Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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Diritto di difesa e diritti processuali del soggetto nella giustizia riparativa (di Pasquale Raucci, Dottore di ricerca in Diritto processuale penale – Università della Campania Luigi Vanvitelli)


La “giustizia riparativa” costituisce uno strumento procedimentale che, pur distinguendosi dalla tradizionale giurisdizione, non manca però di prevedere dei “ponti di collegamento” con il procedimento penale. Sono varie, in effetti, le norme che disciplinano i rapporti tra giustizia riparativa e processo penale, in specie sia quanto al profilo del suo impulso che di quello della (in)utilizzabilità degli atti compiuti. Proprio in queste maglie, tuttavia, sembrano celarsi dei difetti di garanzia per il soggetto che vi partecipa, con particolare riferimento al diritto di difesa ma anche ad altri diritti processuali di rilievo. Tali problematiche, unite ad una non certa applicabilità di effetti favorevoli per il soggetto coinvolto, potrebbero influire sulla buona riuscita dell’istituto.

Right of defense and procedural rights of the person in restorative justice

“Restorative justice” constitutes a procedural tool which, although distinct from traditional jurisdiction, does not fail to provide “connection bridges” with criminal proceedings. In fact, there are various rules that govern the relationship between restorative justice and criminal proceedings, in particular both in terms of its initiation and that of the (un)usability of the acts performed. Precisely in these links, however, there seem to be defects in the guarantee for the person who participates, with particular reference to the right of defense but also to other significant procedural rights. These problems, combined with an uncertain applicability of favorable effects for the person involved, could influence the success of the institute.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Diritto di difesa e diritti processuali del soggetto - 3. Sui diritti processuali - 4. Sul diritto di difesa - 5. Effettività della procedura - NOTE


1. Premessa

La materia della “giustizia riparativa” offre davvero tanti spunti di riflessione.

Ciò è la naturale conseguenza del fatto che, allontanandosi da una concezione tradizionale del “fare giustizia”, tale nozione rimanda a un ambito concettuale che ingloba presupposti antropologici, questioni filosofiche, dati criminologici, norme giuridiche e prassi dialogico-riconciliative che, nel tempo, hanno concorso a delineare un modello teorico di giustizia autonomo.

Ad ogni modo, questo intervento sarà focalizzato solo su due aspetti, invero, tra loro collegati: i) diritto di difesa e tutela dei diritti processuali del soggetto; ii) effettività della nuova procedura.


2. Diritto di difesa e diritti processuali del soggetto

Giacché la prima questione riguarda il diritto di difesa e diritti processuali del soggetto, preliminarmente ci si deve porre il quesito della “natura giuridica” della “giustizia riparativa”. Orbene, mutuando le riflessioni ampiamente svolte in tema di “mediazione penale” è pacifico che a tale procedura debba essere assegnata “natura pubblicistica”.

Quanto ai rapporti specifici rispetto al procedimento penale, si è detto che esso è un sistema multiforme, nuovo nel panorama della giustizia penale; è un sistema di giustizia che si affianca a quella contenziosa e che procede in parallelo rispetto ad essa [1].

Tal è, allora, un procedimento “accessorio”, “eventuale” e “collegato” ad una sequenza procedimentale penale. Ne è prova l’ampia formulazione di cui al secondo comma dell’art. 44 d.lgs. n. 150/2022, ove si prevede praticamente la possibilità di avviare il programma mediativo in relazione ad un ampio ventaglio di ipotesi, ivi compresi i casi in cui il soggetto sia stato destinatario di una pronuncia di proscioglimento in rito, nonché anche successivamente alla stessa esecuzione della pena [2]. L’eventualità del segnalato procedimento, invece, discende dalla previsione del principio generale sulla “partecipazione libera e volontaria”.

Orbene, la questione allora diventa questa: fino a che punto è tutelato il diritto di difesa del soggetto? E poi, i suoi diritti aventi rilievo processuale sono effettivamente salvaguardati?

