Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Il ruolo del giudice nella stagione della celerità processuale (di Elena Maria Catalano, Professoressa associata confermata di Diritto processuale penale – Università dell'Insubria)


Una riflessione sul ruolo del giudice al tempo del processo efficiente impone all’interprete di confrontarsi sia con la tendenza del legislatore a sagomare in senso restrittivo in malam partem gli ambiti della discrezionalità del giudice sia con la antitetica tendenza alla valorizzazione degli aspetti emotivi del giudizio. L’eredità morale del giudice Livatino può fornire un insegnamento quanto mai prezioso nel periodo attuale in cui la fisionomia stessa del giudizio è messa in crisi da opposte correnti di pensiero e l’affermarsi di una sorta di idea cibernetica di giustizia penale rischia di produrre ripercussioni sul ruolo del giudice.

The mission of the judge and the world of values in modern society

The legacy from Rosario Livatino stands in the learning that justice should come out not only from the words of the law, but mainly from the very depth of the heart. Notwithstanding the strong appeal that arises from the cybernetic culture in modern society, the mission of the judge should be the one of opening the arms and hearing the voices of all those who stand at trial to seek lawful remedies.

SOMMARIO:

1. Un dilemma a tre corni: il ruolo del giudice nell’era dell’intelligenza artificiale e della rivalutazione della componente emotiva del giudizio - 2. Exprit de géométrie e exprit de finesse nella penetrazione del mistero del giudizio - 3. Giudice, media e giusto processo - NOTE


1. Un dilemma a tre corni: il ruolo del giudice nell’era dell’intelligenza artificiale e della rivalutazione della componente emotiva del giudizio

Il dibattito attuale sul processo penale restituisce l’immagine di una cultura processuale profondamente divisa e incerta che si sofferma ora sulla idoneità delle scelte di politica legislativa rispetto all’obiettivo di celerità e semplificazione del processo, ora sulle ricadute di una logica efficientista rispetto ai principi informatori del sistema. Al di là della condivisibilità o meno delle singole scelte tecniche, l’obiettivo pur meritorio di una riduzione dei tempi processuali in linea con le indicazioni europee presenta il rischio di coinvolgere una sorta di concezione cibernetica della attività legislativa, intesa come risposta immediata ai bisogni di giustizia e di sicurezza del popolo, a fronte dei quali non solo arretrano i principi della coerenza interna del sistema e addirittura della compatibilità con i principi fondamentali, ma si perde la stessa consapevolezza della necessità di un modello processuale che sia espressione di un sistema di valori. Si coglie l’eco di questa concezione, in filigrana, nello scolorimento, percepibile soprattutto nei giudizi di appello e di cassazione, di quel principio di oralità che rappresenta un grande incompreso del modello accusatorio. L’affermarsi dell’idea cibernetica di giustizia penale presenta il rischio ulteriore di produrre ripercussioni sul ruolo del giudice e di favorire la china della “giurisprudenza difensiva”, appiattita sul conformismo, sulla soluzione più ovvia, sui precedenti giurisprudenziali consolidati [1]. Già Virgilio Andrioli nel 1948 dalle pagine della Rivista di diritto processuale metteva in guardia dal rischio che il consolidamento delle massime potesse sortire l’effetto di esonerare il magistrato dal compimento di delicate operazioni mentali e potesse rendere “meccanica l’attività di sussunzione del fatto al diritto” [2]. Per altro verso si assiste a una sorta di ciclico ritorno, auspicato o realizzato, degli automatismi legislativi in malam partem, quali le presunzioni in materia di legittima difesa e di custodia cautelare o le pene accessorie fisse. Affiora una sorta di demonizzazione della discrezionalità del giudice portata avanti dalla corrente populista che cavalca l’onda emotiva della deriva vittimocentrica del processo penale. Altrettanto pericolosa appare l’esaltazione della celerità [continua ..]


