Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Il ricorso per Cassazione avverso la sentenza che applica la pena concordata - Corte di cassazione, sez. III, sent. 1° agosto 2019, n. 35200 – Pres. Izzo; Rel. Liberati (di Cesare Trabace)


La Terza sezione della Corte di cassazione ha ribadito l’irrilevanza degli errori di calcolo commessi dalle parti nella determinazione della pena concordata. La pronuncia offre l’occasione di indagare, da un lato, i limiti, divenuti ancora più stringenti per effetto della c.d. Riforma Orlando, alla ricorribilità della sentenza di cui all’art. 444 c.p.p. e, dall’altro lato, la nozione di «pena illegale».

The appeal to the Supreme Court against the judgement of punishment upon request

The Third Section of the Italian Supreme Court confirmed the irrelevance of the errors committed by the parties in calculating the agreed penalty. The decision provides the opportunity to reflect on the limits of the appeal to the Supreme Court against the judgment under Art. 444 c.p.p., which have become more restrictive after the so-called Orlando Reform, and on the notion of «unlawful penalty».

Irrilevanti gli errori di calcolo ai fini del ricorso per Cassazione avverso la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (Corte di cassazione, sez. III, sent. 1° agosto 2019, n. 35200 – Pres. Izzo; Rel. Liberati) In tema di patteggiamento sono irrilevanti gli errori di calcolo commessi nel determinare la sanzione concordata e applicata dal giudice, purché il risultato finale non si traduca in una pena illegale, da intendersi quale pena inferiore al minimo assoluto previsto dall’art. 23 c.p. (Massima) [Omissis]   RITENUTO IN FATTO   1. Con sentenza del 25 ottobre 2018 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli Nord ha applicato a [omissis], su sua richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., la pena di mesi otto di reclusione, in relazione al reato di cui al d.lgs. n. 74/2000, art. 2, considerando quale base di computo la pena di due anni di reclusione, ridotta per effetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche a un anno e quattro di mesi di reclusione, ridotta alla pena finale di otto mesi di reclusione per la diminuente del rito. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord, lamentando la violazione dell’art. 444 c.p.p., per l’applicazione di una diminuzione di pena superiore a quella di un terzo consentita dall’art. 444 c.p.p., per essere la pena di un anno e quattro mesi di reclusione, risultante a seguito della applicazione delle circostanze attenuanti generiche, stata ridotta della metà anziché di un terzo, essendo stata determinata la pena finale in otto mesi di reclusione. 3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, con la trasmissione degli atti al Tribunale di Napoli Nord, sottolineando l’illega­lità della pena determinata dal Tribunale, a causa della applicazione di una diminuzione di pena per il rito superiore a quella massima consentita dall’art. 444 c.p.p.   CONSIDERATO IN DIRITTO   1. Il ricorso del pubblico ministero è inammissibile. 2. In premessa, va rilevato che nella vicenda in esame deve trovare applicazione, ratione temporis, l’art. 448 c.p.p., comma 2 bis, introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, in vigore dal 03/08/2017, cosicché occorre soffermarsi sulla nozione di pena illegale, con riferimento alla quale la novella ha individuato uno dei casi di ricorso per cassazione contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. Con tale nozione, il legislatore ha recepito l’elaborazione della giurisprudenza di legittimità in sede di definizione dell’ambito della sindacabilità, in punto determinazione della pena, della sentenza di applicazione della pena su richiesta. Al riguardo le Sezioni Unite di questa Corte, con la [continua..]

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SOMMARIO:

La questione al vaglio della Suprema Corte - Il sindacato di legittimità sulla sentenza di patteggiamento: lo status quo ante - Dal diritto vivente al diritto vigente: la c.d. Riforma Orlando - I “nuovi” motivi di ricorso - L’illegalità della pena e la (ir)rilevanza degli errori di calcolo - NOTE


La questione al vaglio della Suprema Corte

La Suprema Corte è di recente tornata a occuparsi dei limiti al sindacato di legittimità della sentenza di patteggiamento e della rilevanza degli errori di calcolo nella determinazione della pena concordata. Il tema, da tempo noto alla giurisprudenza, è stato oggetto dell’attenzione del legislatore nell’ambito della l. 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. Riforma Orlando). Questa la vicenda sottesa alla decisione in commento. D’intesa con l’organo della pubblica accusa, l’imputato – tratto a giudizio per il reato di cui all’art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – avanzava al giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Napoli Nord la richiesta di applicazione della pena. A fronte di una fattispecie di reato allora punita con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni [1], le parti consideravano come base di computo la pena di due anni, che veniva ridotta dapprima a un anno e quattro mesi per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e poi a otto mesi in applicazione della diminuente per la scelta del rito speciale. Avverso la pronuncia del giudice di merito ricorreva per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord, rilevando come, nel caso di specie, fosse stata praticata una riduzione finale della pena pari alla metà, in spregio al tenore testuale dell’art. 444 c.p.p. che la consente solamente «fino a un terzo». Non versandosi in alcuna delle situazioni oggi richiamate dall’art. 448, comma 2-bis, c.p.p., idonee ad attivare il controllo di legittimità delle sentenze che applicano la pena su richiesta delle parti, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibili le doglianze del Procuratore della Repubblica. Essa ha però fornito utili chiarimenti in ordine alla nozione di pena illegale. In particolare, è stato rammentato che tale va ad esempio ritenuta la pena il cui ammontare sia inferiore ai limiti imposti dagli artt. 23 ss. c.p. ovvero quella, scelta dalle parti come base di computo, inferiore al minimo edittale fissato dal legislatore per la fattispecie incriminatrice contestata; situazioni, queste, ritenute opportunamente estranee alla vicenda in esame. Per altro verso, il Collegio ha ribadito che la valutazione di congruità imposta al giudice del patteggiamento investe solo il risultato finale dell’accordo, con conseguente irrilevanza degli errori di [continua ..]


