Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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"Justice must go on": la Consulta apre alla celebrazione in assenza del "processo Regeni" (di Annalisa Mangiaracina, Professoressa ordinaria di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Palermo)


Con la sentenza additiva in commento, la Corte costituzionale ha “salvato” il processo per l’omicidio di Giulio Regeni dalla definizione mediante la nuova sentenza di non doversi procedere, ex art. 420-quater c.p.p. Nell’ac­cogliere la questione di costituzionalità dell’art. 420-bis, comma 3, c.p.p., la Consulta ha fissato in modo minuzioso le condizioni della nuova fattispecie di assenza: in primo luogo, il reato per il quale si procede dev’essere ricondotto alla tortura, come definita dall’art. 1 CAT; in secondo luogo, occorre che l’acquisizione della prova della mancata conoscenza del processo – pur essendovi quella della conoscenza del procedimento – sia ostacolata dal difetto di collaborazione dello Stato di appartenenza dell’imputato; inoltre, bisogna garantire il diritto a un nuovo processo nel merito, in presenza.

"Justice must go on": the Constitutional Court unblocks the "Regeni trial" and allows to proceed in absentia

With the herein reported additive ruling, the Constitutional Court has prevented Giulio Regeni murder trial from being defined by the judgement of non-prosecution pursuant to Article 420-quater of the Code of Criminal Procedure. In upholding the question of constitutionality of Article 420-bis, paragraph 3 of the Code of Criminal Procedure, the Court has thoroughly set out the conditions of the new regime of the in absentia trial: firstly, the facts that are the subject of the charges must fall within the concept of torture, as defined by Article 1 CAT; secondly, it is necessary that the acquisition of evidence of lack of knowledge of the pending trial – even where there is the awareness of the proceedings – is due to the ascertained refusal of judicial assistance by the defendant’s foreign State of nationality; moreover the right to a new trial in presence must be guaranteed.

  La Corte costituzionale “aggiunge” una nuova fattispecie di assenza non impeditiva per le fattispecie di “tortura”   MASSIMA: È costituzionalmente illegittimo l’art. 420-bis, comma 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con l. 3 novembre 1988, n. 498, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.   PROVVEDIMENTO: (Omissis). Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 31 maggio 2023, iscritta al n. 89 del registro ordinanze 2023, il Giudice per le indagini preliminari [recte: Giudice dell’udienza preliminare] del Tribunale ordinario di Roma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», nonché dell’art. 420-bis, comma 3, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento[,] dipende dalla mancata assistenza giudiziaria o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato». Il giudice a quo evoca i parametri di cui agli artt. 2, 3, 24, 111, 112 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498. Tali parametri sarebbero violati dalle denunciate omissioni normative, che renderebbero impossibile anche solo incardinare il processo per l’accertamento dei fatti di reato commessi in danno di Giulio Regeni, cittadino italiano, dottorando presso la Cambridge University, trovato senza vita il 3 febbraio 2016, in Egitto, lungo la Desert Road Cairo-Alessandria. 2.– L’ordinanza di rimessione espone lo svolgimento del procedimento nei termini seguenti. 2.1.– In data 20 gennaio 2021, il Procuratore della [continua..]

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SOMMARIO:

1. Lo spauracchio della sentenza di non doversi procedere - 2. La declaratoria di assenza: una opzione non praticabile - 3. L’incidente di costituzionalità: un percorso “obbligato”? - 4. Il ruolo della Convenzione Onu contro la tortura - 5. Il diritto alla “verità” - 6. L’individuazione della sedes materiae - 7. Il riassestamento delle garanzie partecipative: i meccanismi compensativi - 8. Il processo come simulacro: rischio scongiurato? - NOTE


