Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione ha affermato l’acquisibilità, ai sensi dell’art. 234 c.p.p., della consulenza tecnica svolta in un processo civile non concluso con sentenza irrevocabile in quanto, in quella sede, la consulenza non è considerata un mezzo di prova, bensì un mero strumento di ausilio del giudice, con la conseguenza che non deve applicarsi la disciplina della circolazione probatoria, contemplata dall’art. 238 c.p.p. Tale impostazione sottende tuttavia il rischio di un aggiramento delle regole costituzionali in punto di formazione della prova.
The Supreme Court ruled that the technical advice carried out in a civil trial not yet decided with a definitive judgment can be acquired in the criminal trial as a document, because it is not a means of evidence, but a simple tool that helps the civil judge in the decision. For this reason, the rules on circulation evidence must not be applied. This approach hides the risk of a circumvention of the constitutional principles relating to evidence.
La questione - Il quadro normativo di riferimento - L’impostazione formale della giurisprudenza - NOTE
Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione ha annullato senza rinvio per estinzione del reato per prescrizione la pronuncia della Corte di appello di Potenza, che aveva confermato la condanna emessa dal Tribunale di Lagonegro nei confronti di un soggetto imputato del delitto di lesioni personali colpose con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro. Tra i vari motivi di ricorso presentati avverso la pronuncia della Corte lucana, l’imputato lamentava l’utilizzazione, senza il suo consenso, di una consulenza grafologica svolta nell’ambito di un giudizio di lavoro non ancora definito con sentenza passata in giudicato. Tale prova, in particolare, attestava il carattere apocrifo delle firme apparentemente apposte dalla persona offesa in calce alle dichiarazioni di ricevuta dei dispositivi di protezione individuale, che, nella tesi dell’accusa, l’imputato aveva omesso di fornire ai dipendenti. Il Giudice di legittimità ha dichiarato in poche righe l’infondatezza del motivo di ricorso, evidenziando l’utilizzabilità della prova e richiamando, a sostegno della decisione, altre due pronunce, che hanno affermato l’acquisibilità nel processo penale, ai sensi dell’art. 234 c.p.p., della consulenza tecnica depositata in quello civile, ancorché non concluso con una sentenza irrevocabile, data la sua natura di prova documentale [1]. Quest’ultime sentenze rilevano come, sulla base della normativa processualcivilistica, la consulenza non appartenga alla categoria dei mezzi di prova, costituendo un mero ausilio del giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che richiedono specifiche competenze tecniche. Ne deriva che l’acquisizione della medesima in sede penale non deve avvenire a norma dell’art. 238 c.p.p., riferito ai verbali di prove assunte nel giudizio civile, ma secondo le regole che presiedono all’assunzione della prova documentale. La consulenza, infatti, deve essere considerata alla stregua di un documento stante il suo essere rappresentativo di situazioni e di cose e la sua formazione al di fuori del procedimento penale. L’orientamento in questione, suscettibile di comprimere le garanzie apprestate dall’ordinamento in punto di formazione delle prove, merita di essere sottoposto ad un’attenta analisi.
A differenza del codice Rocco che, ispirato ad una logica inquisitoria, dedicava alla prova documentale una disciplina scarna in ragione del carattere prevalentemente scritto del processo [2], il codice di rito del 1988 muove da una prospettiva diametralmente opposta. Nell’ambito di un processo (almeno nelle ambizioni) improntato all’oralità, il documento da regola diventa eccezione, con la conseguenza che, onde evitare l’apertura di «una breccia non indifferente nel sistema congegnato al fine di garantire l’oralità e l’immediatezza del dibattimento», il legislatore ha ritenuto utile «fissare strumenti concettuali chiari, idonei a orientare l’interprete sul piano applicativo» [3]. Pur nella consapevolezza dell’opportunità di privilegiare le prove costituende, il codice di rito non si è limitato a disciplinare le prove documentali in senso stretto, intese come «res preesistenti al di fuori ed indipendentemente al processo» [4], ma ha incluso nel capo dedicato ai documenti anche i verbali di prove di altri procedimenti, la cui acquisizione è regolata dall’art. 238 c.p.p. Questa scelta, motivata dalla volontà di ovviare agli inconvenienti della trattazione separata dei procedimenti e di favorire la circolazione del materiale probatorio, ha destato non poche perplessità [5]: da un lato, dalla stessa sistematica del codice, che dedica agli atti del procedimento una normativa ad hoc contenuta in un apposito libro, si evince che l’oggetto rappresentato dal documento, per ricadere nella nozione di cui all’art. 234 c.p.p., deve essere un atto compiuto fuori dal contesto processuale [6]; dall’altro, l’art. 238 c.p.p. annovera tra i documenti i verbali, cioè atti che descrivono un’attività processuale, formati nell’ambito di un processo – penale o civile che sia – diverso da quello in corso di svolgimento [7]. Sennonché, tali verbali condividono con il documento unicamente «la formazione esterna e cronologicamente anteriore rispetto al procedimento nel quale confluiscono», non potendo pertanto essere assimilati al genus del mezzo di prova in esame [8]. In altre parole, accanto alla categoria della «“prova documentale-precostituita”» vera e propria, si pone quella della «“prova [continua ..]
Nell’intricato quadro normativo ora descritto si inserisce quella giurisprudenza, di cui la sentenza in commento è espressione, che, in dispregio dei (pur criticabili) presidi di tutela predisposti dall’art. 238 c.p.p., ritiene che la consulenza tecnica svolta in un processo civile possa essere acquisita in quello penale come prova documentale ai sensi dell’art. 234 c.p.p. Il problema posto da questo tipo di pronunce non è affatto secondario, atteso che, al contrario degli auspici della dottrina, la consulenza proveniente dal processo civile non è utilizzata soltanto per dimostrare che in quella sede è stato richiesto un parere tecnico e sono state compiute determinate attività, ma anche per provare i fatti sottesi a quegli accertamenti [31]. E la decisione in esame ne è un esempio lampante, dato che il parere dell’esperto è stato sfruttato non già per attestare l’intervento del consulente nell’altro processo, bensì per affermare la natura apocrifa delle firme apposte in calce alle dichiarazioni di ricevuta dei dispostivi di protezione individuale che l’imputato non aveva fornito ai propri dipendenti. L’intuizione su cui tale orientamento si fonda è che, in ambito civilistico, la consulenza tecnica non è considerata un mezzo di prova, bensì un mero strumento di ausilio del giudice nella valutazione delle prove, con il corollario che ben può essere acquisita come qualsiasi altra res formatasi al di fuori del procedimento penale. Invero, a livello processualcivilistico tale assunto è tutt’altro che pacifico. Certo, l’art. 61 c.p.c. definisce il consulente tecnico come un ausiliare del giudice, che può avvalersene, ove necessario, «per il compimento di singoli atti o per tutto il processo». Pertanto, almeno formalmente, la consulenza tecnica non è qualificata come un mezzo di prova. Tuttavia, è stato osservato come tale figura, nel suo ruolo di esperto, possa assumere una duplice funzione, una “percipiente” e una “deducente” [32]. Nella prima veste, il consulente, dotato di particolare competenza, «fornisce al giudice, con l’impiego dei necessari metodi o strumenti scientifici e tecnici, la conoscenza di fatti o di elementi di fatto, che altrimenti i litiganti ed il giudice medesimo – portatori gli uni, ed [continua ..]