Invero, ferma restando la caratteristica sui generis della “giustizia riparativa”, che è “altro” rispetto alla tradizionale giurisdizione, tale che non possono in essa trapiantarsi i principi e diritti tipici del processo penale, tuttavia si ravvisano degli aspetti problematici proprio in quei nodi di collegamento tra questo innovativo strumento ed il procedimento penale.


3. Sui diritti processuali

Nell’ambito delle norme che stabiliscono dei “ponti” tra il percorso di giustizia riparativa ed il procedimento penale, vi è innanzitutto l’art. 50 d.lgs. n. 150/2022, relativo al “dovere di riservatezza” del mediatore.

Il collegamento è ravvisabile in quella parte della previsione normativa in cui si prevede un espresso caso di esclusione del “dovere di riservatezza” qualora “il mediatore ritenga la rivelazione assolutamente necessaria per evitare la commissione di imminenti o gravi reati ovvero che le dichiarazioni integrino di per sé reato [3].

Per come costruita la norma, allora, sembra che al mediatore non venga conferita la “facoltà” di scelta sul se riferire o meno la notitia criminis in questi indicati casi, bensì gli venga rimessa la sola “scelta tecnica” sulla “assoluta necessarietà” della rivelazione affinché si eviti la commissione di “imminenti o gravi” reati. Pertanto, sussistendo tale requisito, di tutta evidenza il mediatore sarà obbligato a rivelare quanto a lui riferito. Inoltre, nella seconda ipotesi (id est “(...) ovvero che le dichiarazioni integrino di per sé reato”) neanche vi è una qualche sorta di scrutinio. In effetti, una dichiarazione o costituisce reato in sé o non la costituisce e, nel primo caso, il mediatore sarà tenuto a rivelarne il contenuto all’Autorità giudiziaria.

È chiaro, allora, che in tali ipotesi il mediatore dovrà rivelare all’A.G. il contenuto delle dichiarazioni a lui riferite. Queste, poi, saranno pienamente utilizzabili nel procedimento penale in ragione di quanto previsto al successivo art. 51, rubricato “Inutilizzabilità”.

In effetti, con tale ultima norma si prevede espressamente che “1. Le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del programma non possono essere utilizzate nel procedimento penale e nella fase dell’ese­cuzione della pena, fatti salvi i contenuti della relazione di cui all’articolo 57 e fermo quanto disposto nell’articolo 50, comma 1”. Dunque nulla di quanto riferito nel corso del programma di giustizia riparativa può essere utilizzato se non proprio tali affermazioni.

Pertanto, se l’art. 50 d.lgs. n. 150/2022 è definibile il “ponte di collegamento” tra le due procedure, prevedendo un obbligo o una facoltà di riferire la notitia criminis, il successivo art. 51 assicura una piena utilizzabilità delle dichiarazioni apprese dal mediatore nel susseguente procedimento penale.

Sembra, in effetti, che qualora uno dei soggetti che partecipi al tentativo di mediazione renda delle dichiarazioni inerenti a reati anche non gravi che stia per commettere, o a reati gravi che abbia in programma di commettere, pure in concorso con altri soggetti, queste sue dichiarazioni saranno pienamente utilizzabili.

Pertanto, cosa succede se il soggetto durante un incontro di giustizia riparativa rende delle dichiarazioni dalle quali si comprende che ha commesso il reato addebitatogli, o stia per commettere un altro reato o ha in programma di commetterne un altro grave? Il mediatore dovrà interromperlo e dargli le previste informazioni? Ci sarà bisogno di un avvocato?

Ovvero, se rende delle dichiarazioni che comportano una responsabilità di altri che siano utili anche per scongiurare la commissione di un successivo reato, non deve essere informato che poi assumerà l’ufficio di testimone?

