Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Potenzialità e insidie della giustizia riparativa nella fase di cognizione (di Stefania Carnevale, Professoressa associata di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Ferrara)


La disciplina organica della giustizia riparativa, concepita come indifferente al parallelo scorrere del procedimento penale ed edificata su postulati completamente difformi da quelli propri dell’accertamento processuale, alletta l’im­pu­tato a intraprendere i percorsi riconciliativi con vantaggi sul piano sanzionatorio. Questa antinomia implica, e al contempo complica, la costruzione di punti di giuntura tra le nuove disposizioni e quelle del codice di procedura penale. È in ragione delle possibili ripercussioni positive sul trattamento penale che il codice di rito detta norme di raccordo, regolando l’invio degli interessati ai centri di giustizia riparativa e la ricezione degli esiti dei programmi. L’intreccio tra i vantaggi sostanziali, del tutto incerti, le insopprimibili garanzie processuali e i canoni fondanti della giustizia riparativa rivela numerosi profili problematici che meriterebbero alcuni ripensamenti e qualche opportuno ritocco.

Potential and pitfalls of restorative justice in the ongoing criminal proceedings

The new rules on restorative justice, conceived as indifferent to the parallel progression of criminal proceedings and based on postulates that deeply differ from those of fact-finding activities, entice the accused to undertake reconciliation programs with benefits on the criminal sanction. This inconsistency implies, and complicates, the construction of contact points between the new provisions and those of the code of criminal procedure. Due to the possible positive impact on sentencing, the procedural code sets connecting rules, regulating the sending to restorative justice centers and the reception of the program outcomes. The intersection of the uncertain substantive benefits, the imperative procedural safeguards and the founding principles of restorative justice reveals numerous critical issues that would be worthy of reconsideration and would require some refinements.

SOMMARIO:

1. Dall’ideale dell’alterità ai compromessi con il procedimento penale e il trattamento punitivo - 2. Le ricadute sul trattamento sanzionatorio e le esigenze della giustizia formale - 3. Le potenzialità dei programmi e il ruolo del giudice della cognizione: le insidie dell’inizia­tiva officiosa e della selezione per utilità - 4. Il vaglio sui rischi dei percorsi di giustizia riparativa nella fase di cognizione - NOTE


1. Dall’ideale dell’alterità ai compromessi con il procedimento penale e il trattamento punitivo

Nella disciplina organica della giustizia riparativa, che innesta il nuovo paradigma anche nella fase di cognizione infiltrandosi nelle strutture del procedimento penale in ogni suo «stato e grado» [1], corrono due linee direttrici tra loro in tensione.

Da un lato vi è quella del modello puro, distaccato, etereo, di restorative justice, che persegue i suoi nobili fini di sutura delle ferite, cura del conflitto originato dalla vicenda penale, ripristino dei legami tra i suoi protagonisti e la comunità, disinteressandosi candidamente di quanto accade nel parallelo mondo del processo e pretendendo dai suoi attori un’adesione altruistica, anelante solo all’incontro con l’altro. Concezione, questa, in cui s’inscrivono le previsioni che marcano la cesura tra i due ambiti, ne tratteggiano come del tutto autonomi il passo e i ritmi, ne suppongono lessico e idiomi differenti, forme distaccate e autoportanti: dalle definizioni di autore e vittima del reato risultanti dal glossario stilato dall’art. 42 del d.lgs. n. 150/2022 [2], alle norme che costruiscono i tempi dei dialoghi riparatori come morbidi e dilatati, indifferenti al concomitante scorrere dell’accertamento processuale [3], a quelle che prevedono sollecitazioni ad avviare i percorsi quando non v’è più margine perché l’esito riparativo si ripercuota sulla decisione penale [4].

Dall’altro lato vi è la linea che scende a patti con la realtà e fa fortemente leva sul procedimento penale in corso, vi si appoggia, se ne avvale, lo sfrutta appieno come latore d’informazioni sulle nuove opportunità e s’insinua nelle sue pieghe per allettare, con ricadute sanzionatorie positive, l’imputato.

Del resto, l’interesse dell’offender a pratiche riparative – forme di giustizia sorte e sviluppate indiscutibilmente a favore delle vittime [5] – consiste, secondo il Consiglio d’Europa, nell’incoraggiamento del suo senso di responsabilità, nell’opportunità di riconoscere i propri torti, nel favorire la sua la rinuncia a delinquere [6]. Si tratta evidentemente di un’enunciazione che, se applicata all’imputato, oltre a prospettarne un’assimilazione pressoché totale al colpevole, confina l’adesione mossa da simili intenti all’em­pireo delle utopie. Certamente si può ipotizzare l’avvio di un percorso ricco e fruttuoso di autoconsapevolezza e resipiscenza sopravvenuta a poco tempo dai fatti e prima di una condanna. Ma una spinta dettata da queste sole ragioni e mossa esclusivamente dal desiderio d’incontro con l’altro – colui che addita il co-interessato come autore delle offese penali – non può che essere relegata a nicchie statisticamente trascurabili.