Il sindacato di legittimità sulla sentenza di patteggiamento: lo status quo ante

Consapevoli che il nuovo rito di matrice accusatoria avrebbe funzionato solamente se si fosse riusciti a far pervenire al dibattimento una minima parte di regiudicande, i codificatori del 1988 hanno innovato la disciplina dei giudizi speciali a vocazione deflativa [2]. Tra questi si colloca il procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, nelle cui pieghe riecheggiano vuoi l’abrogato istituto dell’ap­plicazione delle sanzioni sostitutive su richiesta dell’imputato [3] vuoi il plea bargaining di derivazione statunitense [4]. Si tratta dello strumento, nella prassi noto con il più evocativo nomen di patteggiamento [5], mediante il quale l’imputato e il Pubblico Ministero stringono un accordo relativo alla species e al quantum di pena da applicare al caso concreto e lo sottopongono al giudice che – allo stato degli atti e sempre che non debba pronunciare il proscioglimento ex art. 129 c.p.p. – recepisce la volontà delle parti in una sentenza equiparata a quella di condanna. Comportando la rinuncia al diritto alla prova un notevole risparmio di tempi e risorse giudiziarie, il legislatore ha inoltre riconosciuto, a chi opti per la variante procedimentale di cui agli artt. 444 ss. c.p.p., la riduzione «fino a un terzo» della pena pattuita con il rappresentante della pubblica accusa. Dalla natura «autenticamente pattizi[a]» [6] del rito non potevano non derivare peculiarità anche sul terreno delle impugnazioni. Ci si riferisce anzitutto alla inappellabilità della sentenza: essendo que­st’ultima conforme alla volontà e alle aspettative delle parti, la previsione in capo alle stesse del diritto di adire un diverso giudice di merito sarebbe del resto suonata contraddittoria e profondamente antieconomica [7]. Detta regola soffre tuttavia una eccezione che ricorre allorquando il giudice del dibattimento, malgrado il dissenso del Pubblico Ministero a un epilogo consensuale, abbia recuperato l’i­stanza di applicazione della pena formulata dall’imputato: ebbene, unicamente in questa eventualità il magistrato requirente è legittimato a proporre appello ai sensi dell’art. 448, comma 2, c.p.p. Il rimedio di regola esperibile avverso la sentenza di patteggiamento è notoriamente rappresentato dal ricorso per [continua ..]


Dal diritto vivente al diritto vigente: la c.d. Riforma Orlando

Animata dalla volontà di scoraggiare i ricorsi meramente defatigatori e accelerare la formazione del giudicato, la l. n. 103 del 2017 si è occupata, tra le altre cose, dei meccanismi di controllo delle decisioni negoziate [26]. In questa prospettiva, il legislatore ha introdotto, nella trama dell’art. 130 c.p.p., il comma 1-bis, prevedendo che «[q]uando nella sentenza di applicazione delle pena su richiesta delle parti si devono rettificare solo la specie e la quantità della pena per errore di denominazione o di computo, la correzione è disposta anche d’ufficio dal giudice che ha emesso il provvedimento» e che «[s]e questo è impugnato, alla rettificazione provvede la Corte di cassazione a norma dell’art. 619, comma 2». L’innova­zione più pregnante, anche per gli indiscutibili risvolti sistematici, è però rappresentata dall’art. 448, comma 2-bis, c.p.p., secondo il quale «[i]l Pubblico Ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza». Il nuovo art. 448, comma 2-bis, c.p.p. – figlio della convinzione che «il modulo consensuale di definizione del processo [...] non merit[i una] troppo ampia ricorribilità per cassazione, constatato, d’altra parte, l’esito largamente prevalente di inammissibilità dei relativi ricorsi» [27] – si pone in rapporto di specialità con l’art. 606, comma 1, c.p.p. e, al pari di quest’ultimo, sembra recare un catalogo di censure avente natura tassativa [28]. L’avverbio «solo», utilizzato dalla norma, conferma del resto l’intento del legislatore di estromettere dal perimetro di ricorribilità della sentenza di applicazione della pena tutti i vizi ivi non richiamati, comprese le nullità assolute e la inutilizzabilità patologica [29]. Così operando, è stato dunque accolto quel discutibile orientamento giurisprudenziale che in passato aveva inteso l’adesione al procedimento speciale come una rinuncia a far valere obiezioni di qualsiasi natura [30]. Dal [continua ..]