1. Lo spauracchio della sentenza di non doversi procedere

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 192/2023 [1], ha “salvato” il processo per l’omicidio di Giulio Regeni da un epilogo imposto dall’attuale quadro normativo in materia di processo in absentia, come rivisitato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (riforma c.d. Cartabia) [2]. L’esito così scongiurato sarebbe stato rappresentato da una pronuncia di non doversi procedere, ex artt. 89, comma 2, d.lgs. n. 150/2022 [3] e 420-quater c.p.p., per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte degli imputati. Un risultato che avrebbe frustrato, come da più parti denunciato, le “aspettative” di giustizia del caso concreto. In verità, la tipologia di sentenza in questione, come peraltro di recente puntualizzato dalla Corte di cassazione [4], ha natura “sostanzialmente interlocutoria” e, pertanto, allo stesso modo della previgente ordinanza di sospensione (art. 420-quater c.p.p., ante riforma) [5], non avrebbe escluso una ripresa dell’attività processuale, seppure con tempi incerti legati all’avverarsi di una condizione: nello specifico, il rintraccio da parte della polizia giudiziaria dei quattro imputati, tutti cittadini egiziani, all’epoca dei fatti ufficiali in servizio presso la National Security Agency. Condizione invero necessaria per potere procedere alla notifica del richiamato provvedimento che, al suo interno, contiene anche la vocatio in iudicium. L’evenienza appena descritta era però subito apparsa di difficile realizzazione a causa della mancanza (rectius: rifiuto) di collaborazione da parte delle autorità egiziane, ben documentata dal Ministero della Giustizia italiano ed espressa, in modo emblematico, dall’opposizione del ne bis in idem internazionale [6]. Que­st’ultima si era fondata su un provvedimento di archiviazione delle indagini per l’omicidio di Giulio Regeni, adottato dal Procuratore generale del Cairo e, quindi, da un organo investigativo, non indipendente rispetto al Governo. Di più, la paventata decisione ex art. 420-quater c.p.p., espressamente qualificata come inappellabile – com’è noto – una volta trascorso il termine di durata delle ricerche per rintracciare le persone nei cui confronti viene emessa (art. 420-quater, comma 2, lett. e, c.p.p.), può assumere il carattere dell’irrevoca­bilità [continua ..]


2. La declaratoria di assenza: una opzione non praticabile

In via preliminare, appare necessario ripercorrere il tortuoso itinerario processuale che ha condotto alla pronuncia della Consulta, di cui ci si occupa. L’antefatto principale, in sintesi, è rappresentato dalla circostanza che era stata emessa dal giudice dell’udienza preliminare [1], investito della richiesta di rinvio a giudizio, una decisione con cui gli imputati erano stati dichiarati “assenti”, sulla base della previgente formulazione dell’art. 420-bis c.p.p. [2]. Decisione che era stata censurata, in prima battuta, dalla Corte di assise di Roma [3] e, successivamente, in modo ancora più incisivo, dalla Corte di cassazione [4]. Ciò premesso, emerge come, al momento in cui era stata sollevata la questione di costituzionalità [5], il processo si trovava “sospeso”, ai sensi dell’art. 420-quater c.p.p. ante riforma. Può essere utile soffermarci ulteriormente sull’iter appena anticipato, per descrivere più dettagliatamente i singoli passaggi. In quella prima ordinanza dichiarativa dell’“assenza” – una volta verificata la regolarità delle notificazioni dell’atto di vocatio in ius, eseguite ai sensi dell’art. 159 c.p.p. – il decidente riteneva che gli imputati, consapevoli del “procedimento” a proprio carico, si fossero volontariamente sottratti alla conoscenza dei successivi atti del processo. A sostegno di questo assunto si adducevano i seguenti elementi: a) tutti erano stati sentiti, sia pure in qualità di persone informate sui fatti, dalla magistratura egiziana su richiesta rogatoriale del pubblico ministro, così acquisendo contezza del procedimento penale instaurato in Italia; b) la notizia del procedimento e dei suoi sviluppi, con specifico riguardo all’avviso di conclusione delle indagini preliminari e alla fissazione dell’udienza preliminare, era stata oggetto di «una copertura mediatica internazionale oggettivamente straordinaria e capillare»; c) gli apparati investigativi egiziani risultavano a conoscenza degli sviluppi e degli esiti del procedimento italiano; d) gli imputati erano stati ripetutamente invitati, per via sia rogatoriale sia diplomatica, a eleggere domicilio in Italia, secondo quanto previsto dall’art. 169 c.p.p., senza che tuttavia tale invito avesse seguito. Il provvedimento, tuttavia, non reggeva al [continua ..]