Orbene, stando alla lettera della norma, è chiaro che l’utilizzabilità delle dichiarazioni scatta rispetto a reati che ancora non sono commessi e che si stia per compiere o si abbia in programma di compiere. Rispetto a responsabilità per reati già commessi c’è, allora, la necessità di tutela della difesa quando le dichiarazioni che si rendono possono essere utilizzate anche per accertare la pregressa responsabilità, sebbene l’impiego debba essere in primo luogo riannodato alla probabilità di commissione di futuri reati. A questo proposito, in tema di utilizzabilità non solo a fini preventivi, sembra essere possibile l’impiego anche per accertare la responsabilità pregressa perché – a differenza di quanto sancisce la giurisprudenza per l’anonimo – non vi è alcuna limitazione funzionale all’utiliz­zabilità delle dichiarazioni nei casi suddetti, ammenoché ciò non lo faccia in futuro la giurisprudenza in via pretoria. L’utilizzabilità, allora, sussiste, come detto, pure rispetto all’accerta­mento di pregresse responsabilità, fermo rimanendo che debba esserci l’utilità anche per scongiurare futuri reati.

Un primo aspetto problematico, pertanto, è che l’art. 51 d.lgs. n. 150/2022 deve essere raccordato innanzitutto con l’art. 63, commi 1 e 2, c.p.p. in tema di “dichiarazioni autoindizianti”. Ma, ancora, un altro profilo meritevole di approfondimento attiene alla necessità che tale norma sia coniugata con quanto previsto all’art. 64, comma 3, lett. c), c.p.p., in tema di avvisi, tutte le volte in cui tali dichiarazioni riguardino la responsabilità di altri soggetti.

Ciò anche tenuto conto del fatto che al comma 5 dell’art. 52 si prevede che il mediatore “non ha obblighi di denuncia in relazione ai reati dei quali abbia avuto notizia per ragione o nel corso del programma di giustizia riparativa, salvo che vi sia il consenso dei partecipanti alla rivelazione, che il mediatore ritenga la rivelazione assolutamente necessaria per evitare la commissione di imminenti o gravi reati ovvero che le dichiarazioni integrino di per sé reato” ovvero sempre in quelle medesime ipotesi disciplinate al primo comma dell’art. 50. Non avere l’obbligo implica la previsione in suo capo di una “facoltà”: egli, allora, se lo ritiene, è libero di denunciare qualsivoglia reato di cui sia venuto a conoscenza per ragione del suo incarico.


4. Sul diritto di difesa

Limitando l’analisi alla garanzia sul “diritto di difesa”, sembrano emergere taluni aspetti problematici.

Come detto supra, punti fermi della disciplina sulla giustizia riparativa sono: a) ai programmi si può accedere in ogni stato e grado del procedimento, ed anche in caso di proscioglimento in rito, ovvero qualora si versi nella fase di esecuzione della pena o dopo la sua espiazione (cfr. art. 44 co. 2 d.lgs. n. 150/2022); b) esiste un principio generale sulla partecipazione libera e volontaria, in ragione della possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa sulla base del consenso libero e informato della vittima del reato e dell’autore del reato.

Ciò vale per le “parti”. Per i “difensori”, invece, sembrano valere regole differenti.

In effetti, come vedremo, manca la previsione sulla garanzia – o quantomeno sul diritto – all’assi­stenza defensionale in ogni scansione procedimentale in cui si articola il programma di giustizia riparativa. Ciò, invero, sembra emergere dal complesso della disciplina dettata sul punto [4].

All’art. 54, comma 2, d.lgs. n. 150/2022, in effetti, si stabilisce la (sola) “facoltà” per i difensori del­l’offensore e della vittima di intervenire ai “colloqui preliminari”.

Il ruolo secondario, o comunque meramente eventuale, del difensore trova poi conferma nell’art. 56 ove si prevede espressamente che i difensori hanno facoltà di partecipare solamente nella fase di definizione degli accordi, relativi ad “esiti materiali”.

Invece qualora si tratti di accordi aventi ad oggetto “esiti simbolici” tale facoltà non è neanche prevista, prevedendosi la sola garanzia della presenza del mediatore [5].