I “nuovi” motivi di ricorso

Malgrado la pronuncia in commento dedichi attenzione unicamente alla «illegalità della pena», sembra qui opportuno prendere in considerazione anche gli altri motivi di ricorso. La prima fattispecie che il legislatore ha ritenuto idonea ad attivare il sindacato di legittimità sulla sentenza di patteggiamento concerne l’«espressione della volontà dell’imputato». La formula, subito tacciata di essere così «generica [da] rasenta[re] l’atecnicità» [38], si presta ad abbracciare vuoi le ipotesi in cui manchi la volontà di aderire all’accordo vuoi quelle in cui quest’ultima sia stata manifestata in violazione dei requisiti formali previsti dalla legge [39]. Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso in cui la richiesta di applicazione della pena venga presentata da un difensore sprovvisto di procura speciale [40] ovvero fuori dai termini [41]; a quello in cui l’imputato abbia optato per il rito perché coartato fisicamente o incapace di intendere e di volere [42]; a quello in cui la transazione sulla pena sia stata conclusa senza la presenza di un difensore o di un interprete [43] e, ancora, al caso in cui il giudice avrebbe dovuto, ex art. 446, comma 5, c.p.p., disporre la comparizione della parte privata onde «verificare la volontarietà della richiesta o del consenso» [44]. Oltre a tali censure, invero sottoponibili all’attenzione dei giudici di legittimità già prima della novella in esame, ci si è chiesti se tra «i motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato» potessero essere inclusi anche quelli relativi ai c.d. vizi del consenso. Al quesito pare debba darsi risposta negativa [45], specie se si considera che la giurisprudenza pregressa – facendo leva sul principio di tassatività vigente in tema di nullità – ha costantemente escluso la rilevanza dell’errore, della violenza e del dolo [46]. Del resto, risulterebbe inverosimile se il legislatore del 2017, asservito in linea di massima agli insegnamenti della Suprema Corte [47], avesse deciso di discostarsene proprio in questa delicata materia. Stando al dato testuale, quindi, l’unica vera innovazione è rappresentata dal mancato riferimento alla volontà del Pubblico [continua ..]


L’illegalità della pena e la (ir)rilevanza degli errori di calcolo

Il catalogo dei motivi previsto dall’art. 448, comma 2-bis, c.p.p. si chiude con il riferimento alla «illegalità della pena o della misura di sicurezza». Anche in questo frangente, il legislatore si è posto nel solco tracciato dalla giurisprudenza [57], sempre compatta nell’ammettere la deducibilità del vizio. La l. n. 103 del 2017 ha quindi introdotto nel codice di rito il concetto di pena illegale, fino ad allora ignorato dal dato positivo, sebbene da tempo largamente utilizzato dalla Corte di legittimità e da quella di Strasburgo [58]. La novella ha però omesso di chiarire in quali occasioni la sanzione, richiesta dalle parti e ratificata dal giudice, si ponga contra legem; lacuna, questa, che può essere agilmente colmata attingendo dalla passata esperienza pretoria. E così ha fatto del resto la decisione in commento che – prendendo le mosse dalla nota sentenza con cui le Sezioni Unite si sono pronunciate in ordine agli effetti della declaratoria di incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con la l. 21 febbraio 2006, n. 49 [59] – ha ribadito che illegale va ritenuta la pena detentiva inferiore al limite di 15 giorni di cui all’art. 23 c.p. ovvero quella, scelta dal Pubblico Ministero e dall’imputato come base di computo, estranea alla cornice edittale del reato contestato [60]. Le ipotesi di illegalità della pena sono invero ben più numerose di quelle richiamate dalla Suprema Corte. Il riferimento corre, ad esempio, ai casi di applicazione congiunta dell’arresto e dell’ammenda laddove è invece prevista una loro irrogazione alternativa [61] ovvero a quelli, speculari ai precedenti, di applicazione della sola sanzione pecuniaria in luogo di quella detentiva e pecuniaria [62]. Una pena illegale si avrà, inoltre, quando un reato di competenza del giudice di pace sia stato punito con una sanzione diversa da quelle contemplate nell’art. 52 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 [63]; quando sia stata emessa una sentenza di patteggiamento “allargato” nei confronti di uno dei soggetti di cui all’art. 444, comma 1-bis, c.p.p. [64]; quando una circostanza aggravante sia stata qualificata come una autonoma figura di reato [65] nonché, ancora, quando la pena-base [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2020