Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Media e processo penale: riflessioni a margine * (di Cristiana Valentini, Professore Ordinario di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Chieti-Pescara “G. d’Annunzio”)


Il contributo dipana alcuni profili inediti del rapporto tra media e processo penale. Si tratta di un rapporto sempre complesso, denso di profili potenzialmente critici, talvolta foriero di guasti irrimediabili; ma anche, in altre occasioni, latore di un coefficiente di trasparenza capace di assicurare un effettivo controllo sulla gestione del sistema giustizia

Media and criminal trial: reflections on the sidelines

The contribution unravels some unpublished profiles of the relationship between the media and the criminal trial. it is an always complex relationship, full of potentially critical profiles, sometimes a harbinger of irremediable failures; but also, on other occasions, the bearer of a transparency coefficient capable of ensuring effective control over the management of the justice system.

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SOMMARIO:

1. Un privilegio raro - 2. Dati empirici e spesso inediti - 3. Linee del discorso - 4. Comunicazione - 5. Informazione - NOTE


1. Un privilegio raro

Talvolta allo studioso si offrono occasioni insolite, come quella di spogliarsi di un habitus asettico, per collocarsi dinanzi allo schermo del computer al fine di proporre un pensiero che lasci occasionalmente affiorare senza schermi le vesti di avvocato difensore, secondo modalità d’appro­fon­di­mento basate sul dato empirico, ben note oltreoceano [1]. In effetti, l’opera dell’autentico avvocato penalista nel processo è «sempre legata sentimentalmente al tema trattato» [2], così che liberarsi da quel sentimento, per assumere la veste dovutamente asettica dello studioso, può essere un lavoro arduo, capace di entrare persino in urto con le esigenti convinzioni di chi ha vissuto la tale evenienza processuale, portandone addosso, magari, il peso della sconfitta. Qui si cercherà di comporre le due facce della stessa esperienza umana, verificando gli esiti che ne derivano sul peculiare tema del rapporto tra media e processo penale.


2. Dati empirici e spesso inediti

Prendiamo l’abbrivio da un caso ormai semi-sepolto nella memoria collettiva, ovvero il processo contro l’ex Ministro Ottaviano Del Turco ed altri, venuto mediaticamente alla ribalta del Paese nel­l’an­no 2008, con il termine poco originale di “Sanitopoli” [3]. In quell’anno, all’indomani dei clamorosi arresti, vari media locali riportavano la notizia secondo cui uno degli indagati sarebbe stato «bloccato dai finanzieri su una Porsche Cajenne, con 113 mila euro ancora nascosti in una ventiquattrore» [4]. In verità, come risulta dal verbale di esecuzione della misura cautelare, l’uomo era stato trovato dagli operanti in casa propria, alle prime ore del mattino, dove da poco si era svegliato assieme alla moglie, tanto che entrambi risultavano in «abiti succinti», epperò – potenza dell’informazione mediatica [5]– la fake diventava presto un dato con cui fare i conti, tanto che, ancora anni dopo, si legge in una ricostruzione postuma: «sarà la Procura di Pescara a fermare la corsa del colonnello, arrestato il fatidico 14 luglio 2008 a bordo della sua Porsche Cayenne con una valigetta imbottita di 113 mila euro» [6]. Ma si venga al punto, tornando a quei primi momenti processuali, con una misura custodiale in corso di esecuzione; nel provvedimento di rigetto del Tribunale del Riesame, adito dall’indagato, si legge che le esigenze cautelari sarebbero state radicate non solo sulle gravi condotte ipotizzate dall’accusa, ma anche su di una «elevatissima pericolosità sociale», asseritamente dimostrata dalle «circostanze del suo arresto, avvenuto mentre era alla guida di una lussuosa auto con una valigetta contenente … una somma considerevole di denaro» [7]. E così, la fake diventava una (pseudo)prova, entrata nel processo attraverso la testa del giudice mediaticamente informato e mutata in verità processuale dalla mancata consultazione del mare magnum degli atti allegati al Tribunale dalla Procura della Repubblica. L’episodio è assolutamente icastico, valendo a rappresentare in termini che diremmo brutali, la profonda verità dell’assunto per cui «il rischio di un’influenza dei media sulla decisione non si può a priori escludere per i giudici professionali. Con onestà intellettuale, occorre, al [continua ..]


3. Linee del discorso

Le linee della problematica sono state lungamente esaminate, così che alcun aspetto può dirsi inesplorato [15], e la sintesi va forse resa in questa maniera: ogni configurabile disciplina dei rapporti tra media e processo penale si muove, con somma fatica, tra principi di macroscopico rilievo: tutela della sfera privata dell’individuo, da un lato, e libertà d’espressione/diritto all’informazione, dall’altro; ma anche segreto investigativo vs. categorico rifiuto di un’amministrazione occulta della giustizia, sicché ogni possibile prospettiva de jure condendo non è in grado di offrire soluzioni realmente compiute e appaganti [16]. È certo che il radicamento nell’art. 21 Cost. del diritto di cronaca [17] non esclude che esso trovi limiti non esplicitati dal testo della norma costituzionale, ma decisamente indiscutibili, in un’ottica di bilanciamento tra valori tutti costituzionalmente protetti, quali, appunto, non solo i diritti individuali alla riservatezza e alla reputazione, ma anche (e soprattutto) la presunzione di non colpevolezza, difficilmente salvaguardabile, in contesti dove la notizia appare ammantata di affidabilità a cagione della sua provenienza da fonti ufficiali [18]. In questa congerie di problematiche, un aspetto sembra oltremodo chiaro e con esso occorre fare i conti, per ogni prospettiva di riforma che si voglia immaginare: la pubblicabilità degli atti di un processo penale è esigenza inestricabilmente connessa al rifiuto di ogni forma segreta (ovvero non trasparente) di esercizio del potere [19], ma, per converso, la desecretazione degli atti, «sapientemente manipolata» rischia di «servire, in modo ancor più insidioso ed efficace, quegli stessi interessi protetti dal segreto» [20]. Alludiamo, con ciò, a questo dato di fatto, cristallizzato dai dati statistici: i media si alimentano in vasta parte di materiali estratti dall’unica fonte in possesso di “segreti” sulle indagini, ovvero gli uffici inquirenti, con la logica conseguenza per cui è l’inquirente e nessun altro a suscitare il preponderante interesse dei media [21]. In effetti, come si spiega, allegando numeri inequivocabili, «la fonte del giornalista è raramente la difesa (7% dei casi), molto più spesso il pubblico ministero (33%) o la polizia [continua ..]


