Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Domande del giudice e neutralità dell´esame (di Francesca Romana Mittica, Dottore di ricerca in Diritto pubblico – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)


Con la sentenza del 19 maggio 2020, n. 15331, la Suprema Corte ha assunto una posizione ferma circa l’annosa querelle sul se il giudice può interrogare il teste con metodi in grado di condizionare la risposta. Tale materia è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza che, sulla base di prassi fuorvianti, collocava le domande suggestive nel perimetro della legittimazione giudiziaria; mai sinora, in modo così univoco, si era giunti alla censura, per quanto si è ancora lontani dal sostenere che la violazione del divieto generi inutilizzabilità.

Judge questions and examination neutrality

With the ruling of 19 May 2020, no. 15331, the Supreme Court has taken a firm stand on the long-standing quarrels as to whether the judge can interrogate the witness with methods that can influence the response. This matter has been repeatedly addressed by jurisprudence which, based on misleading practices, placed suggestive questions within the perimeter of judicial legitimacy; never before has censorship been so unequivocally, although it is still far from claiming that the violation of the ban generates uselessness.

Il giudice non può formulare domande inquinanti Il divieto di formulare domande che possano nuocere alla sincerità delle risposte, nel duplice senso delle domande “suggestive” – che tendono a suggerire la risposta al teste ovvero forniscono le informazioni necessarie per rispondere secondo quanto desiderato dall’esaminatore, anche attraverso una semplice conferma – e delle domande “nocive” – finalizzate a manipolare il teste, fuorviandone la memoria, poiché gli forniscono informazioni errate e falsi presupposti tali da minare la stessa genuinità della risposta – deve applicarsi anche al giudice al quale spetta il compito di assicurare, in ogni caso, la genuinità delle risposte. [Omissis]   RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Genova, decidendo in sede di rinvio disposto con sentenza resa il 07/02/2018 dalla Corte di Cassazione, in parziale riforma della sentenza emessa in data 15/10/2014 dal Tribunale di Genova nei confronti di (OMISSIS), appellata dal pubblico ministero, ha dichiarato l’imputato colpevole anche del reato di cui all’art. 609-bis c.p. relativamente alle condotte poste in essere successivamente al (OMISSIS) e, ritenuta la continuazione con i fatti oggetto della sentenza impugnata e coperti dal giudicato, lo ha condannato alla pena complessiva di anni tre di reclusione, disponendo, in conseguenza, la revoca della sospensione condizionale della pena già concessa con la sentenza di primo grado. 2. L’iter processuale. Il Tribunale di Genova aveva condannato l’imputato alla pena di anni due di reclusione per il reato di cui all’art. 609-quater c.p., commesso nell’agosto 2009, ritenuta l’ipotesi lieve di cui al comma 4, in danno della minore (OMISSIS), nata il (OMISSIS), compagna di scuola di sua figlia, assolvendolo, invece, dalla contestazione relativa al compimento successivo di atti sessuali posti in essere nel 2010 nei confronti della stessa minore, allorquando costei aveva già compiuto quattordici anni. Con sentenza del 25/01/2017, la Corte di appello di Genova, in accoglimento dell’impugnazione del pubblico ministero, aveva, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ritenuto la responsabilità dell’imputato anche per il delitto di cui all’art. 609-bis c.p., relativo agli atti sessuali compiuti nei confronti della ragazza già quattordicenne, consistiti nel prenderle la mano tenendola ferma sui propri genitali. Lo condannava, pertanto, alla pena di quattro anni di reclusione. 3. La Terza sezione di questa Corte Suprema, investita del ricorso del (OMISSIS), annullava la predetta sentenza di appello sul rilievo che «la pronuncia di appello imponeva ai giudici del gravame di procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei confronti della p.o., sulla cui deposizione si era incentrata la [continua..]

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SOMMARIO:

1. Le domande vietate - 2. Gli interventi del giudice per l’audizione della fonte dichiarativa - 3. Il divieto del giudice di formulare domande nocive o suggestive - 4. La decisione della corte - 5. Inutilizzabilità come sanzione? - 6. Auspici di riforma - NOTE


