Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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“Indagini interne” disposte dall´ente: sussidiarietà regolatoria e nuovi scenari cooperativi (di Enrico Maria Mancuso, Professore associato di Diritto processuale penale – Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano)


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 Le investigazioni interne alle organizzazioni complesse rappresentano uno strumento non più inedito per l’e­ser­cizio del diritto di difesa, prima e durante il procedimento penale. Al contempo costituiscono l’occasione per concre­tizzare risposte efficaci e alternative alla criminalità del profitto, mediante l’adozione di modelli riparativi. Le internal investigations restano, tuttavia, sconosciute al legislatore, impegnando l’interprete a ricercare non sempre agevoli soluzioni esegetiche per individuarne i limiti e le implicazioni sistematiche. Di qui, l’opportunità di riflettere su alcune proposte di riforma, anche alla luce delle esperienze maturate in altri ordinamenti giuridici, di matrice anglosassone e continentale.

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Internal investigations: self-regulation models and new cooperative enforcement approach

Internal investigations inside complex organizations consist in a tool no longer unknown to the right of defence, both before and during criminal proceedings. At the same time, they represent an opportunity to give effective and alternative responses to profit-driven crime, through the adoption of restorative models. Nevertheless, internal investigations remain unknown to the Italian legislator, forcing the interpreter to search for not always manageable exegetical solutions in order to identify their limits and their systematic implications. Hence, the opportunity to reflect on some legislative reform proposals, also in light of the experiences gained in other legal systems, of Anglo-Saxon and continental origin.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2.Le finalità - 3. Indagini interne e diritto alla prova - 4. Tecniche d’indagine e buone prassi - 5. Il legal privilege alla prova del sistema - 6. Giustizia riparativa e indagini interne - 7. Conclusioni, de jure condendo - NOTE


1. Premessa

L’epifania della criminalità economica, in particolar modo nell’ultimo decennio, ha insegnato come le organizzazioni complesse siano sempre più di frequente aggredite da agenti patogeni in grado di alterarne gli equilibri vitali. Il sistema dei controlli interni – per prassi o per legge – si è gradualmente evoluto, così da assurgere a vero e proprio sistema immunitario dell’ente; esso, tuttavia, non sempre è in condizione di individuare per tempo le tracce del male: al manifestarsi della patologia, magari in occasione della applicazione di cautele (alle persone fisiche o all’ente), l’affannosa ricerca delle cause diviene punto di partenza per la scelta della miglior cura – pur tardiva – che possa consentire la sopravvivenza dell’ente nel contesto socio-economico di riferimento. I costi, monetari e organizzativi, dell’esercizio conoscitivo volto a ripristinare la legalità d’azione sono elevati, particolarmente quando la criminalità d’impresa abbia una dimensione transnazionale, coinvolgendo più giurisdizioni e differenti normative di riferimento, ispirate – come si suol dire sempre più di frequente – a regimi di compliance eterogenei eppure integrati. È in questo scenario che le investigazioni (o indagini) interne hanno trovato il terreno fertile per uno sviluppo per certi versi frenetico: utilizzate in origine come strumento di verifica della osservanza di policy, procedure e processi interni, esse hanno subìto un’evoluzione funzionale, sino a consentire una verifica ad ampio raggio delle possibili violazioni di legge e della conseguente esposizione a rischi di natura civile, amministrativa o (ciò che qui maggiormente rileva) penale. Il sempre più frequente utilizzo di protocolli di indagine di questa natura ha – nell’arco di pochi anni – sortito un mutamento radicale del modo di intendere la prevenzione del (nonché la reazione al) crimine d’impresa, in uno con l’esigenza di dare una attuazione piena al sistema di controllo e gestione delineato dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.


