Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Mentire sui propri precedenti penali equivale a difendersi? La soluzione della Corte costituzionale a tutela del diritto al silenzio (di Natalia Rombi, Professoressa associata di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Udine)


La Corte costituzionale torna a pronunciarsi sull’ambito di operatività del diritto al silenzio, riconoscendo che anche le circostanze di cui all’art. 21 disp. att. c.p.p., su cui la persona sottoposta alle indagini e l’imputato possono essere invitati a rispondere, sono coperte da tale garanzia. Essa, però, riproponendo l’argomento che poggia sull’esi­stenza di altri interessi che giustificano, pur nel riconoscimento della facoltà di non rispondere, la punibilità del mendacio, ha ritenuto che le dichiarazioni ex art. 21 disp. att. c.p.p. rientrino in un ambito in cui l’interessato ha diritto di tacere ma non di mentire.

Does lying about one's criminal record amount to defending oneself? The Constitutional Court’s solution to protect the right to silence

The Constitutional Court once again ruled on the scope of the right to remain silent, recognising that the circumstances referred to in Article 21 of the Code of Criminal Procedure, on which the person under investigation and the accused may be asked to answer, are also covered by this guarantee.

The Court, however, considered that statements under Article 21 disp. att. Code of Criminal Procedure fall within an area where the person concerned has the right to remain silent but not to lie, reiterating the argument based on the existence of other interests that justify, despite the recognition of the right to remain silent, the punishability of lying.

La Corte costituzionale riconosce il diritto al silenzio sulle qualità personali dell’imputato MASSIMA: È costituzionalmente illegittimo l’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 delle norme di attuazione del codice di procedura penale. È costituzionalmente illegittimo l’art. 495, comma 1, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. c.p.p. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64 comma 3, c.p.p., abbiano reso false dichiarazioni. Non sono fondate le ulteriori questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 495 c.p., sollevate in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. PROVVEDIMENTO: [Omissis] RITENUTO IN FATTO 1.– Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 495 del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p.». In via subordinata, il medesimo Tribunale ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost., dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell’ambito del procedimento penale», nonché dello stesso art. 495 cod. pen., «nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per il reato ivi previsto in caso di false dichiarazioni – in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. – rese nell’ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere». 1.1.– Il rimettente si trova a giudicare, in sede dibattimentale, della responsabilità penale di M. G., imputato tra l’altro del delitto di cui all’art. 374-bis cod. pen., per avere dichiarato al personale della Questura di Pisa – in sede di identificazione, elezione di domicilio e nomina del difensore nell’ambito di un procedimento penale – di non avere riportato condanne penali [continua..]

» Per l'intero contenuto effettuare il login

inizio


SOMMARIO:

1. Diritto di difesa e nemo tenetur se detegere - 2. La questione posta all’attenzione della Corte costituzionale - 3. La soluzione del giudice delle leggi - 4. Un ulteriore passo verso l’effettività del diritto al silenzio - NOTE


