Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


La Corte costituzionale apre al divieto di retroattività del novum penitenziario in malam partem (di Caterina Scaccianoce, Ricercatrice di Procedura penale - Università di Palermo)


Con una sentenza coraggiosa la Corte costituzionale estende la portata applicativa dell’art. 25, comma 2, Cost. al settore dell’esecuzione della pena: censurando il diritto vivente, sancisce il divieto di retroattività delle modifiche peggiorative introdotte dalla legge n. 3 del 2019 ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente alla sua entrata in vigore. L’Autrice, dopo essersi soffermata sulla nuova concezione della “legalità europea”, ripercorre i passaggi salienti della decisione, da cui trae l’innovativo messaggio del Giudice delle leggi.

The Constitutional Court opens to the prohibition of retroactivity of the new unfavorable penitential law

With a courageous judgment, the Constitutional Court extends the application scope of art. 25, par. 2, Cost. in the criminal enforcement sector. Censoring the living law, the Court states the prohibition of the retroactivity of the measures more afflictive introduced by law no. 3 of 2019 to convicts who committed the fact before its entry into force. The Author, after dwelling on the new paradigm of "European legality", retraces the salient passages of the decision, from which it draws the innovative message of the Judge of the laws.

L. n. 3 del 2019: illegittima l'applicazione retroattiva delle modifiche in peius sulla natura delle pene da scontare È costituzionalmente illegittimo l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale; È costituzionalmente illegittimo l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso. [omissis]   CONSIDERATO IN DIRITTO 1.– Le undici ordinanze di rimessione indicate in epigrafe, che è opportuno riunire ai fini della decisione, sollevano tutte questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici). Secondo i rimettenti, tale disposizione sarebbe costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che le modifiche da essa apportate all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino soltanto ai condannati per fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. 1.1.– Più in particolare, le ordinanze iscritte ai numeri 114, 157, 210 e 220 del r.o. 2019 sono state pronunciate da tribunali di sorveglianza investiti di istanze di concessione di benefici o misure alternative alla detenzione (permesso premio, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare) da parte di condannati per reati contro la pubblica amministrazione, commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. Tali reati risultano ora inseriti – [continua..]

» Per l'intero contenuto effettuare il login

inizio


SOMMARIO:

1. La questione - 2. Una pronuncia che si allinea alle suggestioni e allo spirito europei - 3. Il ruolo dei giudici comuni e della Corte costituzionale nel reinterpretare il diritto vivente - 3. Il ruolo dei giudici comuni e della Corte costituzionale nel reinterpretare il diritto vivente - 4. I passaggi salienti della sentenza - 5. L’audace messaggio della Corte - 6. Il valore celato che fa da sfondo alla decisione: il principio di affidamento - 7. I valori trascurati: la disparità di trattamento e la finalità rieducativa della pena - NOTE


1. La questione

Non è infrequente che il legislatore, di proposito o incautamente, tralasci di prevedere, a corredo di una novella che apporta modifiche al rito penale, una normativa transitoria o intertemporale singolare, che, nel primo caso, detti regole ad hoc, di immediata applicazione, alle situazioni createsi sotto la vecchia disciplina ma non ancora esauritesi al sopravvenire della nuova, o che, nel secondo caso, si limiti a indicare i criteri in base ai quali stabilire, in rapporto alle diverse situazioni, se applicare la legge previgente oppure la nuova [1]. La mancanza di disposizioni specifiche impone l’applicazione dei principi generali di diritto intertemporale variamente dislocati a livello costituzionale e a livello di legge ordinaria per regolare il fenomeno della successione delle leggi, vale a dire il principio di irretroattività in malam partem e quello della retroattività favorevole. Principi in base ai quali la giurisprudenza, almeno fino ad oggi, era approdata a una lettura stabile e consolidata che, secondo un’impostazione prettamente formalistica [2], perimetrava l’area di operatività del principio di irretroattività della norma sfavorevole alle disposizioni di diritto penale sostanziale, escludendovi quelle di diritto processuale penale o quelle appartenenti alla disciplina della esecuzione della pena, per le quali invece ad operare doveva essere la regola dell’efficacia immediata, meglio conosciuta con la formula tempus regit actum [3]. La Corte costituzionale, con la decisione in commento, muovendo dal presupposto che i tempi sono ormai maturi per una rimeditazione dell’assetto consolidatosi nel diritto vivente, interviene proprio sui predetti confini operativi, inaugurando un approccio, di stampo sostanzialistico, che, estendendo l’irretroattività anche alle norme di diritto penitenziario che incidono in peius sulle modalità di esecuzione della pena, tende a congelare quei diritti e quelle garanzie riconosciuti, sotto la vigenza della precedente normativa, ai diversi soggetti processuali direttamente coinvolti dal novum legislativo [4]. Oggetto della sentenza qui in analisi è la riforma introdotta dalla recente e assai discussa legge c.d. Spazzacorrotti, che ha incluso nel catalogo previsto all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., diverse fattispecie di delitti contro la pubblica [continua ..]