Si è detto, allora, che tale scelta legislativa sarebbe dovuta al fatto che “la presenza dei difensori finirebbe con il rappresentare una causa di possibile alterazione del dialogo riparativo [6].

Stando a queste disposizioni, allora, tal è un procedimento in cui non è garantito il diritto di difesa ex art. 24 cost. come in ogni altro procedimento penale, nonostante: i) abbia ad oggetto una (possibile) condotta criminosa, o ritenuta tale, rispetto alla quale non sempre le dichiarazioni rese sono inutilizzabili; ii) possa essere avviata da un giudice penale anche d’ufficio ex art. 129-bis c.p.p.; iii) gli esiti confluiscono o possono confluire nel giudizio penale a fini valutativi; iv) il procedimento penale viene sospeso in attesa del suo esito (ad es. fase post avviso art. 415-bis c.p.p.); v) è probabile che in quella sede possano essere riferiti ulteriori fatti-reato (con dichiarazioni utilizzabili se collegate alla probabilità di commissione di successivi crimini), tanto è vero che sono state previste delle norme apposite agli artt. 50 e 51 d.lgs. n. 150/2022 in cui si stabilisce che tali propalazioni sono pienamente utilizzabili nel processo penale, e l’art. 52 prevede una facoltà di denuncia da parte del mediatore.

Si badi che ciò di cui si lamenta non è la mancata previsione di un “obbligo” di assistenza alla persona da parte del difensore, bensì il “diritto” di quest’ultima ad essere assistita.

L’affermata esigenza di “consentire che il programma di giustizia riparativa possa svolgersi in uno spazio protetto di ascolto e di gestione delle emozioni e dei bisogni connessi all’esperienza di vittimizzazione”, rispetto a cui si ritiene che la figura del difensore sia di ostacolo [7], non può essere aprioristicamente valutata e risolta nel senso di escludere tale figura professionale. Deve, invece, essere rimessa alla scelta della parte interessata la facoltà sulla decisione di farsi assistere o meno in tale scansione procedimentale, anche e soprattutto in ragione degli interessi che sono in gioco.

Come in dottrina si è già segnalato, allora, sarebbe da pensare (o forse, a questo punto, rimeditare?) e da costruire il rapporto fra diritto di difesa e cultura della mediazione, all’interno di una dimensione funzionale che guardi, cioè, non solo essenzialmente ai poteri esercitati, ma anche differenzialmente ai rapporti che la mediazione instaura con le sue adiacenze, vale a dire con le altre funzioni del processo, per coglierne le proiezioni strutturali ed evolutive anche su questo versante [8].


5. Effettività della procedura

Alla questione sui diritti processuali del soggetto che entrano in gioco durante un percorso di giustizia riparativa è collegato anche un problema di effettività e di successo di tale innovativo strumento.

È chiaro che tale nuova procedura muove dall’aspetto interiore del soggetto, dunque una vera resipiscenza nell’animo, ma volendo soppesare i costi coi benefici, sembra che la bilancia penda troppo verso i primi.

In effetti, stando alla lettera della norma di cui all’art. 58 d.lgs. n. 150/2022, “L’autorità giudiziaria, per le determinazioni di competenza, valuta lo svolgimento del programma e, anche ai fini di cui all’articolo 133 del codice penale, l’eventuale esito riparativo”, la fase riparativa produce effetti nel momento giurisdizionale di commisurazione della pena, ex art. 133 cp, così come può essere parametro di valutazione per altri, non meglio indicati, aspetti i quali evidentemente sono lasciati all’apprezzamento del giudicante. L’idea corre subito verso le soluzioni deflattive (estinzione per condotte riparatorie ex art. 162-ter c.p.), messa alla prova (168-bis ss. c.p.; 464 ss. c.p.p), tenuità del fatto (ex art. 131-bis c.p., soprattutto in ragione alle condotte post delictum).