1. Diritto di difesa e nemo tenetur se detegere

Uno dei profili di maggiore tensione nella disciplina del processo penale è rappresentato dalla necessità di individuare un punto di equilibrio tra le esigenze dell’accertamento e la tutela dell’imputato, quale fonte di prova nel suo processo [1]. Sebbene in virtù della presunzione di non colpevolezza, lo svolgimento del giudizio sia ormai svincolato dalla confessione dell’imputato, la disciplina delle modalità acquisitive del sapere della persona nei cui confronti si procede, continua ad assumere un ruolo centrale nel definire l’assetto di un sistema in quanto essa riflette il modo di concepire il rapporto intercorrente tra l’individuo e l’autorità [2]. Nell’attuale sistema, questo assetto si caratterizza per il riconoscimento al prevenuto della facoltà di scegliere se contribuire o meno all’accertamento del fatto, nel rispetto della sua libertà morale. Da opzioni normative che consentivano il ricorso a qualsiasi mezzo, tortura compresa, al fine di vincere le resistenze dell’accusato e indurlo a offrire la sua collaborazione, si è, infatti, giunti a escludere la necessità del contributo dell’imputato nella ricostruzione dei fatti, assistendosi contemporaneamente ad una metamorfosi degli istituti che disciplinano l’acquisizione del suo sapere, non più strumenti finalizzati esclusivamente alla confessione, ma anche mezzi di difesa a disposizione dell’interessato. Tra questi rientra l’interrogatorio, la cui disciplina è articolata in modo tale da riconoscere all’im­putato il diritto ad una scelta libera e consapevole in ordine al contegno da tenere. Nello specifico, l’imputato che interviene libero all’interrogatorio, anche se in stato di restrizione, e nei confronti del quale non possono essere utilizzati metodi o tecniche idonee ad incidere sulla sua libertà di autodeterminazione, è destinatario di una serie di avvisi che mirano a renderlo edotto sulla sua posizione da un punto di vista procedimentale. Egli è avvisato che le dichiarazioni che deciderà eventualmente di rendere potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti e tale avvertimento si salda con un ulteriore avviso, ossia quello relativo alla possibilità di non rispondere ad alcuna domanda, nella consapevolezza che il procedimento seguirà comunque il suo [continua ..]


2. La questione posta all’attenzione della Corte costituzionale

Il caso che ha portato il Tribunale di Firenze a sollevare la questione di legittimità costituzionale che, sotto diversi profili, investe gli artt. 495 c.p. e 64 c.p.p., nasce dalle dichiarazioni rese, in sede di identificazione, da un soggetto il quale, dopo avere eletto domicilio e provveduto alla nomina del difensore, dichiarava di non avere precedenti, sebbene avesse già riportato due condanne divenute ormai definitive. Questa condotta sfociava nell’apertura di un procedimento penale, nel corso del quale era contestata al soggetto la fattispecie di cui all’art. 495 c.p.p., norma che punisce «chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona» e che, secondo la giurisprudenza, si applica a chi mente sui propri precedenti penali [12] ma anche a chi rende false dichiarazioni su una qualunque delle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. [13]. Il regime di tali informazioni, che precedono solitamente l’interrogatorio vero e proprio, di fatto si caratterizza per l’assenza di garanzie. Esse vengono acquisite dall’autorità nel momento in cui procede all’identificazione, momento in cui il soggetto è invitato a dichiarare, oltre alle proprie generalità, «quant’altro può valere ad identificarlo». Nello specifico, all’interessato è chiesto di dichiarare se ha un soprannome, uno pseudonimo, se ha beni patrimoniali e quali sono le sue condizioni di vita individuale familiare e sociale, se è sottoposto a processi penali, se ha riportato condanne penali nello Stato o all’estero. Orbene, anche se tali informazioni vanno oltre il concetto di identificazione e diversi argomenti [14] inducono a ritenere che non siano riconducibili alle “altre qualità personali” rispetto alle quali esiste un obbligo di verità sanzionato penalmente, la giurisprudenza ha sempre ritenuto che anch’esse esulassero dall’ambito operativo del diritto al silenzio [15] e che, pertanto, il soggetto interessato dovesse rispondere in modo veritiero su di esse [16]. Sennonché, il giudice rimettente, muovendo da una disamina delle garanzie che devono essere riconosciute al soggetto sottoposto a procedimento nel momento in cui è chiamato a rispondere [continua ..]