2. Una pronuncia che si allinea alle suggestioni e allo spirito europei

Va subito rimarcato come la decisione in oggetto rappresenti un approdo ermeneutico inedito, per certi versi innovativo, che sembra compendiare le nuove frontiere via via affiorate negli ultimi decenni del principio di legalità, nelle sue declinazioni legate, da un lato, al profilo rigorosamente formale e, dall’altro, alle ragioni sostanziali che ne stanno alla base. Nuovi confini che, avendo ricadute pratiche di non poco rilievo, intercedono in melius sulla garanzia dei diritti del cittadino, valorizzandone i profili più strettamente garantistici. È noto che il pendolo tra il giudice e la legge oscilla costantemente – come è stato sapientemente affermato – tra l’aspirazione alla rigida soggezione del primo alla seconda e l’esigenza logica che il senso della legge venga definito dal giudice con il ricorso agli strumenti ermeneutici onde cogliere appieno la ratio di giustizia in relazione al caso concreto [6]. Da qui la sempre più “intensa” attività dei giudici volta ad allargare o restringere gli argini della legge scritta [7], in virtù di un potere nomopoietico, che gli stessi rivendicano quale espressione della propria «autonomia», pure quando ne fanno un uso al di fuori della griglia di una corretta ermeneutica dovendo rimediare a ritardi od omissioni del legislatore chiamato a rispondere alle domande di giustizia provenienti dal corpo sociale [8]. In tale contesto si inserisce il ruolo della Corte costituzionale chiamata a vagliare la legittimità della norma, anche nel suo significato “vivente”, ancorché, come opportunamente segnalato, «guardare all’atteso intervento correttivo o catartico della Consulta come ad una sorta di tempo supplementare del percorso legislativo, rappresenta una pericolosa distorsione degli equilibri istituzionali o di quel che ne resta» [9]. Per tale via, nella pronuncia in commento il giudice delle leggi corregge le negligenze di un legislatore alla ricerca di una consensualità sociale sempre più ampia e diffusa, che, sospinto da istanze repressive di matrice populista, innesta nel sistema meccanismi di inasprimento punitivo dagli effetti deformanti, primo fra tutti «un più elevato livello di carcerazione» [10]; meccanismi che esigono ‘correttivi’ immediati all’insegna del recupero [continua ..]


