Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Giustizia riparativa e responsabilità degli enti (di Rosa Anna Ruggiero, Professoressa associata di Diritto processuale penale – Università degli Studi della Tuscia)


L’Autrice, dopo essersi interrogata sulla possibilità per gli enti imputati di accedere ai programmi di giustizia riparativa e dopo aver valutato se eventuali esiti riparativi potrebbero essere riconosciuti - rebus sic stantibus - nel procedimento penale a carico delle società, conclude con una proposta de iure condendo che aggiorna le condotte riparatorie previste dal d. lgs. n. 231 del 2001 alle novità della restorative justice.

Restorative justice and corporate liability

The Author evaluates the possibility for defendant corporations to access restorative justice programmes and assesses whether any restorative outcomes could be recognised under the currently applicable legal framework in criminal proceedings against companies. She concludes with a de iure condendo proposal that updates the reparative conduct provided for by Legislative Decree no. 231 of 2001 in light of the innovations in matters of restorative justice.

SOMMARIO:

1. Actio finium regundorum - 2. Giustizia riparativa per l’ente imputato: una prospettiva praticabile? - 3. Condotte riparative ex d.lgs. n. 231 ed esiti riparativi ex d.lgs. n. 150 tra diritto vigente e proposte di riforma - NOTE


1. Actio finium regundorum

Prima di ogni altra cosa, un ringraziamento davvero sentito al Direttivo dell’Associazione tra gli stu­diosi del processo penale e al suo Presidente per questo invito così gradito. Grazie anche a Carla Pansini per l’accoglienza affettuosa e l’organizzazione impeccabile di questa giornata di studi. Al piacere di essere qui oggi si aggiunge quello di tenere la mia prima relazione in un convegno dell’Associa­zione a casa di Carla, a cui mi lega una bella amicizia di molti anni.

Vengo subito al tema che mi è stato affidato: “Giustizia riparativa e responsabilità degli enti”. Quando ho iniziato ad immaginare come strutturare questa relazione ho tenuto conto non solo, come ovvio, del titolo che gli organizzatori avevano pensato, ma anche del contesto in cui la mia relazione era stata inserita. La nostra sessione è dedicata, come ci ha ricordato il prof. Di Chiara, che la presiede, alle “Ricadute sul trattamento sanzionatorio della giustizia riparativa”. Ciò mi ha ulteriormente indirizzata a selezionare gli argomenti da trattare, valorizzando alcune prospettive invece di altre, pure possibili e di grande interesse.

Non ho ritenuto casuale che la mia relazione, a differenza di altre di questa giornata, fosse centrata sul tema specifico della giustizia riparativa, relativamente ai profili di intersezione con la responsabilità delle persone giuridiche, e non già – come pure sarebbe stato plausibile – sul tema più generale della “riparazione” dell’ente sottoposto a procedimento penale, ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (d’ora in avanti, “d.lgs. n. 231”). È noto che quando si parla di “riparazione” nella giustizia penale, ci si riferisce alla valorizzazione delle condotte post factum idonee a riparare l’offesa; lì dove invece, la giustizia riparativa, la cui “disciplina organica” è stata introdotta dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (d’ora in avanti, “d.lgs. n. 150”), riguarda un ambito più circoscritto e oramai definito. Secondo quanto prescrive l’art. 42, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150, infatti, per "giustizia riparativa" deve intendersi «ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore».

Pertanto, proverò a condividere le mie riflessioni sulla possibilità di riconoscere uno spazio anche all’ente nei programmi di giustizia riparativa, focalizzando poi l’attenzione sulle eventuali ricadute dell’esito riparativo sul trattamento sanzionatorio.

Data questa premessa, non dovrei prendere in considerazione le condotte riparative previste dal d.lgs. n. 231, che sono – almeno all’apparenza – estranee alla logica della giustizia riparativa. E tuttavia credo sia opportuno richiamarle, seppur brevemente, perché – come avrò modo di dire in conclusione – quelle condotte, o almeno alcune tra esse, possono presentare delle connessioni con gli esiti dei programmi di giustizia riparativa a cui potrebbero pervenire le imprese.