1. Le domande vietate

Durante la dialettica dibattimentale per la formazione della prova dichiarativa, l’attuale disciplina prevede una serie di domande che, per modalità o per contenuto, non sono consentite né in sede di esame né di controesame. Non è possibile: usare metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti (art. 188 c.p.p.); interrogare sulla moralità dell’im­pu­tato, salvo che si tratti di fatti specifici, idonei a qualificarne i caratteri personologici in relazione al reato e alla pericolosità (art. 194, comma 1, c.p.p.); chiedere aspetti che servono a definire la personalità della persona offesa dal reato eccetto che il fatto dell’imputato debba essere valutato in relazione al comportamento di quella persona (art. 194, comma 2, c.p.p.); formulare domande sulle voci correnti nel pubblico e sugli apprezzamenti personali salvo che, in riferimento a queste ultime, sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti (art. 194, comma 3, c.p.p.); esaminare con modalità che possono nuocere alla sincerità delle risposte, c.d. nocive (art. 499, comma 2, c.p.p.); nel solo esame, ricorrere a domande che tendono a suggerire le risposte (art. 499, comma 3, c.p.p.). Nello specifico sono considerati nocivi [1] i quesiti che stimolano una risposta non in linea con gli intenti del dichiarante, perché adoperano un linguaggio non comprensibile per il testimone o suppongono un fatto non ancora oggetto di analisi oppure formulati su presupposti scientemente falsi. Si tratta di costrutti orientati ad indurre in errore l’interrogato sino a portarlo a mentire, per poi svelarne la sua menzogna. In questa categoria rientrano le domande maliziose, capziose o tendenziose e in genere tutte quelle che tendono ad influenzare la risposta, compromettendone la spontaneità, genuinità e veridicità. In particolare sono domande nocive le domande intimidatrici e le domande subornanti che, cioè, sottintendono rispettivamente minacce e lusinghe nei confronti del testimone, quelle che cercano di innervosire il teste [2] e, secondo alcuni, anche quelle implicative [3], cioè che danno per ammesso un fatto o circostanza che il teste non ha ancora riferito [4] nonché quelle trabocchetto [5], che fanno [continua ..]


2. Gli interventi del giudice per l’audizione della fonte dichiarativa

Per completezza, mette conto ricordare che la cross examination, scelta dal legislatore quale peculiare forma di escussione della fonte orale, sottratta di regola, al monopolio del giudice, costituisce una caratteristica fondamentale del nostro sistema accusatorio ed è ancorata a fonti gerarchicamente superiori al codice di rito, quali l’articolo 6, par. 3, lettera d), C.E.D.U., l’articolo 14, par. 3, lettera e) del Patto internazionale sui diritti civili e politici e l’art. 111, commi 3 e 4, Cost. Si tratta di un metodo di acquisizione della prova dichiarativa, disciplinato all’art. 499 c.p.p., lasciato alla libera azione delle parti e rispetto al quale il giudice non interviene o, perlomeno, non dovrebbe intervenire se non solo dopo l’esame incrociato delle parti. Su tale tema si sono sviluppate diatribe esegetiche tese ad individuare i confini dell’intervento d’ufficio [20], al di là delle considerazioni anzidette sulle domande suggestive: non soltanto in funzione di supplenza rispetto ad eventuali carenze dell’impianto accusatorio [21], ma anche in chiave autonoma, quale presupposto indispensabile alla pronuncia di una sentenza nel merito [22]. Orbene, l’art. 506, comma 2, c.p.p. (nel testo modificato dalla l. n. 479 del 1999) prevede il potere del presidente di rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici, alle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. e alle parti private solo dopo l’esame e il controesame. La natura di detto istituto vuole che l’intervento officioso del giudice abbia finalità chiarificatrice dei fatti oggetto del processo e svolga una funzione surrogatoria rispetto alle parti: in tanto trova la propria giustificazione in quanto non sia stato possibile ottenere le necessarie precisazioni mediante le domande già poste. Dunque, un intervento giudiziale anticipato, al di là del tipo di domande che verranno formulate, indipendentemente se vietate o non, altera il libero “gioco” delle parti attraverso cui la prova si forma. Di certo il giudice non può effettuare contestazioni al dichiarante ai sensi degli artt. 500 e 503 c.p.p.,non avendo egli la disponibilità dei verbali di dichiarazioni conservati nel fascicolo del pubblico ministero. Ciò che gli è consentito, esclusivamente in base ai risultati complessivi dell’istruzione [continua ..]