Tali possibili soluzioni, tuttavia, restando confinate nella sola sfera di discrezionalità del giudicante, potrebbero non esercitare un’influenza determinante nel soggetto indicato come l’autore del fatto volta all’adesione a tali programmi. I “solo possibili” benefici evincibili dal dettato normativo, allora, potrebbero essere un limite alle potenzialità dell’istituto di nuovo conio. Il soggetto indicato come l’autore, invero, potrebbe anche essere disincentivato ad intraprendere tali strade perché, se da un lato mancano le certezze applicative dei benefici legislativamente previsti, dall’altro, al contrario, non vi sono dubbi quanto a deficit di tutela.

Orbene, de iure condendo, si potrebbe prevedere:

1)  una presunzione di assenza di pericolosità, o forte attenuazione della pericolosità, cui collegare, ad esempio, la valutazione su eventuali misure cautelari;

2)  una “non procedibilità”, collegata al rispetto della riserva di legge e giurisdizione mediante a) la previsione di partecipazione obbligatoria al programma di uno o più enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato; b) discrezionalità del giudice (per rispettare tanto l’art. 13 che l’art. 27, comma 2, Cost.) [9].

Ma, ancora, si potrebbe prevedere che, nella (eventuale) susseguente fase giudiziale, l’Autorità procedente debba fare uso di quegli istituti, che l’ordinamento giuridico già contempla, di immediata fuoriuscita dal processo o, ancora, di strumenti alternativi al processo o, anche, che diano la certezza di benefici in termini di esclusione della carcerazione oltre che di diminuzione di pena.

Pertanto, a titolo solo esemplificativo, possa considerarsi come obbligatorio, una volta certificato l’esito positivo del programma riparativo: i) sancire la doverosa applicazione di soluzioni di fuoriuscita dal circuito processuale in conseguenza del buon esito della procedura (cfr. artt. 162-ter, 168-bis ss., 131-bis c.p.); ovvero ii) doverosa applicazione delle pene sostitutive, anche con margini più elevati, ovvero iii) subordinare il patteggiamento ex art. 444 c.p.p. o la sospensione condizionale della pena ex art. 163 c.p. al buon esito di tali procedure.

In tal modo, se da un lato non si spezza il filo che lega la commissione del fatto-reato alla risposta sanzionatoria dello Stato, dall’altro si favoriscono davvero strade diversificate alla classica emenda coercitiva impartita dall’ordinamento. Ciò consente, in altre parole, di salvaguardare la legittimità del modello alla luce delle superiori esigenze costituzionali di prevenzione generale e speciale, bilanciando tali esigenze con quella di effettività del mezzo riparativo.

La previsione di applicazione automatica di istituti maggiormente benevoli per l’imputato che abbia concluso con successo un programma di giustizia riparativa favorirebbe, probabilmente, l’utilizzo di tali modelli, i cui esiti saranno portati innanzi all’Autorità decidente, nella salvaguardia altresì delle funzioni costituzionali di prevenzione speciale e generale.

In effetti, al contrario, ponendosi dal lato del soggetto indicato come l’autore del fatto, non sembrerebbe appetibile una procedura che: i) nasca come conseguenza di un reato; ii) dalla partecipazione resta escluso, almeno nel nucleo essenziale, il suo difensore; iii) se tale soggetto renda delle dichiarazioni auto/eteroaccusatorie il mediatore potrebbe, o in talune ipotesi dovrebbe, trasmettere la notizia di reato in Procura; iv) eventuali dichiarazioni auto/eteroaccusatorie su anche gravi reati che tale soggetto abbia reso, senza essere assistito dal proprio difensore, saranno poi utilizzate nel processo penale nei limiti del libero apprezzamento del giudice a fini valutativi, se sfruttabili per evitare la commissione di futuri reati, ma non senza che se ne impedisca allora l’impiego pure per l’accertamento della pregressa responsabilità.


NOTE

[1] Così Relazione del Massimario della Corte di Cassazione, n. 2/2023 del 5 gennaio 2023, p. 277.