Il riferimento è evidentemente agli artt. 17 e 12 d.lgs. n. 231. L’art. 17, comma 1, stabilisce l’inappli­cabilità delle sanzioni interdittive qualora l’ente, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, abbia risarcito integralmente il danno; eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si sia efficacemente adoperato in questo senso; eliminato le carenze organizzative che hanno reso possibile il reato adottando modelli organizzativi idonei a prevenirlo per il futuro; messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca. Il d.lgs. n. 150 ha novellato la norma attraverso l’inserimento del comma 1-bis, prevedendo, ai medesimi fini, la sufficienza della (sola) adozione di modelli organizzativi adeguati quando la misura interdittiva possa pregiudicare la continuità dell’attività svolta in stabilimenti industriali dichiarati di interesse strategico nazionale.

L’art. 12 d.lgs. n. 231 premia, invece, tra le varie ipotesi, con la riduzione della sanzione pecuniaria l’impegno dell’ente a realizzare le condotte riparative indicate all’art. 17, comma 1, senza tuttavia esigere di corrispondere il profitto ai fini della confisca. Nell’art. 12 le condotte riparative non sono richieste necessariamente in modo cumulativo (come invece accade per l’art. 17). La sanzione pecuniaria è, difatti, ridotta da un terzo alla metà se l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato (o si è adoperato in questo senso) ovvero ha adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della stessa specie (comma 2); dalla metà ai due terzi «nel caso in cui concorrono entrambe le condizioni» (comma 3). Anche quest’ultima precisazione, relativa alla alternatività delle condotte riparative contemplate nell’art. 12, come vedremo, sarà utile per le osservazioni finali.

Nel momento in cui costruivo questa relazione, mi sono anche chiesta se gli organizzatori si aspettassero che io parlassi della controversa applicazione agli enti della sospensione del procedimento con messa alla prova. Non vi sarei tenuta, dal momento che, come è emerso anche oggi, la messa alla prova non rientra nella definizione di giustizia riparativa.

E tuttavia, pure in questo caso, qualche riferimento mi pare necessario. Per due ordini di ragioni. Perché è stato proprio il d.lgs. n. 150 che, nell’introdurre la disciplina organica della giustizia riparativa, ha creato un nesso tra i due istituti: l’art. 464-bis, comma 4, lett. c), c.p.p., rubricato «sospensione del procedimento con messa alla prova», riferito, chiaramente, alle persone fisiche, stabilisce oggi che il programma di trattamento debba prevedere, tra i vari impegni, «condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa e lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa». Dunque è il legislatore ad aver esplicitamente riconosciuto una relazione.

A ciò si deve aggiungere che alcune considerazioni su messa alla prova ed enti appaiono, a mio avviso, significative anche nella prospettiva della giustizia riparativa.

Una precisazione, doverosa: sull’utilità della probation per le persone giuridiche non ho bisogno di soffermarmi. Qualche anno fa, dalle pagine di una rivista, Giorgio Fidelbo ed io abbiamo lanciato la proposta di estendere questa opzione anche agli enti, attraverso una riforma del d.lgs. n. 231, di cui abbiamo delineato dettagliatamente le possibili caratteristiche [1]. Ma, appunto, si trattava di una prospettiva de iure condendo.

Successivamente, in assenza di una presa in carico della questione da parte del legislatore, alcuni giudici di merito hanno iniziato ad autorizzare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova [2] e a dichiarare, di conseguenza, l’estinzione dell’illecito amministrativo da reato, a fronte della buona riuscita del programma. Alla base di queste decisioni, in particolare, l’art. 34 d.lgs. n. 231, che prevede – per ciò che non sia espressamente disciplinato dal d.lgs. n. 231 – l’osservanza delle norme del codice di rito (e connesse norme attuative), se compatibili.

Questa interpretazione non è a mio parere condivisibile, come peraltro osservato da altri giudici di merito che hanno, invece, negato la messa alla prova alle società [3]: non si tratterebbe, infatti, solo di applicare analogicamente le norme processuali (come avviene, per esempio, per il giudizio immediato o il direttissimo, pur non disciplinati dal d.lgs. n. 231), ma norme di diritto sostanziale: i presupposti, il contenuto del programma (peraltro, chiaramente tarato sugli individui) e gli effetti della messa alla prova sono fissati nel codice penale, le cui norme non possono trovare un’applicazione analogica. Né vale il ragionamento per cui, trattandosi di norme di favore, latu sensu premiali, l’analogia sarebbe consentita senza violare la riserva di legge e la tassatività: il principio di legalità e l’esigenza di certezza del diritto devono valere sempre.

