Il legislatore del 2017, al fine primario di recepire a livello normativo le indicazioni emerse nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ha stabilito che, in caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (art. 603, comma 3-bis, c.p.p.). In seguito, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, implementando tale dato normativo, hanno affermato che anche la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento costituisce una prova dichiarativa; di conseguenza, ove essa risulti decisiva, il giudice di appello ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento della stessa. A tal riguardo, l’Autore, partendo dall’analisi di una recente pronuncia di legittimità volta a ribadire la portata ed i limiti del suddetto obbligo di rinnovazione probatoria in appello, intende svolgere alcune riflessioni critiche in ordine alla questione della tutela del diritto di difesa e del contraddittorio sulla formazione della prova, nel caso di un giudizio di secondo grado che dovesse concludersi con il ribaltamento dell’esito assolutorio della prima istanza.
In 2017 the Italian legislator, for the primary purpose of incorporating in the normative provisions the indications emerged in the Strasbourg Court’s case law, has established that the judge provides the renewal of the trial evidentiary hearing, in the event of an appeal by the public prosecutor against an acquittal for reasons regarding the assessment of the declarative evidence. Afterwards, the United Sections of the Court of Cassation, implementing this legislative rule, have stated that also the testimony given by the expert witnesses during the trial hearing constitutes declarative evidence. Consequently, if this evidence is decisive, the appellate judge has the obligation to proceed with the renewal of the trial evidentiary hearing, in the case of acquittal’s reform based upon a different assessment of the same one. In this respect, the paper starts from the analysis of a recent decision by the Supreme Court, aimed at reiterating the scope and limits of the aforementioned obligation of renewal of evidence in appeal, in the case of reformatio in peius of a first instance acquittal. Therefore, the Author carries out some critical reflections regarding the question of the protection of the right of defence and to cross-examination on the formation of evidence, in the event of an appeal judgment that should end with a sentence overturning the acquittal of the first instance.
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La premessa - Il caso - La nuova fisionomia della rinnovazione probatoria in appello nel caso di riforma di una sentenza assolutoria di primo grado - La reformatio in peius di una sentenza assolutoria di primo grado e lesame del perito o del consulente tecnico: la portata ed i limiti della rinnovazione istruttoria in appello - Le riflessioni conclusive - NOTE
La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello rappresenta un istituto giuridico di notevole rilievo nell’economia funzionale del sistema processuale penale, che, soprattutto negli ultimi anni, è stato al centro di un fervido dibattito sia in dottrina sia in giurisprudenza, attirando l’attenzione anche del legislatore italiano, il quale, solo poco tempo fa, è intervenuto proprio sulla norma del codice di rito che regola i presupposti fondanti l’integrazione probatoria nel giudizio di secondo grado. In verità, il tema della rinnovazione della prova in appello suscita, da sempre, un vivo, profondo e variegato interesse nella cultura giuridica e tra gli operatori del diritto, perché riguarda direttamente la fisionomia e il ruolo, nonché l’essenza più autentica, del giudizio di secondo grado. Del resto, sia pure in un panorama concettuale assai articolato, e messe da parte le (ambiziose) tesi favorevoli alla radicale abolizione dell’appello del pubblico ministero [1], sono fondamentalmente due le posizioni che si registrano in ordine alla configurazione del giudizio di appello in criminalibus: l’una tesa ad assicurare che il secondo grado offra le medesime garanzie del primo giudizio (novum iudicium) [2]; l’altra, volta a garantire che il secondo grado risponda ad una logica di controllo, senza possibilità alcuna di una mera reiterazione dei giudizi (revisio prioris instantiae) [3]. Come è noto, il legislatore del codice di rito penale del 1988 ha scelto di mantenere il principio della generale appellabilità delle sentenze anche nel riformato sistema processuale, nonostante, comunque, fosse radicalmente mutata l’ideologia giuridica di riferimento [4]. Tuttavia, ammettere che la decisione assunta al termine di un dibattimento improntato fondamentalmente ai canoni del “giusto processo” (consacrati testualmente nell’art. 111 Cost.) – nel quale, ossia, le prove sono state formate nel rispetto dei principi del contraddittorio e della oralità-immediatezza, con correlativa esclusione, di regola e per quanto possibile, del materiale raccolto nelle fasi precedenti – possa essere non solo riformata, ma addirittura ribaltata da un successivo giudizio, essenzialmente “cartolare”, si è rivelata, senza dubbio, una scelta eccentrica rispetto alla coerenza [continua ..]