3. La soluzione del giudice delle leggi

Verificata, in via preliminare, l’ammissibilità delle questioni sollevate in via principale e subordinata, entrambe vertenti sull’estensione del diritto al silenzio della persona sottoposta a procedimento penale, sul presupposto che esso copra non solo le circostanze attinenti al fatto ma anche quelle che riguardano la persona, la Corte ha chiarito che ad essere oggetto di censura non fosse il regime previsto per le domande relative alle generalità della persona, bensì quello applicabile alle ulteriori domande che l’autorità procedente – in forza dell’art. 21 disp. att. c.p.p. – è tenuta a formulare quando procede ai sensi dell’art. 66, comma 1, c.p.p. Si tratta, come già detto, di ulteriori quesiti relativi al soprannome, allo pseudonimo, all’ eventuale disponibilità di beni patrimoniali, alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale, nonché dell’invito, rivolto all’identificando di dichiarare se sia sottoposto ad altri processi penali, se sussistano a suo carico condanne nello Stato o all’estero, e se eserciti o abbia esercitato uffici o servizi pubblici, servizi di pubblica necessità o cariche pubbliche. Con riferimento a queste circostanze la giurisprudenza di legittimità da sempre esclude che sussista in capo alla persona sottoposta a procedimento un obbligo di rispondere, a differenza di quanto accade per le generalità, nondimeno ove la persona interrogata risponda e affermi il falso, ritiene sia ravvisabile nei suoi confronti il delitto di cui all’art. 495 c.p. Questa stessa giurisprudenza, d’altro canto, nega che le domande di cui all’art. 21 disp. att. c.p.p. abbiano attinenza con il diritto costituzionale di difesa e, pertanto, non richiede che la persona debba essere avvertita della facoltà di non rispondere ad esse, ben potendo anzi le stesse essere formulate subito dopo l’ammonimento previsto dall’art. 66, comma 1, c.p.p. circa le conseguenze cui si espone chi rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false [19] e le eventuali dichiarazioni essere utilizzate contra reum, in sede cautelare o di merito. Ricordato come nel tempo, l’area del diritto al silenzio si sia ampliata fino al punto di operare anche prima della instaurazione di un giudizio penale, in procedimenti che possono portare all’applicazione di sanzioni [continua ..]


4. Un ulteriore passo verso l’effettività del diritto al silenzio

Con questa pronuncia la Corte costituzionale realizza un ulteriore passo verso il pieno riconoscimento del diritto al silenzio. É risaputo che l’effettività di un diritto passa anche per la conoscenza da parte del titolare della sua fruibilità. Lo Stato di diritto che riconosce al singolo determinati diritti pubblici soggettivi di fronte agli organi statali, non può non considerare l’eventualità che il singolo ignori di esserne titolare e, dunque, deve prevenire una tale situazione, informando direttamente il soggetto e ponendolo così nella condizione di esercitarli. Solo così si passa da un astratto riconoscimento del diritto a una situazione di potenziale ed eventuale fruibilità dello stesso, e solo così si realizza quella situazione di eguaglianza sostanziale che è imposta dall’art. 3 della Costituzione. Del resto, anche se il più delle volte sopperisce all’ignoranza dell’imputato il difensore, vi sono delle situazioni in cui è opportuna una tutela anticipata del soggetto nei confronti dell’autorità, come nei casi in cui non è ipotizzabile un contatto con il difensore e nei quali ancor più si giustifica siffatto avvertimento. Bene, dunque, che la Corte abbia esteso l’obbligo della previa formulazione degli avvertimenti ex art. 64 comma 3 c.p.p. anche alle domande relative alle circostanze di cui all’art. 21 disp. att. c.p.p. Resta da chiedersi se la scelta di negare valenza difensiva al mendacio su queste circostanze, affermando che «l’autorità procedente deve poter confidare, sulla veridicità di queste dichiarazioni liberamente rese dall’interessato, apparendo ciò del resto funzionale anche all’interesse di questi a non vedere adottate nei propri confronti misure cautelari inutili o comunque eccessive, rispetto alle reali esigenze di contenimento della sua pericolosità o del periculum attinente ai beni potenzialmente oggetto di misure reali» [22], non determini un vuoto di tutela, considerato che la giurisprudenza ritiene pacificamente utilizzabili contra reum suddette dichiarazioni. In considerazione di ciò e del fatto che l’unico obbligo di verità che grava sull’imputato riguarda le proprie generalità e quanto è strettamente necessario a identificarlo, la Corte avrebbe dovuto riconoscere con [continua ..]


NOTE