3. Il ruolo dei giudici comuni e della Corte costituzionale nel reinterpretare il diritto vivente

Prima di percorrere i passaggi salienti della decisione in esame, qualche cenno meritano i rapporti tra Corte costituzionale e giudici comuni nell’opera ermeneutica cui sono chiamati a svolgere, onde individuare la tecnica decisoria scelta per la soluzione delle questioni qui affrontate tra quelle previste dal sistema per giungere a quell’equilibrio dinamico che consente di conformare l’ordinamento alle istanze sociali, mediante una lettura condivisa che sia costituzionalmente e convenzionalmente conforme. Come detto, la Corte si è ritrovata a dovere decidere in merito alla legittimità costituzionale delle modifiche all’art. 4-bis ord. penit. introdotte dalla legge n. 3 del 2019, nell’ambito della quale il legislatore ha omesso di prevedere un congegno intertemporale che ne precluda l’immediata applicabilità ai condannati per fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, con la conseguente estensione degli effetti deteriori del novum legislativo anche nei confronti di costoro, in conformità ai principi elaborati dal diritto vivente. Ebbene, la decisione in commento ha la forma di una sentenza interpretativa di accoglimento, con cui la Corte, lasciato inalterato il testo normativo, ha difeso la Costituzione censurando da quel testo, poiché illegittimi, i significati tratti dal formante giurisprudenziale consolidatosi sino a quel momento. Come noto, interpretare nel segno della Costituzione non è compito esclusivo della Corte [20]. L’incidente di costituzionalità può, infatti, non essere promosso là dove il giudice comune, esercitando lui stesso il controllo costituzionale, decida di operare la reductio ad legitimitatem in via interpretativa della normativa sospettata di illegittimità. Nel nostro sistema, infatti, coesistono due prospettive: da un lato, l’interpretazione secundum constitutionem affidata alla Corte, dall’altra, l’interpretazione adeguatrice propria della fase diffusa, che deve essere ricercata e identificata ad opera dei singoli giudici, anche in contrasto con il “diritto vivente”, senza l’intervento della Corte. Ciò è prova che i giudici sono chiamati a partecipare a pieno titolo al controllo di costituzionalità delle leggi e che la loro attività interpretativa non è più ricerca della ratio [continua ..]


3. Il ruolo dei giudici comuni e della Corte costituzionale nel reinterpretare il diritto vivente

Prima di percorrere i passaggi salienti della decisione in esame, qualche cenno meritano i rapporti tra Corte costituzionale e giudici comuni nell’opera ermeneutica cui sono chiamati a svolgere, onde individuare la tecnica decisoria scelta per la soluzione delle questioni qui affrontate tra quelle previste dal sistema per giungere a quell’equilibrio dinamico che consente di conformare l’ordinamento alle istanze sociali, mediante una lettura condivisa che sia costituzionalmente e convenzionalmente conforme. Come detto, la Corte si è ritrovata a dovere decidere in merito alla legittimità costituzionale delle modifiche all’art. 4-bis ord. penit. introdotte dalla legge n. 3 del 2019, nell’ambito della quale il legislatore ha omesso di prevedere un congegno intertemporale che ne precluda l’immediata applicabilità ai condannati per fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, con la conseguente estensione degli effetti deteriori del novum legislativo anche nei confronti di costoro, in conformità ai principi elaborati dal diritto vivente. Ebbene, la decisione in commento ha la forma di una sentenza interpretativa di accoglimento, con cui la Corte, lasciato inalterato il testo normativo, ha difeso la Costituzione censurando da quel testo, poiché illegittimi, i significati tratti dal formante giurisprudenziale consolidatosi sino a quel momento. Come noto, interpretare nel segno della Costituzione non è compito esclusivo della Corte [20]. L’incidente di costituzionalità può, infatti, non essere promosso là dove il giudice comune, esercitando lui stesso il controllo costituzionale, decida di operare la reductio ad legitimitatem in via interpretativa della normativa sospettata di illegittimità. Nel nostro sistema, infatti, coesistono due prospettive: da un lato, l’interpretazione secundum constitutionem affidata alla Corte, dall’altra, l’interpretazione adeguatrice propria della fase diffusa, che deve essere ricercata e identificata ad opera dei singoli giudici, anche in contrasto con il “diritto vivente”, senza l’intervento della Corte. Ciò è prova che i giudici sono chiamati a partecipare a pieno titolo al controllo di costituzionalità delle leggi e che la loro attività interpretativa non è più ricerca della ratio [continua ..]