3. L’incidente di costituzionalità: un percorso “obbligato”?

A fronte di questo assetto, un’alternativa, nel segno della “prudenza”, avrebbe potuto essere quella di continuare a percorrere la strada della diplomazia e «indurre le autorità egiziane a rimuovere il velo di omertà che hanno steso su questa vicenda» [1]. Del resto, proprio la Corte di legittimità [2] aveva indicato come soggetto responsabile per il superamento della situazione, impeditiva della partecipazione degli imputati al processo, le «competenti autorità di governo, anche alla luce degli obblighi di assistenza e cooperazione per le stesse discendenti dalle Convenzioni internazionali, e, tra queste, da quella contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti, conclusa a New York il 10 dicembre 1984, ratificata dall’Italia con legge del 3 novembre 1988, n. 498, e dall’Egitto il 25 gennaio 1986». Nello stesso senso, si era espressa la Commissione parlamentare di inchiesta nominata per fare chiarezza sulla morte di Giulio Regeni [3]. Una indicazione rimasta inascoltata. Su impulso della Procura della Repubblica [4], infatti, si è virato verso l’incidente di costituzionalità dell’art. 420-bis, commi 2 e 3 c.p.p., nella formulazione post “riforma Cartabia”. In particolare, sulla scorta di diversi parametri, si è sollecitato un intervento additivo sul comma 2 dell’art. 420-bis c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice proceda in assenza, «anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato»; nonché, sul comma 3 dell’art. 420-bis c.p.p., «nella parte in cui non prevede che il giudice proceda in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento dipende dalla mancata assistenza giudiziaria o dal rifiuto di cooperazione da parte dello stato di appartenenza o di residenza dell’imputato» [5]. Tutto questo con l’obiettivo di sottrare il processo alla sentenza ex art. 420-quater c.p.p., introducendo una breccia alle ipotesi di assenza non impeditiva codificate all’art. 420-bis c.p.p., per una inedita categoria di imputati irreperibili: [continua ..]


4. Il ruolo della Convenzione Onu contro la tortura

Come appena osservato, la prima tra le condizioni per l’operatività dell’inedita ipotesi di assenza formulata dalla Consulta si basa sulla riconducibilità delle condotte criminose ascritte ai quattro imputati alla CAT. A tale riguardo, nell’itinerario argomentativo della Corte costituzionale, dove spicca l’influenza delle numerose fonti internazionali e sovranazionali che sanciscono in termini assoluti il divieto di tortura, occorre distinguere due piani: quello “sostanziale” e quello “processuale” i quali finiscono poi per ricongiungersi nella lettura integrata degli artt. 117, comma 1, e 2 Cost. Sul primo versante, ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., la Convenzione ONU contro la tortura rileva come parametro interposto, con una importante conseguenza: quella di circoscrivere la portata della decisione di accoglimento rispetto all’ordinanza di rimessione, invero non limitata ad alcun titolo di reato. Alla richiamata Convenzione va senza dubbio il merito, diversamente dagli altri strumenti normativi sul tema, di avere fornito una nozione di tortura, in questa sede centrata sull’evento, costituito dal “forte dolore” procurato alla vittima, lasciando viceversa libera la modalità di estrinsecazione della condotta. Profilo, quest’ultimo, non privo di implicazioni riguardo agli effetti della sentenza costituzionale. Nello specifico, l’art. 1 della citata Convenzione definisce come tortura: «qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate» [1]. Come chiarito dalla Consulta, a livello internazionale si sanziona la c.d. tortura di Stato, verticale o [continua ..]