La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di secondo grado, nonostante l’interpolazione apportata all’art. 603 c.p.p., suscita ancora significative questioni interpretative, che interessano la configurazione strutturale e la concezione stessa del giudizio di appello, nonché, più in generale, il rispetto dei diritti e delle garanzie fondamentali dell’individuo nell’ambito del processo penale. A tal riguardo, un esempio palese delle rilevanti problematiche applicative che possono sorgere anche a fronte del nuovo innesto normativo è dato, certamente, da una recente sentenza della Corte di Cassazione in cui i giudici di legittimità, affrontando il tema della rinnovazione dibattimentale in appello delle dichiarazioni di periti e consulenti tecnici in caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado, hanno precisato le condizioni e i presupposti dell’obbligo giudiziale ex art. 603, comma 3-bis, c.p.p. Nella fattispecie, il Tribunale di Varese ha prosciolto l’imputato dal reato di cui all’art. 590 c.p. perché il fatto non costituisce reato. A tale soggetto, nella qualità di medico dentista, era stato contestato di avere cagionato alla paziente, cui prestava una serie di prestazioni professionali, lesioni personali colpose, consistite, segnatamente, nell’avulsione di sette denti, con relativo supporto osseo preesistente. Nell’esito assolutorio, il Tribunale ha concluso rappresentando che, nonostante l’imputato avesse posto in essere una pratica aggressiva e non conservativa, non era possibile ravvisare autentici profili di colpa nella condotta realizzata. La Corte di Appello di Milano, tuttavia, in riforma della pronuncia di primo grado appellata dalla parte civile costituita, ha affermato la responsabilità, ai fini civili, dell’imputato in ordine al reato ascrittogli e lo ha condannato al risarcimento dei danni subiti dalla stessa, disponendo, altresì, il pagamento di una determinata provvisionale. In particolare, i giudici di secondo grado, operando una diversa valutazione complessiva del materiale probatorio, hanno evidenziato, essenzialmente, che le considerazioni liberatorie formulate dal giudice di prime cure nei confronti dell’imputato confliggono tout court con gli accertamenti svolti dal perito e dal consulente tecnico della parte civile, di cui sono stati [continua ..]
Già dal momento dell’entrata in vigore del codice del 1988, si rivelò la convinzione, pressoché generalizzata, che la materia delle impugnazioni penali – rimasta sostanzialmente inalterata rispetto al precedente sistema processuale – avrebbe richiesto una significativa riformulazione, per adeguarla meglio ai canoni del paradigma accusatorio appena introdotto. In particolare, ben presto, l’attenzione si focalizzò verso il giudizio di appello, laddove maggiore era la conclamata distonia sistemica, dato che il materiale probatorio, utile ai fini della decisione, era costituito essenzialmente dai verbali del dibattimento di primo grado, mentre i casi di rinnovazione istruttoria erano soggetti a limiti molto stretti e rigorosi. Si evidenziò, soprattutto, l’incongruenza costituita dalla possibilità di condannare nel giudizio di appello, sulla base di una mera rilettura degli atti, colui che all’esito del giudizio di primo grado, generalmente improntato ai principi del contraddittorio, dell’oralità e dell’immediatezza, era stato assolto. Inoltre, l’esistenza stessa di un proscioglimento in primo grado, pur se controbilanciata da un’affermazione di responsabilità in appello, impediva il reale superamento di quella soglia del ragionevole dubbio che, in virtù della presunzione di innocenza, è il solo a legittimare la pronuncia di condanna. Considerazioni di tal genere, diffuse in dottrina e accompagnate da analoghe perplessità manifestate in giurisprudenza, condussero ad una soluzione radicale del problema, ossia all’abolizione dell’appello avverso le sentenze di proscioglimento, in forza della l. 20 febbraio 2006, n. 46 [5]. Tuttavia, com’è ben noto, i giudici della Consulta, ritenendo che tale riforma comportasse uno squilibrio irragionevole tra i poteri delle parti del processo, decisero – pur tra molteplici critiche e discussioni – di affermarne l’illegittimità costituzionale, così da ricondurre la disciplina codicistica, sostanzialmente, alla sua versione primigenia [6]. Ad ogni modo, sia pure in un clima di aspre contrapposizioni tra potere legislativo e giudiziario, fu proprio la magistratura a farsi carico delle ragioni più nobili che avevano animato un simile intervento di riforma, inaugurando un orientamento giurisprudenziale teso [continua ..]