4. I passaggi salienti della sentenza

La decisione della Corte presenta un iter argomentativo assai articolato. Muovendo da una disamina degli indirizzi interpretativi, sia a livello costituzionale sia a livello di legittimità, sul tema della possibile ultrattività delle modifiche in peius della disciplina dell’esecuzione della pena, il giudice delle leggi amplia il panorama ermeneutico in materia, non solo rinviando alle più calzanti pronunce sovranazionali, ma anche ricorrendo a letture comparatistiche. Il quadro che ne deriva risulta al quanto composito e ricco di sfumature. La Corte rammenta come, già in passato, sia stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità degli effetti retroattivi delle modifiche in peius che negli anni hanno interessato la disciplina dell’esecuzione penale, e come in tali occasioni abbia misurato la legittimità della nuova normativa su parametri costituzionali diversi dall’art. 25, comma 2, Cost., ossia sugli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. [26]. Quindi, ci si sofferma sulla sentenza n. 273 del 2001 e sulle ordinanze n. 108 del 2004 e n. 28 del 2001, ove, invece, il giudice delle leggi ha affrontato la questione se il principio di irretroattività ex art. 25, comma 2, Cost. fosse circoscritto alle sole norme che creano nuovi reati o modificano in peius gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonché la specie e la durata delle sanzioni edittali, oppure fosse riferito anche alle norme che disciplinano le modalità di espiazione della pena detentiva. Nell’occasione era stata sancita l’estraneità di tutte le modifiche in peius della disciplina in materia di esecuzione al raggio offerto dal principio di legalità, con la precisazione che, nella specie, la disciplina censurata si sarebbe limitata a introdurre un criterio legale di valutazione del requisito, rappresentato dalla collaborazione processuale, senza modificare in peius la disciplina sostanziale della liberazione condizionale. Segue una rassegna della giurisprudenza di legittimità, dove invece è netto l’orientamento che esclude dall’alveo dell’art. 25, comma 2, Cost., le norme dell’esecuzione della pena, in quanto disposizioni che non hanno carattere di norme sostanziali e che di conseguenza soggiacciono al principio tempus regit actum, in assenza di specifica disciplina [continua ..]


5. L’audace messaggio della Corte

La Corte, con coraggio e abilità ermeneutica, ha dunque deciso di compiere un importante revirement su un tema cardine del sistema penale, da sempre affrontato dalla giurisprudenza con rigore formalistico, tale da essere non di rado tacciato di irragionevolezza. Come detto, al centro della decisione v’è il principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost., quale sintesi di più principi, tra cui la irretroattività della legge penale, nella duplice veste di divieto di applicare retroattivamente una legge che incrimina un fatto in precedenza penalmente irrilevante, e di divieto di applicazione retroattiva di una legge che prevede una pena più severa per un fatto già in precedenza incriminato. È fuor di dubbio che tale principio faccia ormai parte del nucleo più essenziale del patrimonio di diritti fondamentali riconosciuti alla persona umana [32]. Per completezza va aggiunto come, sebbene non sancito esplicitamente tra le norme di rango primario, vi sia anche il diverso principio di retroattività della norma più favorevole al reo, consacrato all’art. 2, commi 2, 3 e 4, c.p., secondo il quale in ossequio al favor libertatis, al cittadino deve essere assicurato il trattamento penale più mite tra quello previsto dalla legge penale vigente al momento della realizzazione del fatto e quello previsto dalle leggi successive, purché precedenti la sentenza definitiva di condanna [33]. La ratio sottesa a entrambi i principi de quibus appare tuttavia identica, potendosi rilevare che, nel­l’uno e nell’altro caso, «all’ordinamento sta a cuore di garantire al singolo la libertà o, comunque, maggiori spazi di libertà» [34]. Invece, risulta diversamente calibrata la tenuta degli stessi a fronte di altri interessi in gioco. Mentre, infatti, l’irretroattività della legge più sfavorevole è principio assoluto, come tale non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali, la retroattività della norma più favorevole è derogabile in virtù della prevalenza che su di essa possono darsi a esigenze diverse, come quelle di economia processuale e di certezza dei rapporti ormai esauriti, assunte come prioritarie rispetto a quella di evitare disparità di trattamento. D’altronde è lo stesso [continua ..]