Non sorprende, quindi, la recente sentenza con cui le sezioni unite hanno negato che gli enti possano essere messi alla prova [4]. La decisione è condivisibile, ma le argomentazioni si direbbero incongrue: la soluzione, infatti, a rigore sarebbe dovuta passare attraverso la qualificazione della sentenza di dichiarazione di estinzione dell’illecito (e, a monte, del provvedimento di autorizzazione alla prova) come abnorme per le ragioni sopra (in parte) esplicitate. Ma sulla decisione delle sezioni unite non è il caso di dilungarsi oltre: rinvio, per chi fosse interessato, ad un mio commento pubblicato su Cassazione penale [5].

Il dato da ritenere acquisito è che per il supremo consesso della Corte di cassazione, rebus sic stantibus, l’ente non può essere messo alla prova e, per l’effetto, maturare l’estinzione dell’illecito amministrativo. Possiamo aggiungere: in assenza di una disciplina ad hoc nel d.lgs. n. 231.

Specularmente va evidenziato che pure nel momento in cui il legislatore ha introdotto la disciplina della giustizia riparativa non ha ritenuto di doverne fare menzione per le persone giuridiche nella normativa di riferimento. Può, dunque, l’ente partecipare ad uno dei programmi di cui all’art. 53 d.lgs. n. 150? E, più in particolare, vi sarebbero ricadute sul trattamento sanzionatorio in caso di raggiunto esito riparativo?


2. Giustizia riparativa per l’ente imputato: una prospettiva praticabile?

Una indicazione utile per dare una risposta positiva alla domanda sembra arrivare dalla Relazione al d.lgs. n. 150, ove si può leggere che la “persona indicata come autore dell’offesa”, che insieme alla vittima e ai rappresentanti della comunità rientra tra i soggetti dei programmi di giustizia riparativa, può essere anche una persona giuridica [6]. Si legge anche che gli enti potrebbero partecipare a questi programmi come vittime: ma si tratta di una prospettiva che, in ragione del titolo della mia relazione, non esplorerò.

Nella Relazione si perviene a questa conclusione per due ordini di motivi: perché l’art. 35 d.lgs. n. 231 consente di estendere all’ente «le disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili»; e poiché in tema di giustizia riparativa si è scelto di non prevedere preclusioni, per esempio in relazione alla gravità delle fattispecie di reato. Una vocazione generalizzatrice che dovrebbe indurre a non escludere gli enti dall’accesso a questo nuovo paradigma di gestione dei conflitti che scaturiscono dai reati.

E, in effetti, non si vede perché le imprese non dovrebbero poter avviare programmi di riconciliazione con le vittime: non vi sarebbero, per esempio, motivi per escludere questa soluzione dovuti a presunte difficoltà di individuazione dei soggetti che dovrebbero – durante gli incontri – rappresentare gli enti. Questi ultimi potrebbero partecipare ai programmi di giustizia riparativa tramite il loro legale rappresentante. Se poi questi fosse il soggetto imputato del reato presupposto, si dovrebbe concludere che l’ente dovrebbe nominarne uno nuovo, secondo la logica dell’art. 39 d.lgs. n. 231, che disciplina, per le persone giuridiche, la rappresentanza ad processum.

Meno scontato che il conflitto scaturito da un fatto di reato che veda coinvolta una società e che pertanto, in linea generale, potrebbe presentare un alto tasso di complessità tecnica, possa essere superato con l’aiuto di un mediatore, che tendenzialmente non avrebbe le cognizioni tecniche richieste [7]. E tuttavia va considerato che la scommessa della giustizia riparativa passerà anche attraverso una adeguata formazione e selezione di coloro che saranno chiamati a svolgere questo genere di attività.

Potremmo, dunque, ipotizzare che i futuri mediatori dovranno avere anche competenze diverse e ulteriori rispetto a quelle attuali. E potremmo pure tener conto del fatto che la giustizia riparativa serve a superare il conflitto, a rimarginare la ferita, e non ad accertare i fatti. E che comunque, al momento della definizione degli esiti riparativi, vi è già una apertura alla partecipazione di “tecnici”: si pensi, difatti, alla circostanza che il d.lgs. n. 150, che ha estromesso i difensori dalla partecipazione agli incontri, li ha riammessi quando si tratta di formalizzare gli accordi, se si riferiscono ad un esito riparativo “materiale”, e non solo “simbolico” (art. 56, comma 5).

