’esecuzione domiciliare disciplinata dall’art. 1 della legge n. 199/2010 [58], oggetto di una semplificazione procedimentale [59], che avrebbe dovuto accelerare i tempi di risposta per l’accesso alla misura. Condizionale quanto mai doveroso, considerata la scelta di conservare il limite edittale di diciotto mesi previsto nella disciplina generale e la previsione del controllo mediante braccialetto elettronico, obbligatorio tutte le volte in cui la pena da eseguire sia superiore a sei mesi [60]. Poco aggiunge, sotto questo profilo, il decreto del Presidente del Consiglio che segna la cosiddetta “Fase 2”. Invero, con alcune raccomandazioni, chiede (probabilmente ai giudici) di valutare, per i nuovi ingressi sintomatici, la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare e, con riguardo ai detenuti potenzialmente destinatari di permessi e della semilibertà «di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare» [61]. Un capitolo a parte, meritano i condannati affetti da particolari patologie. Sotto questo profilo, occorre far riferimento alla nota del 23 marzo 2020, n. 95907, con la quale la Direzione generale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha invitato le Direzioni degli istituti penitenziari a comunicare, con solerzia, all’Autorità giudiziaria, il nominativo dei ristretti che si trovino in condizioni di salute già gravi a causa di malattie croniche specificamente indicate, alle quali è possibile [continua ..]


7. Considerazioni di sintesi

L’esame delle disposizioni adottate dal legislatore in questi mesi di emergenza sanitaria da coronavirus porta inevitabilmente a rilevare come le stesse celino un messaggio politico: «far rientrare il più presto possibile in cella i detenuti mafiosi già scarcerati» [84]. Ci si dimentica così che, al cuore dei provvedimenti adottati dalla magistratura di sorveglianza, vi è l’impossibilità di apprestare cure adeguate nel contesto penitenziario, nei confronti di detenuti, la cui pericolosità sociale non risulta né ignorata, né sottovalutata, ma semplicemente posta in doveroso bilanciamento con altri interessi meritevoli di tutela. Ma non basta. Il costante aumento dei soggetti positivi al virus all’interno delle carceri [85] evidenzia limpidamente come l’istituzione penitenziaria non si presenti assolutamente sicura e immune dalla diffusione del­l’epidemia. In tale prospettiva, risulta di primaria necessità una sinergia tra amministrazione penitenziaria e sanità regionale che permetta di salvare figli, padri, madri, nonni, i quali hanno diritto di sfuggire al contagio e di garantire agli stessi di godere di quella tutela costituzionale riconosciuta e garantita dal legislatore nazionale e dalle norme sovranazionali.


NOTE