6. Il valore celato che fa da sfondo alla decisione: il principio di affidamento

Se si scorrono le ordinanze di rimessione può rintracciarsi il file rouge che le accomuna: il costante e accorato appello al principio di affidamento che si assume violato. Sul principio de quo viene, infatti, rammentato che esso imporrebbe la cristallizzazione del trattamento sanzionatorio irrogabile all’autore del reato, sotto il profilo dell’entità e qualità della pena, al momento della commissione del fatto o, quantomeno, del passaggio in giudicato della sentenza di condanna; che l’esigenza costituzionale di salvaguardare il principio dell’affidamento troverebbe riscontro nella più recente giurisprudenza costituzionale, che avrebbe evidenziato l’estensibilità del divieto di irretroattività della legge sfavorevole, di cui all’art. 25, comma 2, Cost., anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo (si cita al riguardo la sentenza n. 223 del 2018); che la modifica in senso sfavorevole della portata dell’art. 4-bis ord. penit., realizzata dal censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, vanificherebbe il legittimo affidamento del condannato a ottenere la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva di durata inferiore a quattro anni (come quella in specie irrogata), con conseguente ulteriore violazione degli artt. 117, comma 1, Cost. e 7 CEDU, già evidenziata dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, nella sentenza n. 12541 del 2019; che la mancata previsione, ad opera del censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, di una disciplina transitoria, determina una lesione del­l’affidamento dell’imputato, in riferimento sia al trattamento sanzionatorio applicabile (che da extramurario diverrebbe necessariamente carcerario), sia alle strategie perseguibili in giudizio, atteso che l’interessato – giudicato anteriormente all’entrata in vigore della novella – non avrebbe potuto prospettarsi la necessità di collaborare con la giustizia, ai sensi dell’art. 58 ter ord. penit., nel corso delle indagini o del processo, al fine di fruire della possibilità di accesso a misure alternative alla detenzione, secondo il restrittivo regime delineato dall’art. 4-bis ord. penit.; che la disciplina censurata determina una lesione dell’affidamento del reo, suscettibile di trasmodare in [continua ..]


7. I valori trascurati: la disparità di trattamento e la finalità rieducativa della pena

A chiusura di queste veloci riflessioni non nuoce indugiare su un vulnus che sembra trapelare dalle ragioni della Corte, lì dove, nel dichiarare l’incostituzionalità della legge n. 3 del 2019 perché in contrasto con il principio di legalità, ritiene assorbiti i profili di ammissibilità e di merito di tutte le ulteriori censure prospettate in riferimento ad altri parametri costituzionali. Tra questi non può non farsi cenno alla parità di trattamento e alla finalità rieducativa della pena, entrambi evocati dai giudici rimettenti [51], oltre che utilizzati dalla giurisprudenza costituzionale precedente per arrestare le ricadute afflittive provocate dall’efficacia immediata di modifiche peggiorative delle modalità di esecuzione della pena sui condannati che avevano già iniziato un percorso rieducativo Quel che emerge dalla giurisprudenza del giudice delle leggi è, invero, che la funzione rieducativa della pena implica come il percorso trattamentale non possa subire regressioni non ascrivibili alla condotta del condannato. Sul punto, come accennato, la Corte, facendo leva proprio sugli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., ha in più occasioni invalidato le applicazioni retroattive di novità legislative da cui conseguiva l’azzeramento o la regressione della rilevanza di percorsi rieducativi già avviati [52]. In ragione di ciò una parte della dottrina [53] si è domandata perché, se è illegittimo bloccare, con applicazione retroattiva, la prosecuzione di un percorso rieducativo già avviato fuori del carcere, non sia altrettanto illegittimo impedire la partenza di un percorso rieducativo non ancora iniziato, che la misura della pena da espiare consentirebbe di cominciare senza passare per il carcere. All’uopo la medesima dottrina ha individuato, quali parametri plausibili per porre la questione di legittimità costituzionale, da circoscrivere, in ogni caso, alle misure alternative alla detenzione, non l’art. 25, comma 2, Cost., bensì gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., di per sé reputati sufficienti, essendo, le misure suddette, istituti congegnati nella prospettiva dell’art. 27, comma 3, Cost., che, in quanto innestati nel sistema come nuovi possibili percorsi dell’espiazione della pena, sono relativi «a modalità del punire, non del [continua ..]


NOTE
Fascicolo 5 - 2020