Affinché gli imputati aderiscano a questi programmi occorre un’esca: perché implicheranno dispendio di tempo ed energie, richiederanno spostamenti da organizzare, esigeranno, se presi sul serio, dosi d’impegno anche interiore, da aggiungere a quello – già defatigante – del procedimento in corso; e perché, se tutto andrà bene, comporteranno obblighi prestazionali ed economici, seppur concordati. Per invogliare dunque le persone sottoposte a un procedimento penale ad accettare i confronti facilitati dai mediatori, per i reati minori si prevedono una versione più vantaggiosa della sospensione condizionale, nuove possibilità di rientrare nella tenuità del fatto e, soprattutto, vero cuore pulsante e congegno meglio riuscito della nuova disciplina, la chance d’ottenere la remissione tacita della querela. Per le condotte criminose più gravi – la maggior parte – si prospetta l’impalpabile ingresso della giustizia riparativa nelle nebbie dell’art. 133 c.p. e la possibile applicazione di un’attenuante comune, risultato ben lontano dalle ben più vantaggiose soluzioni teorizzate de iure condendo, dalla fattispecie autonoma di reato assoggettata a un trattamento uguale o più mitigato del tentativo, alle circostanze ad effetto speciale [7].

In questo quadro, non può non rilevarsi come solo nelle prime ipotesi, e soprattutto nel campo dei reati perseguibili a querela, le pratiche di riparazione acquistino il loro significato più forte e convincente, perché fedele al tanto declamato intento di superare la giustizia punitiva tradizionale e sostituirla con una dal volto più mite [8]; negli altri casi, possono forse mitigarne blandamente la ferocia ma con effetti del tutto incerti, data l’inafferrabilità dei criteri commisurativi della pena, l’alea della pesatura delle circostanze e la volubilità dei percorsi extraprocessuali [9]. Così, il rapporto tra potenzialità e insidie della giustizia riparativa nel mare magnum, pur parzialmente prosciugato, della perseguibilità d’uffi­cio non sembra deporre a favore delle prime.

Il passaggio dall’idea di una giustizia finalmente senza spada a quello della «complementarietà» dei due mondi [10], intesa come totale sovrapponibilità e non come spartizione di reciproche aree d’inci­denza, comporta infatti che, per gran parte dei procedimenti, l’accesso a programmi di giustizia riparativa significherà un’aggiunta al carico dell’accusa penale già gravante sulle spalle dell’imputato: un incremento d’incombenze, di tempo di vita sottratto alle attività quotidiane, di condotte a cui vincolarsi e, non da ultimo, un’intensificazione della sofferenza a cui la vicenda giudiziaria lo espone. È l’intima afflizione del reo quello a cui in fondo il cammino riparativo punta: l’ammissione del male commesso, una qualche forma di emenda, forse un rimorso, una consapevolezza in certo modo dolorosa, che dovrebbe attenuare il rischio di future condotte criminose [11]. Ne consegue che fuori dalle ipotesi in cui l’esito del percorso provoca l’estinzione del reato, la sospensione della pena o la non punibilità del­l’autore, la riforma organica consegna non già un modello di giustizia senza spada, ma un sistema ancora armato di violenza punitiva, cui si aggiunge un tracciato per altri versi impegnativo e doloroso.

Vista da questa prospettiva, la giustizia riparativa s’inscrive a pieno titolo nella tendenza alla costante espansione della penalità. Le questioni derivanti dal reato sono, non v’è dubbio, anche psicologiche ed esistenziali, ma oggi s’invita l’imputato, e non gli organi statali, a farsene carico e a contribuire a curarle, oltre a patire un processo e, se condannato, una pena [12]. Ne risulta non tanto un net widening effect [13], ma quello che potrebbe definirsi un pain-widening effect, un plus-soffrire, un aumento del carico di afflizione o impegno, a cui chi subisce il procedimento penale è sollecitato per lenire il dolore o il disagio della vittima, o di chi si dichiari tale [14]. Si tratta di una tendenza che si pone in continuità con quanto riscontrabile da tempo in fase esecutiva, dove si registrano progressivi incrementi del carico lato sensu sanzionatorio gravante sulle persone detenute. Se alla fine degli anni ottanta per punire bastava il carcere e per accedere a misure alternative era sufficiente dimostrare costante serietà nei percorsi intramurari di recupero sociale, oggi si esigono o si incoraggiano, per beneficiare di strumenti risocializzativi esterni, contrizione, collaborazione con la giustizia, lavoro gratuito per la collettività, iniziative a favore dei danneggiati, e, da ultimo, dialoghi riparativi: il prezzo del riscatto delle persone condannate sembra non bastare mai. Simili logiche, allarmanti per la bulimia punitiva che sottendono, vanno via via penetrando nella fase di cognizione e prefigurano nuovi oneri per gli imputati a fonte di vantaggi sanzionatori frugali e sfuggenti, in tutti i casi in cui l’avvio di pratiche mediatorie non è in grado di schiudere, per la tipologia del reato, possibili esiti di diversion.