4. Comunicazione

Quando, però, si allude alla scelta di spostare la battaglia giudiziaria (anche) sui media, non si parla certo del fenomeno – giustamente deprecato – degli indagati «portati a rendersi disponibili per i media» e neppure dei testimoni e persone offese i quali «non si sottraggono a quel momento di notorietà che l’episodio può loro procurare per sfruttare la vicenda processuale che li coinvolge e per chiedere, dunque, una soluzione non giudiziaria ‘di giustizia’» [29]; non si parla, insomma, della c.d. giustizia-spettacolo, condotta in terrificanti salotti televisivi che ambiscono persino a porsi in populistica concorrenza con quella dei tribunali. Ciò di cui si discute, qui, è semplicemente della possibilità di interagire con i media al fine di controbilanciare l’immagine che viene fornita a piene mani dagli inquirenti. Si ragioni su quest’ultimo aspetto. La realtà, invero, non è aggirabile, specie laddove si tratta di un dato empirico costante anche in presenza di legislazioni differenti [30], ed è questo ciò che conduce giustamente a dire – tenendosi ben lontano da tanta «ipocrisia ufficiale» – che occorrerebbe restringere e non certo ampliare la sfera del segreto istruttorio, così rendendo legittimo «ciò che oggi è sì vietato dalla legge, ma soltanto “sulla carta”», con la benefica conseguenza di evitare la pubblicazione di «illazioni, notizie approssimative, incomplete o imprecise, quando non destituite di ogni fondamento» [31], compiacentemente adagiate sulle informazioni distribuite dal “distributore ufficiale”, ovvero le Procure della Repubblica. Sotto questo profilo anche la direttiva n. 216/343/UE, dedicata alla presunzione d’innocenza, e il suo art. 4 in particolare, sono destinati a cambiare solo marginalmente le prassi interne, così come del pari minimo pare destinato ad essere l’impatto delle “Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, emanate dal CSM con delibera dell’11 luglio 2018: tanto la Direttiva, quanto l’impostazione delle Linee-guida, non toccano neppure in minima misura il problema reale, ovvero l’accentramento del potere di divulgazione di atti e notizie [continua ..]


5. Informazione

Tutt’altra cosa sembra essere la considerazione del «“diritto” della collettività ad essere informata e del dovere dell’istituzione di “dar conto del proprio operare”» [36], tanto più nella (dovuta) consapevolezza del carattere inesorabilmente «terribile e odioso del potere giudiziario» [37], quale potere dell’uomo sull’uomo. Nelle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, il diritto di cronaca viene certo inteso come diritto di dare liberamente informazioni, ma anche (forse soprattutto) come diritto di riceverle senza indebite ingerenze e di ricevere informazioni che siano veridiche; in altre parole, l’impostazione della Corte europea offre tutela al bisogno di conoscere la realtà in cui si vive perché la conoscenza è intesa come primo e fondamentale passo per il controllo del cittadino sulle istituzioni [38]. Ritorniamo al recente caso del processo sulla strage di Rigopiano: il 1° febbraio 2017 le testate locali e nazionali recano una notizia, palesemente fondamentale per i parenti delle 29 vittime, secondo cui esse sarebbero quasi tutte morte sul colpo o pochi minuti dopo, secondo la classica conferma arrivata “da ambienti giudiziari”. Due mesi dopo giunge il revirement, costretto dall’analisi dei cellulari operata dai Carabinieri del RIS, e dunque così racconta “il Fatto Quotidiano”: «il procuratore di Pescara… spiegò in una conferenza stampa che le 29 vittime della valanga che seppellì l’hotel Rigopiano a Farindola erano morte quasi tutte sul colpo ed era quindi irrilevante il ritardo di quasi due ore nell’avvio dei soccorsi. Oggi il quotidiano La Repubblica racconta la storia di X, in vacanza con il compagno anche lui deceduto sotto la massa di neve e macerie. Una storia fatta di oltre quaranta ore di agonia cercando di mandare messaggi, fare telefonate per attivare i soccorsi ed esprimere il suo amore per i familiari. La memoria del cellulare che la donna teneva stretto tra le mani ha restituito il film di quelle ore: la donna ha inviato 13 messaggi e provato 15 volte a chiamare il 112 e amici e parenti» [39]. Ancora una volta, l’esempio è scultoreo ed esemplifica – al di fuori della consuetudine, che indica l’indagato/imputato quale figura tradizionalmente lesa dal rapporto malato [continua ..]


NOTE