3. Il divieto del giudice di formulare domande nocive o suggestive

Con riguardo al comma 2 dell’art. 499 c.p.p. (domande nocive), la dottrina ha rilevato che, trattandosi di disciplina modellata in vista dell’interesse tutelato, senza alcuna definizione esemplificativa o altra indicazione dei criteri volti a individuare le domande capaci di mettere in pericolo tale interesse, il precetto è del tutto generico; esso si presta, da un lato, ad un eccesso di lassismo e, dall’altro, ad abusive restrizioni a seconda del punto di vista soggettivo e degli orientamenti ideologici (e psicologici) del titolare del potere di censura [35]. Peraltro, deve rilevarsi che è difficile, e forse impossibile, fissare preventivamente una tipologia esauriente di domande nocive, poiché una stessa domanda può essere o non essere tale a seconda del contesto in cui è proposta e del soggetto a cui è rivolta; sicché il precetto generico e aperto risulta uno strumento utile, ma delicatissimo, che postula prudenza e professionalità in chi è chiamato ad utilizzarlo. Pertanto, l’ambito delle domande nocive ha confini incerti. Ciò premesso, il loro divieto è di portata generale e, dunque, si applica ad ogni fase dell’esame incrociato e a tutti i soggetti processuali senza distinzione, per cui anche al giudice [36]. Diverso è per le domande suggestive che non determinano una costrizione o una lesione della libertà di autodeterminazione ma tendono solo a suggerire le risposte. Stando alla littera legis dell’art. 499 c.p.p., queste ultime dovrebbero considerarsi vietate solo per chi intrattiene un legame simpatetico con il soggetto deponente [37]; chi introduce un testimone per fornire prove circa fatti rilevanti ai fini della ricostruzione del reato, non può anche suggerirgli cosa e come rispondere, altrimenti si rischia di manipolare a proprio piacimento la genuinità della prova. Senza, poi, considerare i rischi derivanti dalle possibili dinamiche derivanti dall’accordo tra parte e teste. Alla luce dei “punti bui” del combinato disposto degli artt. 499, comma terzo, e 506, comma 2, c.p.p., non è chiaro, però, se il divieto delle domande suggestive esoneri l’esame condotto dal giudice oppure se costituisca un principio diretto a “proteggere” il testimone da qualsiasi influenza diversa da quella esercitata durante il controesame. Prima [continua ..]


4. La decisione della corte

La vicenda processuale attiene al ricorso in cassazione dell’imputato avverso la sentenza di secondo grado che, condannando l’imputato per il reato ex art. 609 bis c.p. ancorché il tribunale lo avesse assolto, aveva violato il principio della necessaria rinnovazione della prova dichiarativa [50]. In sede di rinvio la Corte di appello, osservando il dictum del giudice di legittimità, disponeva, così, la riassunzione della testimonianza della persona offesa. Senonché veniva nuovamente proposto ricorso per cassazione conclusosi con l’accoglimento dello stesso per difetto di motivazione, determinato da modalità di interrogare il teste vietate dalla legge in quanto ne hanno compromesso e influenzato le relative risposte: il giudice ha formulato, infatti, domande suggestive e nocive che si sono «riverberate, viziandola, sulla motivazione». La sentenza annotata ha, finalmente, ribaltato lo spirito autoritario coltivato dai precedenti e consolidati orientamenti, stabilendo che: «Il divieto di formulare domande suggestive… finalizzate a manipolare il teste, fuorviandone la memoria, poiché gli forniscono informazioni necessarie per rispondere secondo quanto desiderato dall’esaminatore, anche attraverso una semplice conferma, è espressamente previsto con riferimento alla parte che ha chiesto la citazione del teste. A maggior ragione, detto divieto deve applicarsi al Giudice al quale spetta il compito di assicurare, in ogni caso, la genuinità delle risposte.». Ed ecco che, durante il corso dell’esame testimoniale, il giudice deve mantenere un atteggiamento di equidistanza dalle parti: lo stesso, in forza dell’art. 111 Cost. e dell’art. 499, sesto comma, c.p.p., è organo imparziale, custode della legalità e della lealtà processuale [51]; «ove si ritenesse diversamente, si arriverebbe all’assurda conclusione che le regole fondamentali per assicurare una testimonianza corretta verrebbero meno» [52]. Dunque, appare precluso al giudice l’uso di domande dirette a suggerire la risposta, le quali, per un verso, producono effetti deleteri sul ricordo e sul racconto del testimone e, per altro, impediscono alle parti di svolgere le proprie strategie di esame o di controesame [53]. La Corte ha ora correttamente calibrato le diverse funzioni dei soggetti [continua ..]