2.Le finalità

Il procedimento penale, osserva un’autorevole voce, può esser visto come «a battle in which two sides fight fiercely for control of information» [1], indipendentemente dal fatto che esso abbia ad oggetto la responsabilità di una persona fisica o dell’ente. Il diritto di difendersi provando [2], presupponendo la parità delle armi, consegna alle parti il diritto alla ricerca delle fonti in funzione del ruolo ricoperto nel procedimento, nel rispetto delle regole che il codice di rito definisce a salvaguardia delle garanzie costituzionali e sovranazionali. La disciplina dettata dal legislatore per i mezzi di ricerca della prova, forgiata avendo in mente i diritti fondamentali della persona sottoposta a indagini preliminari, esprime la necessità di salvaguardare la presunzione di innocenza, nella primaria accezione di regola di giudizio [3], con la conseguenza che ogni violazione dei divieti probatori si risolve nell’inammissibilità del mezzo di prova connesso alla ricerca effettuata o alla inutilizzabilità dell’elemento probatorio che se ne è tratto. La tutela del privilegio contro l’autoincriminazione, poi, definisce limiti teorici e pratici nelle modalità di esperimento delle attività probatorie, impedendo l’acquisizione informativa strumentale all’ammis­sio­ne di responsabilità penale in assenza di garanzie difensive. Gli stretti limiti della tipicità investigativa sono aggrediti dalla molteplice predominanza tecnologica della fase delle indagini preliminari, destinata a invadere (e pervadere) l’istruttoria dibattimentale. In tal senso, i modelli cui s’è ispirato il legislatore del codice di rito, nel 1988, si rivelano non più adeguati ai fenomeni e alle dinamiche decisionali proprie della criminalità economica, che esce dai confini territoriali e s’insinua, con sempre maggior frequenza, nelle pieghe del lecito incedere della vita delle organizzazioni complesse. Come è stato lucidamente osservato, nella silenziosa evoluzione del modo di intendere il processo, «l’assenza (o la vacuità) normativa che caratterizza le indagini atipiche esige, più che altrove, lo sforzo di delineare fattispecie e costruire categorie» [4]. È proprio nel silenzio legislativo che deve rintracciarsi il successo recentemente riscosso dalle [continua ..]


3. Indagini interne e diritto alla prova

Nel contesto descritto, l’investigazione interna può assurgere a prima linea di difesa dell’ente, nella duplice prospettiva del consapevole esercizio dei diritti che il codice di rito ammette e nella definizione immediata di una strategia d’approccio alla vicenda processuale. L’assetto dell’indagine può variare sensibilmente in funzione della scelta di cooperare con l’inquirente o di limitarsi a una difesa “di risposta”, che miri a contestare la ricostruzione operata dall’accusatore. Da ciò dipende anche la forma che l’in­vestigazione assumerà e la strutturazione del polo investigativo, chiamato a valutare tutti i rischi interferenti e il bilancio costi/benefici di una ricostruzione approfondita delle dinamiche decisorie dell’ente. L’avvio del progetto di indagine interna è sollecitato, nella maggior parte dei casi, dalle componenti in-house (il responsabile della funzione di internal audit, il responsabile degli affari legali e, se esistente, il responsabile della compliance e della valutazione dei rischi), cui si aggiunge il fondamentale apporto dell’organismo di vigilanza, in tutti i casi in cui le aree di rischio sottoposte alla verifica del pubblico ministero lambiscano fattispecie di reato presupposto ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. In mancanza di una disciplina (o anche solo di un appiglio normativo) che consenta di identificare i possibili contenuti del progetto di indagine, è la prassi a rivelarne cadenze, oggetti e attori necessari. L’avvio dell’indagine esige la costruzione di un progetto mirante a definire l’ambito dell’attività investigativa, i soggetti da sottoporre a verifica all’interno dell’organizzazione (se noti), i componenti della squadra, le fonti dei dati e le tecnologie da utilizzare per la raccolta degli stessi. La corretta pianificazione delle finalità e del metodo costituisce un presupposto essenziale anche per la successiva utilizzabilità dei risultati ottenuti in chiave processuale. Si tratta, ad ogni modo, di scelte suscettibili di successiva correzione, quando i primi approfondimenti svolti suggeriscano di estenderne l’ambito, i protagonisti e di rafforzarne le modalità, sino alla scelta di ricorrere al “cappello” delle investigazioni difensive contemplate dalla legge processuale. Si [continua ..]