A ben vedere, comunque, ciò che nella Relazione si ritiene di poter applicare alle persone giuridiche è la disciplina organica della giustizia riparativa, che tuttavia non attiene al suo impatto nel procedimento penale. Come sappiamo, infatti, il ponte tra i due percorsi (quello riparativo e quello penale) è dato dalle norme riformate o introdotte nel codice penale e in quello di procedura penale. Dire, dunque, che all’ente può essere estesa la disciplina organica della giustizia riparativa – come fa la Relazione – significa ammettere che esso può accedere ai relativi programmi, non che essi rilevino nel procedimento ex d.lgs. n. 231. Nell’ipotesi in cui i programmi dovessero concludersi con un esito ripativo, tale esito, a rigore, rimarrebbe fuori dal procedimento a carico dell’ente, visto che il legislatore non ha ritenuto di doverlo riconoscere.

Né, d’altra parte, si può pensare di usare l’analogia. A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150, come sappiamo, l’esito riparativo è causa di remissione tacita della querela, per i reati sottoposti a questa condizione di procedibilità (art. 152, comma 2, n. 2, c.p.); vale quale attenuante comune per i reati procedibili d’ufficio (art. 62, n. 6, c.p.), per i quali l’esito riparativo rileva anche ai fini indicati nell’art. 133 c.p. Ma è chiaro che si tratta di effetti pensati per i procedimenti a carico degli individui.

Non vi è nemmeno bisogno di indugiare sulla circostanza che, qualora l’ente dovesse raggiungere un esito riparativo per una vicenda scaturita da un reato presupposto procedibile a querela, non vi sarebbero conseguenze sul fronte della procedibilità. Si potrebbe forse osservare che a conclusione differente si possa pervenire qualora al programma riparativo dovesse partecipare anche la persona fisica autrice del reato: in questo caso, infatti, l’esito riparativo, determinando la remissione della querela, produrrebbe l’estinzione del reato da cui l’illecito amministrativo ex d.lgs. n. 231 promana.

E, tuttavia, va considerato che l’art. 8 d.lgs. n. 231 stabilisce il principio dell’autonomia della responsabilità dell’ente, che permane, tra gli altri motivi, quando il reato si estingua per una causa diversa dall’amnistia. In dottrina è stato per la verità osservato che, poiché l’art. 37 d.lgs. n. 231 prevede che non si debba procedere all’accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente quando l’azione penale non può essere iniziata o proseguita nei confronti dell’autore del reato per la mancanza di una condizione di procedibilità, andrebbe assicurato lo stesso trattamento in caso di sopravvenuta carenza: in altre parole, «in un contesto di disciplina in cui non si potrebbe iniziare o proseguire l’accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente in assenza di una querela, si dovrebbe assicurare la medesima conclusione in caso di remissione» [8]. Si tratta di un’interpretazione che ha una sua indubbia razionalità, anche se si rischierebbe in questo modo di sovrapporre due categorie (quella dell’estinzione del reato e quella dell’improcedibilità), che sono viceversa distinte.

Il discorso è troppo complesso per essere adeguatamente affrontato in questa sede. Ciò che rileva, tuttavia, è che comunque, in questa prospettiva, l’esito produttivo di effetti (eventualmente anche sulla responsabilità dell’ente), sarebbe quello riguardante la persona fisica, non certamente la persona giuridica. E tanto basta per chiudere la questione.

Similmente non c’è discussione in ordine alla possibilità di prevedere, per l’esito riparativo dell’ente, il riconoscimento dell’attenuante introdotta per gli individui o il suo impiego ai fini della quantificazione della sanzione. Si tratta, difatti, di norme penali, destinate alle persone fisiche, non estensibili analogicamente (come abbiamo avuto modo di osservare a proposito delle conseguenze della sospensione del procedimento con messa alla prova). A maggior ragione se si considera che il d.lgs. n. 231 presenta una disciplina articolata delle sanzioni e delle cause di loro mitigazione, si deve concludere che non vi sono spazi per interpretazioni analogiche.

Dunque, nel caso in cui fosse l’ente ad avvalersi dei programmi di giustizia riparativa, sembrerebbe non esservi alcuna possibilità di immaginare meccanismi di scambio tra procedimento riparativo e procedimento penale, da valorizzare al momento della definizione del trattamento sanzionatorio.

Ed è anche difficile pensare ad altro genere di vantaggio processuale per l’ente. È noto, infatti, che la giurisprudenza escluda l’eventualità di costituzione di parte civile nel procedimento ex d.lgs. n. 231 [9]: sicché l’esito riparativo non potrebbe, per esempio, nemmeno portare ad un accordo per la rinuncia alla costituzione di parte civile, ovvero alla sua revoca. Né, in altra prospettiva, l’ente potrebbe contare sul fatto che l’esito riparativo concorrerebbe ad una valutazione di particolare tenuità del fatto, oggi che a questi fini rilevano anche le condotte post delictum (art. 131-bis, comma 1, c.p.): pure in questo caso, la Cassazione è stata chiara, prima della novellazione della norma nel senso indicato, nell’escludere questa prospettiva per le persone giuridiche [10].