5. Inutilizzabilità come sanzione?

Uno dei quesiti più controversi in materia di domande vietate è se sono inutilizzabili le relative risposte [56]. Nel tentativo di “sanare” la lacuna dell’art. 499 c.p.p., che non prevede un’esplicita sanzione processuale né per le domande nocive tantomeno per quelle suggestive, la dottrina tende a ritenerle inutilizzabili in virtù dell’art. 191 c.p.p. [57]. Tuttavia, per meglio dire, occorre richiamare la distinzione tra nocive e suggestive; infatti, atteso che la risposta è legata al quesito da un rapporto causa-effetto, ne deriva che, in ragione della loro diversa natura ed efficacia, tali domande non sono censurabili nello stesso modo [58]. Le prime, impedendo al testimone di esprimere il suo autentico pensiero, integrano una patologia assai più grave delle altre e, pertanto, se non tempestivamente censurate, determinano l’inutilizzabilità delle risposte. Si tratterebbe di dichiarazioni inesistenti perché eterodirette e, dunque, geneticamente incapaci ad orientare il convincimento giudiziale [59]. Diversamente, deve dirsi per le domande suggestive. Queste, dato che non distorcono le capacità del teste di ricordare e raccontare correttamente i fatti, ma semmai lo “direzionano”, non andrebbero sanzionate alla stregua delle nocive. Sul punto, tuttavia, si prospettano diverse soluzioni: da un lato, c’è chi sostiene che il testimone, quando risponde ad una domanda suggestiva non opportunatamente neutralizzata dalle parti avverse, darebbe luogo ad una nullità [60]. Dall’altro verso, invece, ci si interroga sulla possibilità di invocare l’inutilizzabilità, la qual cosa, com’è noto, dipende dall’in­ter­pre­tazione dell’art. 191 c.p.p., segnatamente dall’espressione “acquisite in violazione dei divieti stabiliti dal­la legge” [61]. È poco chiaro se per “prove acquisite” bisogna intendere anche quelle “ottenute” o solo quelle “am­messe”; laddove il lessico adottato dall’art. 191 c.p.p. vada inteso come prove ottenute allora la risposta ricevuta sulla base di una domanda non consentita è inutilizzabile [62]; se, viceversa, la disciplina censuri unicamente le prove ammesse in divieto di legge non vi sarebbe spazio per la sanzione quando la domanda al [continua ..]


6. Auspici di riforma

Il problema relativo alla conduzione dell’esame testimoniale da parte del giudice si acuisce nei giudizi dinanzi l’organo monocratico ove l’istruttoria assume connotazioni peculiari [71]. Secondo la giurisprudenza, l’esame diretto del giudice può fondarsi anche su di un consenso tacitamente prestato in ordine alla differente modalità di conduzione; inoltre, è riconosciuto un ampio potere discrezionale di integrazione probatoria [72]. Tale potestas si espande, poi, nell’ambito del processo innanzi al giudice di pace, ove l’art. 32, comma 1, d.lgs. 274 del 2000 dispone che «Sull’accordo delle parti, l’esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e delle parti private, può essere condotto dal giudice, sulla base delle domande e delle contestazioni proposte dal pubblico ministero e dai difensori» [73]. Occorre prendere atto della tendenza del legislatore a dare spazio all’intervento officioso del giudice; ma occorre evidenziare come appaia difficile giustificare tale scelta con il principio della formazione della prova nel contraddittorio tra le parti, ai sensi dell’art. 111, comma 4, Cost. Il quadro complessivo consente di trarre alcune considerazioni di carattere sistematico. Anzitutto, manca quel dinamismo incalzante delle domande e delle risposte che contribuisce a raggiungere un risultato proveniente dal ruolo esercitato dalle parti a confronto. Inoltre, l’intervento del giudice rischia di indirizzare il testimone verso una data risposta minando la legalità dell’itinerario probatorio. In altri termini, il pericolo consiste nell’annullare la funzione di gnoseologia assolta dall’esame incrociato, con un ritorno ad un procedimento dove il giudice assume un ruolo di primo piano nella formazione della prova. È indiscutibile che la formula impiegata dal codice continui a lasciar aperti dubbi. È, pertanto, auspicabile che il legislatore intervenga per fare chiarezza, magari scomponendo il disposto dell’art. 499, c.p.p. in tre distinte costruzioni: una prima, dal carattere generale, in cui si fa divieto di domande suggestive in esame diretto; la seconda volta ad ammettere eccezioni per il teste ostile nonché per il controesame; e una terza diretta a disciplinare gli effetti del divieto. Similmente, bisognerebbe stabilire con accuratezza in cosa consistono le domande [continua ..]


NOTE
Fascicolo 5 - 2020