5. Il diritto alla “verità”

Spostando il punto di osservazione dalla Convenzione contro la tortura alla Cedu, la Consulta si sofferma sugli obblighi che derivano dall’art. 3 del testo convenzionale [1], ponendo l’accento su quelli di natura procedurale e, in particolare, nel dovere di svolgere indagini effettive e complete [2]. A tal fine, si richiama quel filone giurisprudenziale della Corte europea [3] che, con riguardo alle più gravi violazioni dei diritti umani, tra le quali certamente spicca la tortura, ha fatto menzione del “diritto alla verità”  [4]. A quest’ultimo, la Corte di Strasburgo ha attribuito una matrice “pluralistica” in quanto funzionale agli interessi non solo della singola vittima, ma anche delle altre vittime di condotte simili e dell’intera collettività. Un diritto non scritto che, però, come è stato sottolineato in dottrina [5], trova ampio riconoscimento nella giurisprudenza della Corte Interamericana dei Diritti Umani. Da questo angolo visuale, la prospettiva della o delle vittime e quella collettiva – che vede in gioco lo Stato-persona, tenuto a indagare, condurre i processi, adottare misure ripristinatorie e repressive nei confronti dei responsabili, ma anche lo Stato-collettività – si fondono facendo emergere un’esigenza diffusa alla conoscenza di fatti che costituiscono parte delle ragioni di identità dello Stato stesso [6]. Nel contesto delineato dalla Consulta, l’esigenza di una “efficient criminal law response” in relazione alla condotta di tortura si scontra con una supposta “lacuna ordinamentale” che impedisce allo Stato di procedere all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura e dell’obbligo degli Stati di perseguirla. Peraltro, precludendo l’accertamento, si offende la dignità della persona – centro di tutela – e se ne comprime il diritto fondamentale a non essere vittima di tali atti. Da ciò discende la duplice violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione alla Convenzione ONU, ma anche dell’art. 2 Cost. Osserva testualmente la Corte: «nello statuto eccezionale del crimine in questione, il diritto all’accertamento giudiziale è il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità». Infine, un ulteriore profilo di [continua ..]


6. L’individuazione della sedes materiae

Come si è anticipato, la necessità di non arrestare l’accertamento processuale per il reato di tortura, nel caso concreto, si scontra con un diritto fondamentale garantito dagli artt. 111 Cost. e 6 Cedu: quello dell’imputato di partecipare al processo a suo carico, anche in funzione di esercitare il diritto all’au­todifesa. Il tema della partecipazione, o meglio, dell’assenza dell’imputato dal processo, da sempre, ha rappresentato il “tallone d’Achille” del nostro sistema: depongono in tal senso i ripetuti interventi della Corte europea, orientati in modo da prevenire la contumacia e rimuovere gli ostacoli interni al ripristino del pieno diritto al contraddittorio dopo lo svolgimento del processo in absentia. Un percorso lungo, che si snoda dalla storica sentenza Colozza c. Italia  [1], fino alla decisione “pilota” resa nella causa Sejdovic c. Italia  [2], con la quale si è dato l’input a una stagione di riforme non sempre soddisfacenti. Il primo e più compiuto intervento normativo a opera della l. n. 67/2014, al di là del peccato originale – la mancata revisione della disciplina sulle notificazioni – aveva subito mostrato non poche zone d’ombra: le presunzioni legali di conoscenza, peraltro riferite, con un linguaggio approssimativo, agli atti del “procedimento”, piuttosto che alla vocatio in ius, con un conseguente onere di informazione, a carico del­l’indagato, sugli sviluppi futuri del procedimento fino all’udienza; la presenza di oneri probatori, quale condizione per accedere ai rimedi restitutori, ai limiti della probatio diabolica (assenza di profili di colpa nella mancata conoscenza della celebrazione del “procedimento” da cui è derivata la mancata conoscenza del “processo”). In quel sistema, il rischio di aprire un nuovo contenzioso in sede europea aveva portato la giurisprudenza di legittimità, con la già richiamata sentenza “Ismail” [3], a ridimensionare le presunzioni codificate nel testo dell’art. 420-bis c.p.p., “trasformando” il tenore letterale della stessa disposizione. Operazione che, come evidenziato in dottrina [4], aveva segnato la necessità di ulteriori “adeguamenti” anche della disciplina della rescissione del giudicato  [5] e dei rapporti di questo mezzo di [continua ..]