3. Condotte riparative ex d.lgs. n. 231 ed esiti riparativi ex d.lgs. n. 150 tra diritto vigente e proposte di riforma
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In linea generale, dunque, non resterebbe che concludere nel senso che, allo stato, eventuali esiti riparativi dei programmi che vedessero coinvolto l’ente in qualità di persona indicata come autore dell’offesa non avrebbero alcun effetto sul suo trattamento sanzionatorio.

Tuttavia, va verificato se gli esiti riparativi previsti dal d.lgs. n. 150 presentino delle interferenze con le condotte riparative descritte nel d.lgs. n. 231 e richiamate all’inizio di questa relazione. In caso positivo, infatti, si dovrebbe valutare se gli effetti previsti per queste ultime possano essere riconosciuti anche all’ente che le abbia realizzate a conclusione di un programma di giustizia riparativa. Vediamo, dunque, cosa si intenda per “esito riparativo”, nel d.lgs. n. 150.

L’art. 56 d.lgs. n. 150, rubricato appunto “disciplina degli esiti riparativi”, diversifica, prima di tutto, tra esito riparativo “simbolico” o “materiale”. Il primo «può comprendere dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi». Il secondo «può comprendere il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori». L’impiego della formula “può comprendere” suggerisce – come peraltro era auspicabile – che l’elenco non sia tassativo.

Come si può, dunque, notare, vi è una forte assonanza tra le ipotesi normativamente previste di esito riparativo materiale e alcune condotte riparative descritte nel d.lgs. n. 231.

Alla luce della comparazione, una considerazione mi pare quasi scontata. E cioè che l’esito riparativo non potrebbe tradursi nella esclusione della sanzione interdittiva per l’ente di cui all’art. 17 d.lgs. n. 231: anche a considerare non tassative le fattispecie integranti l’esito riparativo materiale, è allo stato inimmaginabile che l’ente possa pensare in sede di mediazione ad una riorganizzazione di tipo aziendale. E considerato che l’art. 17, come detto in apertura, richiede il concorso di tutte le condizioni previste perché l’effetto si realizzi, si tratterebbe di una eventualità irrealistica.

Più verosimile, invece, la prospettiva di valorizzare l’esito riparativo materiale ai fini dell’applica­zione dell’art. 12 d.lgs. n. 231, che, come ricordato all’inizio, nell’individuare i casi di riduzione della sanzione pecuniaria, li pone in alternativa tra loro. Tra questi casi, abbiamo visto, vi sono proprio il risarcimento del danno e l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Si può pertanto osservare che, qualora l’esito riparativo dovesse presentare questo contenuto, si potrebbe concludere che il giudice penale debba applicare la riduzione della sanzione pecuniaria.

Tuttavia, c’è da domandarsi che interesse avrebbero le persone giuridiche ad intraprendere un programma di giustizia riparativa per realizzare condotte che potrebbero aver luogo in ogni caso nel corso del procedimento penale. Senza contare che non sarebbe affatto scontato che, in assenza di un esplicito riferimento alla giustizia riparativa nel d.lgs. n. 231, il giudice penale ritenga adeguato l’impegno nel contenimento delle conseguenze del reato e il risarcimento concordato in sede di mediazione ai fini della riduzione della sanzione pecuniaria; lì dove, invece, come sappiamo, nel processo agli individui la certificazione dell’esito riparativo da parte del mediatore è ragione sufficiente per applicare l’atte­nuan­te.

Dunque non solo le società potrebbero, con i programmi di giustizia riparativa, ottenere un risultato uguale a quello che conseguirebbero comunque nel procedimento penale, ma rischierebbero di impegnarsi in un percorso che potrebbe anche non essere premiato al momento della quantificazione della sanzione, se il giudice non lo ritenesse sufficiente.

Tuttavia, non vorrei chiudere con un intervento demolitivo. Come si ritiene pacificamente ed è anche oggi emerso, la giustizia riparativa apre orizzonti nuovi, va letta in un’ottica diversa, l’approccio non può essere di tipo puramente utilitaristico, l’esito riparativo materiale è solo una delle possibilità.