[2] M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia (profili processuali), in www.
sistemapenale.it
, 2 novembre 2022, pp. 14-15, in effetti, afferma che “il procedimento penale rappresenta il luogo naturale in cui le parti del conflitto vanno informate della possibilità di iniziare un percorso di giustizia riparativa”.

[3] Il testo completo dell’art. 50, comma 1, d.lgs. n. 150/2022 prevede che: “I mediatori e il personale dei Centri per la giustizia riparativa sono tenuti alla riservatezza sulle attività e sugli atti compiuti, sulle dichiarazioni rese dai partecipanti e sulle informazioni acquisite per ragione o nel corso dei programmi di giustizia riparativa, salvo che vi sia il consenso dei partecipanti alla rivelazione, che il mediatore ritenga la rivelazione assolutamente necessaria per evitare la commissione di imminenti o gravi reati ovvero che le dichiarazioni integrino di per sé reato”.

[4] Ragion per cui, M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente, cit., p. 20, afferma che “I difensori dei soggetti interessati si fermano infatti sulla soglia del Centro”.

[5] Art. 56, comma 4, d.lgs. n. 150/2022: “4. È garantita alle parti l’assistenza dei mediatori per l’esecuzione degli accordi relativi all’esito simbolico.

5. I difensori della persona indicata come autore dell’offesa e della vittima del reato hanno facoltà di assistere i partecipanti nella definizione degli accordi relativi all’esito materiale”.

In proposito, ad ulteriore riprova dell’esclusione della partecipazione dei difensori durante le fasi cruciali del programma di riparazione, la Relazione del Massimario della Cassazione, cit., p. 337, specifica proprio come “(...) in tale contesto i difensori della persona indicata come autore dell’offesa e della vittima del reato hanno facoltà di intervenire ai menzionati colloqui preliminari (...). Analogamente, i menzionati difensori possono presenziare in occasione del primo incontro in cui si raccoglie il consenso delle parti interessate, ove queste ultime ne facciano esplicita richiesta (...). L’ultima disposizione che contempla una partecipazione attiva del difensore nella fase di esecuzione della giustizia riparativa è [quella] secondo cui, in caso di esito riparativo materiale i difensori della persona indicata come autore dell’offesa e della vittima del reato hanno facoltà di assistere i partecipanti nella definizione degli accordi relativi all’esito materiale (...)”.

[6] Relazione del Massimario della Cassazione, cit., p. 301, ove si legge testualmente che “(...) è prevista la partecipazione dei difensori, su richiesta delle parti, solo in occasione dei colloqui preliminari (art. 54, comma 2) e della definizione degli accordi relativi all’esito materiale (art. 56, comma 5); è escluso, invece, che gli stessi possano essere presenti allo svolgimento della fase centrale del programma e, dunque, all’incontro delle parti in conflitto, in quanto si è evidentemente ritenuto che la presenza dei difensori finirebbe con il rappresentare una causa di possibile alterazione del dialogo riparativo”. Anche M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente, cit., p. 21, afferma che i difensori “finirebbero per alterare il dialogo riparativo”.

[7] Relazione del Massimario della Cassazione, cit., p. 304.

[8] Così P. Ferrua, Difesa, in Dig. disc. pen., 1989, p. 1 ss.; P. Maggio, Giustizia riparativa e sistema penale, cit., p. 24.

[9] Soluzione già proposta in dottrina; si veda, in effetti M. Menna, Mediazione con gli offesi e con gli enti rappresentativi di interessi diffusi, in Dir. pen. proc., 2013, 5, p. 591 ss.; Id, Mediazione penale e modelli processuali, in Dir. pen. proc., 2006, 3, p. 269 ss., in cui si afferma che “bisogna evitare che in modo coevo all’attività mediativa sia operante la pretesa punitiva dello Stato (...). Ciò diventa possibile se si aggancia la mediazione ad una condizione di procedibilità, che solamente dall’esterno influisca sull’iter procedimentale proiettato verso l’azione o verso la sua consumazione rappresentata dalla sentenza”.