2. Exprit de géométrie e exprit de finesse nella penetrazione del mistero del giudizio

Rivalutare la componente emotiva del giudizio significa prendere atto che il giudice deve essere in grado di penetrare e di comprendere le vicende e i moventi storicamente ricostruiti nel processo e che la virtù richiesta per questa comprensione è la metis degli antichi greci, la quale, in contrapposizione a nous, raffigura l’intelligenza intuitiva che può assumere molteplici forme: il colpo d’occhio del navigante, l’abilità diagnostica del medico o l’intuizione chiaroveggente del politico[18]. Quella misteriosa e chiaroveggente virtù di intuizione umana, che si chiama “senso della giustizia”, ha poco a che vedere con la tecnica del diritto e con la fredda cerebralità, anche se non autorizza una totale adesione alla teoria romantica di una intime conviction sganciata da ogni legame con il materiale probatorio [19]. Al riguardo, la logica, la matematica e ora l’informatica somministrano all’interprete modelli di analisi del ragionamento giuridico sempre più sofisticati. Al tempo stesso, emerge una tendenza uguale e opposta a una forte rivalutazione dell’exprit de finesse, ovvero della ragione prudenziale piuttosto che della ragione scientifica. Come è noto, il nostro ordinamento ha recepito il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio che evoca proprio esigenze di umanizzazione nella amministrazione della giustizia [20]. L’idea di ragionevolezza include tutti gli attributi della morale e tutti gli attributi della ragione. L’ingenuità semantica della formula dell’oltre ogni ragionevole dubbio approda così ad una rivalutazione della grandezza morale del ruolo del giudice. In questa prospettiva, “nel giudice non conta l’intelligenza, la quale basta che sia normale, per poter arrivare a capire, come incarnazione dell’uomo medio, quod omnes intellegunt: conta soprattutto la superiorità morale” [21]. Della dimensione etica del giudizio era ben consapevole il giudice Livatino che ravvisava nella fede una “istanza vivificatrice della attività laica di applicazione di norme” [22]. Sub tutela Dei è l’iscrizione che appariva sulle agende di Livatino e financo sulla sua tesi di laurea [23]. Ancora una volta gli insegnamenti di Livatino che invocava la protezione divina sull’esercizio della funzionale giurisdizionale possono essere [continua ..]


3. Giudice, media e giusto processo

Nel corso della causa di beatificazione emerge un altro aspetto peculiare della vita del giudice Livatino: il rapporto con il mondo dell’informazione e con i giornalisti. Il giovane magistrato era categorico nella sua riservatezza. In occasione del processo “Santa Barbara”, la prima indagine antimafia del­l’agrigentino, i giornalisti chiesero ai giudici di posare per una foto ricordo, ma Rosario Livatino si rifiutò, perché “non riteneva giusto mettersi in posa …atteggiamento che avrebbe potuto essere scambiato per una autocelebrazione della magistratura” [34]. Il giovane giudice aveva ben presente i rischi del circo mediatico-giudiziario con una lungimiranza che si sarebbe rivelata profetica. La celebrazione dei paralleli processi mediatici viene infatti a condizionare la conduzione del processo penale, intaccandone la credibilità. Al tempo stesso, le distorsioni del sistema processuale aggravano le degenerazioni della cronaca giudiziaria. L’insegnamento di Livatino assume carattere quanto mai attuale alla luce del furore giustizialista suscitato dalla norma appena varata in prima lettura dalla Camera in tema di divieto di pubblicazione dell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che applica la misura della custodia cautelare. La norma può essere invece salutata con favore in quanto si presta a contrastare lo scenario magistralmente dipinto a tinte fosche da un noto giornalista di cronaca giudiziaria secondo cui nel circo mediatico giudiziario “nessuno si salva: qui vince comunque il più scorretto, a prescindere dal lavoro che fa. Vince il magistrato più ambizioso o più vanitoso che vuole usare i giornalisti; ma vince anche l’avvocato più aggressivo e scorretto; vince l’imputato (sia concesso l’errore) più eccellente, vince il poliziotto-carabiniere-finanziere meglio introdotto nel circuito mediatico ai fini della sua progressione in carriera o della sua logica di cordata interna; e vince il giornalista più spregiudicato” [35]. Il cono d’ombra nei rapporti tra giustizia e informazione si proietta sui valori fondamentali del sistema giudiziario e sull’equilibrio garantito dal giusto processo [36]. La deriva dei rapporti tra media e giustizia risente, inoltre, della sempre più capillare diffusione di quella popular mind che vede il “risultato della [continua ..]


NOTE