E, comunque, sarebbe opportuno che esiti materiali diversi da quelli coincidenti con le condotte riparative ex d.lgs. n. 231 o esiti simbolici, se realizzati dagli enti, pesassero nella vicenda processuale. In altre parole, se si vuole provare a verificare il funzionamento di questo nuovo paradigma di composizione dei conflitti coinvolgendo gli enti, non si può pensare di non creare meccanismi di scambio con il procedimento penale.

Si dice che Francesco Carnelutti sostenesse che ogni relazione ad un convegno dovrebbe concludersi con la proposta di un articolo di legge. Ci provo. Si potrebbe ragionare sulla possibilità di riformare l’art. 12 d.lgs. n. 231, introducendo un nuovo comma del seguente tenore: «la sanzione pecuniaria è ridotta di un terzo quando l’ente, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, abbia partecipato a un programma di giustizia riparativa con la vittima del reato, concluso con un esito riparativo diverso dalle condotte indicate al comma 2». Si tratterebbe di una riduzione congrua rispetto al premio che potrebbe essere riconosciuto a fronte di esiti riparativi materiali e in linea con l’attenuante prevista per gli individui.

Allo stesso tempo si potrebbe anche riscrivere il comma 2, lett. a), d.lgs. n. 231 in questo modo: «la sanzione è ridotta da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è efficacemente adoperato in tal senso, anche all’esito della partecipazione a un programma di giustizia riparativa con la vittima del reato». In questo modo la giustizia riparativa troverebbe un riconoscimento esplicito nel sistema della responsabilità delle persone giuridiche, con tutto ciò che ne consegue.

Va certamente considerato che non sembra esservi (ancora) la volontà politica di intervenire sul d.lgs. n. 231, come dimostra il fatto che sia caduta nel vuoto la proposta di prevedere la messa alla prova anche per gli enti, nonostante si trattasse di una proposta che sembrava aver messo d’accordo tutti.

E, quindi, probabilmente, anche quella sull’art. 12 d.lgs. n. 231 rimarrà solo la battuta finale di una relazione ad un convegno.

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NOTE

[1] G. Fidelbo-R.A. Ruggiero, Procedimento a carico degli enti e messa alla prova: un possibile itinerario, in Riv. 231, 2016, n. 4, p. 3 s.

[2] Trib. Modena, 11 dicembre 2019, in Cass. pen., 2021, p. 2540 s.; Trib. Modena, 15 dicembre 2020, in Giur. pen. web, 2021, n. 2; Trib. Bari, 22 giugno 2022, in Cass. pen., 2022, p. 3624 s.

[3] Trib. Milano, 27 marzo 2017, in Giur. pen. web, 2017, n. 9; Trib. Bologna, 10 dicembre 2020, ivi, 2020, n. 12; Trib. Spoleto, 21 aprile 2021, in Dir. pen. proc., 2022, p. 245 s.

[4] Cass., sez. un., 6 aprile 2023, n. 14840, in Cass. pen., 2023, p. 1912 s.

[5] R.A. Ruggiero, Roma locuta: no alla messa alla prova per l’ente imputato, in Cass. pen., 2023, p. 1928 s.

[6] Relazione illustrativa allo Schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, in Sist. pen., 10 agosto 2022, p. 366.

[7] Cfr. D. Fondaroli, Giustizia riparativa e d. lgs. n. 231/2001 seconda la «Riforma Cartabia», in Riv. 231, 2023, n. 1, p. 125 s. Tuttavia, per una ricognizione di interessanti esperienze di restorative justice maturate in altri ordinamenti, in cui sono state coinvolte le società, v. D. Stendardi, Disposizioni del D. Lgs. 231/2001 a matrice riparativa e possibili intrecci con gli strumenti tipici della Restorative Justice, in Giur. pen. web., 2020, 4, p. 12 s. Sui possibili collegamenti tra giustizia riparativa e responsabilità da reato degli enti, v. anche L. Ricci-A. Savarino, Limiti e potenzialità della restorative justice nel sistema "231". Spunti per una riflessione sulla scia della riforma Cartabia, in Legisl. pen., 29 marzo 2022.

[8] Così M. Pelissero, Principi generali, in G. Lattanzi-P. Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, I, Diritto sostanziale, Torino, Giappichelli, 2020, p. 159.

[9] A partire da Cass., sez. VI, 5 ottobre 2010, n. 2251, in Cass. pen., 2011, p. 2539.

[10] V., da ultimo, Cass., sez. III, 10 luglio 2019, n. 1420, in Cass. pen., 2020, p. 3359.