Nella più ampia cornice della recente evoluzione subita dalla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, si pone come questione fondamentale il problema relativo all’eventuale obbligatorietà di una simile rinnovazione probatoria qualora il secondo giudice intenda riformare il proscioglimento a seguito di un’impugnazione per motivi attinenti alla valutazione delle dichiarazioni di periti o consulenti tecnici. In base ad un orientamento interpretativo, per emettere una sentenza di condanna in riforma dell’esito assolutorio di primo grado, il giudice di appello non può fondare il suo diverso apprezzamento su una mera rivalutazione delle perizie e delle consulenze tecniche in atti [19]. Secondo tale prospettiva, invero, in ossequio ai principi in primis elaborati dalla Corte di Strasburgo, poi (in qualche misura) recepiti dalla giurisprudenza nazionale, e infine (tendenzialmente) accolti nel codice di rito, il giudice dell’appello dovrebbe necessariamente disporre la rinnovazione di tali prove, riascoltando i periti e i consulenti tecnici già assunti in primo grado. A sostegno di tale tesi militerebbe, anzitutto, il dato testuale della legge, rappresentato, essenzialmente, dalla previsione relativa all’esame dibattimentale di periti e consulenti tecnici (art. 501 c.p.p.), la quale, rimandando alle disposizioni dettate per l’escussione dei testimoni, porta a ritenere che le dichiarazioni rese dai primi siano in tutto e per tutto equiparabili a quelle dei secondi. La dichiarazione del perito e del consulente tecnico avrebbe, pertanto, natura di prova dichiarativa e, di conseguenza, in caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento, il giudice di seconde cure non potrebbe procedere alla reformatio in peius basandosi su una mera rivalutazione cartolare delle perizie e delle consulenze in atti. In senso contrario, un diverso orientamento giurisprudenziale sostiene che, in ragione della scientificità e della natura tecnica dell’apporto conoscitivo che forniscono periti e consulenti, le loro dichiarazioni non possano e non debbano essere propriamente assimilate alle prove dichiarative [20]. Si afferma, infatti, che nel valutare una prova di tipo scientifico, il giudice non sarebbe chiamato ad apprezzare l’attendibilità o la credibilità del dichiarante, dal momento che [continua ..]
In base alla dinamica rituale prevista dall’art. 603, comma 3-bis, c.p.p., in caso di proscioglimento in primo grado, i motivi d’appello proposti dal pubblico ministero in ordine alla valutazione di una prova dichiarativa obbligano il giudice alla rinnovazione probatoria. Tale meccanismo operativo, che pure è generalmente meritevole di approvazione, perché impedisce che il prosciolto nel contraddittorio di primo grado sia poi condannato sulle carte in appello, si espone, tuttavia, ad una pluralità di rilievi critici, di non poca importanza e sotto diversi profili. Anzitutto, il congegno procedurale delineato dalla norma de qua, con una davvero singolare eterogenesi dei fini, introduce a danno dell’imputato una grave disparità di trattamento, destinata molto probabilmente a pervenire, prima o poi, davanti al Giudice delle leggi. Infatti, mentre il pubblico ministero soccombente ha diritto di ottenere dall’organo giudicante la riassunzione delle prove dichiarative di cui censura la valutazione operata in primo grado, di modo che il giudice di appello possa ex novo apprezzare personalmente la credibilità del dichiarante e l’attendibilità delle sue dichiarazioni, nel caso inverso, ossia quando la pubblica accusa ha ottenuto una condanna in primo grado, le richiesta di riassunzione della prova dichiarativa dell’imputato non obbliga affatto il giudice, il quale può respingerla ai sensi dell’art. 603, comma 1, c.p.p., ogni qualvolta discrezionalmente ritenga di potere decidere allo stato degli atti [36]. In secondo luogo, l’art. 603, comma 3-bis, c.p.p. non prevede alcun vaglio di ammissibilità che, alla luce dell’effettiva consistenza delle censure avanzate dal pubblico ministero, consenta al giudice di subordinare la rinnovazione probatoria alla sua effettiva disponibilità a valutare diversamente, nella prospettiva di una condanna, la prova dichiarativa che già conosce ex actis. In molti casi, pertanto, qualora il giudice di appello ritenga già sulla base della lettura dei verbali dibattimentali che l’assoluzione disposta in primo grado vada confermata, l’obbligo di rinnovare comunque l’istruzione dibattimentale in appello risulta tanto dispendioso quanto inutile, non essendovi alcuna apprezzabile esigenza di immediatezza da tutelare, con grave danno all’economia [continua ..]