4. Tecniche d’indagine e buone prassi

Tipicamente, il piano d’indagine interna prevede il ricorso a molteplici attività di raccolta delle informazioni rilevanti, e, di regola, trae le mosse da un’analisi documentale, avente ad oggetto la segnalazione e gli elementi su cui questa si fonda. La ricerca e la successiva catalogazione di tali fonti di prova non incontra ostacoli di sorta in tutti i casi in cui la squadra investigativa abbia accesso ai luoghi, fisici o informatici, in cui esse siano conservate. Quando la documentazione sia custodita dai dipendenti dell’ente, è il datore di lavoro a poter accedere – nel rispetto della disciplina giuslavoristica [14] e con le dovute cautele poste dalla legge a salvaguardia della privatezza e della riservatezza – alle informazioni rilevanti (documentazione e corrispondenza cartacea, posta elettronica, archivi fisici o digitali), costituenti la memoria storica delle vicende connesse all’attività di impresa. Su esplicita richiesta, e previa informativa concernente le modalità di trattamento dei dati, i documenti richiesti devono esser messi a disposizione dell’investigatore (interno o esterno all’ente) [15]. La ricerca della documentazione utile all’indagine può essere, inoltre, svolta sui supporti digitali e informatici in uso ai dipendenti. In questa evenienza, può essere difficile operare il discernimento tra i documenti personali e quelli riguardanti la prestazione lavorativa. Anche l’analisi dei contenuti di posta elettronica incontra analoghi limiti, non potendosi acquisire il contenuto comunicativo riguardante la vita privata e familiare, per ovvie ragioni di tutela della riservatezza. La precarietà tipica del documento informatico o racchiuso in dispositivi digitali esige, in ogni caso, l’adozione di precauzioni di tipo tecnico che consentano di salvaguardare la genuinità del dato e permettano la ripetibilità del­l’estra­zione anche in futuro. Ciò avviene, di regola, mediante il ricorso a protocolli tipici di quella disciplina conosciuta come computer forensics, che “congelano” l’immagine del supporto informatico e ne permettono la consultazione in maniera sicura, impedendo la modifica della fonte. L’adozione di simili cautele, soddisfatta mediante il ricorso a complessi programmi informatici, consente di tracciare in maniera puntuale l’origine del [continua ..]


5. Il legal privilege alla prova del sistema

La natura tipicamente riservata dell’indagine interna solleva, poi, un tema – quello della salvaguardia delle informazioni strettamente confidenziali – particolarmente sensibile, che occorre ben inquadrare al fine di una efficace strutturazione del polo investigativo e del buon esito dell’esercizio di ricerca. Il nostro sistema processuale risulta infatti improntato a una diversa gradazione del livello di tutela della riservatezza delle informazioni e delle comunicazioni scambiate nel contesto del segreto difensivo e in quello puramente professionale: limite connaturato, in chiave finalistica, al potere di ricerca della prova da parte dello Stato o dei terzi legittimati dalla legge processuale [19]. Così si comprende come il difensore – munito di apposito mandato, anche solo per lo svolgimento di investigazioni difensive preventive ex art. 391-nonies c.p.p. – abbia titolo per invocare le particolari prerogative riconosciute dall’art. 103 c.p.p. a garanzia dell’effettività del diritto di difesa, contro le intrusioni investigative condotte mediante le ispezioni e le perquisizioni negli studi legali, i sequestri di materiale difensivo (ovunque esso sia rinvenuto), le intercettazioni di comunicazioni difensive, nonché il controllo e il sequestro della corrispondenza per ragioni di giustizia, a pena di inutilizzabilità dei dati illegittimamente acquisiti. Il professionista, in quanto tale, è – di contro – tenuto al solo segreto professionale: ciò, sul piano procedurale, si traduce nello jus opponendi sia in sede testimoniale secondo l’art. 200 c.p.p., sia nei confronti di un ordine di esibizione documentale confezionato nelle forme dell’art. 256 c.p.p., potendosi costui rifiutare di rivelare notizie o di consegnare atti, documenti, dati, informazioni, programmi informatici e ogni altra cosa di cui sia in possesso per ragioni professionali. Tuttavia, in assenza di una formale opposizione (ovvero nel caso in cui la documentazione sia rinvenuta altrove), nulla impedisce all’auto­rità giudiziaria di procedere al sequestro probatorio ex art. 253 c.p.p. A differenza di quanto avviene in altri Paesi (ad esempio negli Stati Uniti e nel Regno Unito [20]), l’ordinamento italiano non riconosce il carattere professionale all’attività del giurista d’impresa [continua ..]