7. Il riassestamento delle garanzie partecipative: i meccanismi compensativi

Aperta una breccia al requisito della conoscenza della vocatio in iudicium che, non va dimenticato, rappresenta la cartina di tornasole del “giusto” processo in assenza [1], sorge la preoccupazione che, per tale via, il giudizio possa ridursi a una fictio. L’escamotage che consente di bypassare queste preoccupazioni è individuato nella riscrittura della “scansione temporale” dell’esercizio delle facoltà partecipative dell’imputato: non più ex ante e, in caso di fallimento ex post, come di regola, ma esclusivamente ex post. A tal fine, vengono in soccorso i meccanismi rimediali, i quali devono garantire – secondo la logica dell’art. 9 della direttiva 2016/343/UE – il diritto a un nuovo processo che, svolgendosi in presenza dell’imputato e a sua richiesta, consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria. L’alta posta in gioco, sul piano delle garanzie partecipative, impone però ulteriori “aggiustamenti”, ancora una volta dettati dalla specificità del caso e dalla eterogeneità della fattispecie di assenza di derivazione costituzionale. Questi si traducono nel riconoscimento, a favore dell’imputato, del diritto di accedere «senza limiti, né condizioni» al sistema rimediale congegnato dal d.lgs. n. 150/2022: un salto da acrobata. L’affermazione va meglio esplorata, incidendo su un aspetto particolarmente delicato di questa trama volta a ricomporre la tensione tra profili partecipativi, obbligo di persecuzione della tortura e diritto all’accertamento della verità processuale. Il tema è quello dell’onere probatorio da assolvere per accedere ai rimedi in questione che, com’è noto, percorrono tutto l’itinerario processuale, estendendosi persino oltre il giudicato: è il caso della ritrovata restituzione nel termine per impugnare la sentenza (art. 175, comma 2.1, c.p.p.) e della rescissione del giudicato (art. 629 bis c.p.p.), solo a tratti modificata [2]. Un ingranaggio complesso che, a differenza del precedente modulo, poggia sulla distinzione tra la dichiarazione di assenza “errata” e la dichiarazione di assenza “corretta”. Nel primo caso, mancavano i presupposti normativi per procedere di cui all’art. 420-bis, commi 1, 2 e [continua ..]


8. Il processo come simulacro: rischio scongiurato?

Nelle battute finali, la Consulta si preoccupa di precisare che «l’amplissima possibilità di riapertura e rinnovazione del processo spettante agli imputati nella fattispecie in esame (…), non riduce tuttavia il processo stesso a un simulacro». E aggiunge ancora come «l’accertamento dei crimini di tortura nelle forme pubbliche del dibattimento» in quanto rispondente a un obbligo costituzionale e sovranazionale, non è per questo mai inutile, «ove anche circostanze esterne lo privino del contraddittorio dell’impu­tato». Due affermazioni che pongono altrettanti interrogativi: oggi le circostanze “esterne” che consentono di derogare alla partecipazione degli imputati sono costituite dal rifiuto di cooperazione da parte dell’Egitto. E domani? Sul versante sostanziale, poi, non vi è forse il rischio di dilatare la legalità “sostanziale”? Le medesime esigenze di accertamento potrebbero infatti manifestarsi rispetto a fattispecie diverse da quelle oggetto della pronuncia, in virtù di norme giuridiche sovranazionali, anche non impositive di espressi obblighi di incriminazione. Senza tacere, allo stato, della carenza di tassatività di alcuni degli elementi che integrano la nozione internazionale di tortura. Mettendo da parte questi interrogativi, è tempo di verificare le ricadute della sentenza che, va detto subito, non sono tranquillizzanti sul piano delle garanze partecipative, lette in armonia con le fonti sovranazionali. Domani si aprirà il dibattimento davanti alla Corte di assise di Roma, nel rispetto dei principi di pubblicità, oralità, immediatezza, che certamente costituiscono l’asse portante del nostro sistema processuale. Rimarranno “fuori dall’udienza” i quattro imputati dei quali non vi è certezza che abbiano conoscenza del processo per cause agli stessi non ascrivibili [1]. Fuori dall’aula di udienza si collocano altresì il principio del contraddittorio, ex art. 111 Cost., “cuore pulsante” del sistema accusatorio, nella sua duplice “anima”, e il diritto di difesa, ex art. 24, comma 2, Cost., inteso in un’accezione non meramente formale. Gli imputati, infatti, continueranno a essere rappresentati dai difensori d’uf­ficio, amputati dalla mancanza di un confronto con i propri assistiti [2], con esiti [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2024