6. Giustizia riparativa e indagini interne

La scelta di forme cooperative, nella ricerca di condotte inosservanti, definisce archetipi che si distanziano dall’idea dello Stato reattivo, che minaccia il proprio potere punitivo in maniera inesorabile ogniqualvolta sia scoperta una violazione di legge. Il capovolgimento di prospettiva segnato dall’esperienza delle corporate internal investigations, in chiave di responsabilizzazione dei presunti autori del fatto e della compagine collettiva di cui i medesimi sono espressione, ravvisa l’esigenza impellente di una nuova dimensione – relazionale e partecipativa – dell’approccio alla legalità d’impresa, che possa giustamente valorizzare le condotte di dissociazione e di prevenzione rispetto alla possibile commissione ulteriori illeciti, «puntando sul recupero di un rispetto delle norme per convinzione piuttosto che per costrizione» [30]. In particolare, la scelta di politica criminale sottesa al d.lgs. n. 231/2001 ha costituito il primo riuscito esperimento circa la possibilità di costruire gli incentivi in forma strutturalmente diversa rispetto al canone classico, che contempla (e per certi versi esige) la collaborazione processuale quale punto di partenza. L’idea di privilegiare la prevenzione, mediante forme di abbattimento e di controllo del rischio-reato consacrate nei modelli di organizzazione, gestione e controllo (art. 6 d.lgs. n. 231/2001), e il recupero della legalità smarrita in chiave “rimediale”, con la costruzione di un’attività post factum destinata a riparare le falle dei presidi e dei sistemi di controllo, sanciscono in questo senso il prevalere del paradigma riparativo, da intendersi come «lettura relazionale» [31] della risposta all’illecito oggetto di verifica. La centralità che il sistema processuale della responsabilità da reato degli enti riconosce alle condotte riparatorie – sia in termini di attenuazione del trattamento sanzionatorio (art. 12 d.lgs. n. 231/2001), sia avuto riguardo alla sterilizzazione dello strumentario interdittivo (art. 17 d.lgs. n. 231/2001) – lascia intendere come la matrice riparativa possa essere il terreno d’elezione per lo sviluppo di nuovi meccanismi che ridefiniscano la sbiadita idea di premialità spesso legata, anche in istituti di recente conio, alla deflazione processuale [32]. La Corte di cassazione, [continua ..]


7. Conclusioni, de jure condendo

L’assenza di uno statuto normativo delle indagini interne non ha impedito il consolidarsi di prassi virtuose in ambito domestico, riconducibili all’idea di una cooperazione volontaria del privato alla scoperta delle condotte inosservanti potenzialmente suscettibili di una verifica giurisdizionale. Il sistema processuale, tuttavia, predilige tipicità e stretta legalità, particolarmente in quegli snodi funzionali che definiscono l’assicurazione delle fonti probatorie e il successivo disvelamento dei risultati in sede procedurale. La scelta di “portare” il dossier investigativo in Procura è spesso accompagnata dall’idea di dover prima arrivare e ben spiegare le ragioni di una piena cooperazione, nella consapevolezza che solo un comportamento trasparente e proattivo può mitigare il rischio del coinvolgimento investigativo e – ciò che più conta – l’adozione di iniziative cautelari interdittive o reali (a tacer di quelle personali a carico della persona fisica). La descritta dimestichezza con gli strumenti di verifica e di controllo interno costituisce la condizione ideale di partenza per una regolamentazione correttiva della disciplina esistente, che – nel pieno rispetto dei princìpi di legalità e di obbligatorietà dell’azione – dia forma normativa all’utilizzo delle tecniche di investigazione attivate dal privato, oltre gli schemi propri del mandato di indagine difensiva vicaria al processo. Altre giurisdizioni continentali si stanno interrogando sul giusto equilibrio da individuare nel rapporto tra poteri pubblici e prerogative private. Così, lo Stato federale tedesco sta discutendo da mesi sulla necessità di introdurre, nel corpo normativo dedicato alla repressione degli illeciti societari (Verbandssanktionengesetz) [38], una serie di princìpi vincolanti per lo svolgimento delle internal investigations, in prospettiva di riduzione delle sanzioni applicabili all’ente collettivo. In particolare, i requisiti qualitativi indicati al § 17 del progetto di legge esigono: un contributo materiale che consenta la ricostruzione fattuale dell’illecito (die Verbandsstraftat aufgeklärt werden konnte); la natura indipendente della indagine interna, che non deve essere condotta dal difensore investito del potere di patrocinio innanzi l’autorità [continua ..]


NOTE
Fascicolo 5 - 2020