È d’altra parte proprio la prospettiva di una mitigazione della pena a rendere i rapporti di convivenza tra il mondo del processo penale e quello della restorative justice più fitti e complicati. La lusinga dei vantaggi sul piano punitivo, con cui l’ideale incontaminato di giustizia riparativa si compromette, provoca un’ibridazione su larga scala di due cosmogonie dai principi ordinatori differenti e per certi versi antitetici [15]. Si delineano così problematici intrecci fra organismi normativi eterogenei che entrano in un rapporto simbiotico, se con mutui vantaggi o reciproci danni è ancora tutto da verificare.


2. Le ricadute sul trattamento sanzionatorio e le esigenze della giustizia formale

È certo però che la giustizia riparativa esce oggi dalle riserve in cui sino ad ora è stata confinata, ma dove forse proprio per questo si è più agevolmente sviluppata, ed ambisce ad accompagnare ad ampio raggio l’accertamento processuale. Se è del tutto condivisibile la volontà di non tracciare demarcazioni aprioristiche fondate sul solo titolo di reato e così ricusare il morbo dei doppi binari che ormai sciupa e appanna ogni scelta legislativa in materia processuale [16], l’espansione del fenomeno a qualunque vicenda criminosa e a ogni snodo del procedimento penale impone che alcuni eccessi di destrutturazione, creatività e alterità del metodo conciliativo vadano smussati perché chiamati a convivere con le tutele irrinunciabili della giustizia formale. Quella riparativa non è più un fenomeno extragiuridico, ma è disciplinato dalla legge; o extraprocessuale, giacché le intersezioni con la cognizione sono molteplici e regolate [17]; e nemmeno extrapenale, dato che si prefigge di risolvere questioni scaturenti da un reato con l’ausilio di organismi pubblici e con possibili riverberi diretti sul trattamento sanzionatorio [18].

È indispensabile per questa ragione sbarazzarsi subito di alcuni equivoci lessicali. Se la legge italiana menziona il «reato», e lo fa otto volte già nelle previsioni di apertura della disciplina organica (art. 42 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150), non può che rinviare al relativo concetto penalistico, salvo voler azzardare definizioni normative diverse e ad hoc, com’è stato fatto per il termine «vittima», che allo stato tuttavia mancano. In loro assenza, un ordinamento giuridico retto da una Costituzione rigida, che dedica agli illeciti penali rilevantissimi principi, non potrebbe tollerare la coesistenza di due significati diversi riconducibili allo stesso significante, quando la nozione è così basilare, ricca di premesse concettuali e di conseguenze giuridiche cospicue. È poi evidente che nella stanza del mediatore non si discetterà di elementi costitutivi della fattispecie, né di questioni attinenti alla punizione del reo, ma il supposto comportamento criminale sarà solo un abbrivio da cui muovere per sviluppare tecniche conciliative che nulla hanno a che vedere con quelle processuali [19]. Il reato non è insomma oggetto di accertamento nel dialogo riparativo; nondimeno, la sua esistenza ne costituisce il presupposto giuridico, poiché la legge allo stato così dispone. Se l’accezione del lemma per il capo IV del d.lgs. 150 del 2002 fosse davvero differente da quella a cui allude il codice penale, sarebbe urgente pervenire, su base legislativa e non certo interpretativa, a un chiarimento, che dovrà naturalmente misurarsi con i principi sovraordinati reggenti la materia.

Le forme del sistema penale non segnano solo le premesse del percorso di riparazione ma riemergono, con il loro carico d’insopprimibili esigenze, anche e soprattutto negli sbocchi del dialogo mediato, con gradi diversi di appetibilità e cogenza. L’invito a tener conto degli «eventuali» esiti riparativi «anche» ai fini della commisurazione della pena o di altre non precisate «determinazioni» dell’autorità giudiziaria, è prescrizione talmente sfocata e timida, anche perché dislocata in una sede topograficamente distante rispetto alle norme prescrittive di riferimento [20], da risultare una molla con ogni probabilità insufficiente ad attrarre l’imputato verso esperienze riparative in pendenza del processo.

La nuova attenuante, invece, è accolta nel corpus del codice penale e per la sua latitudine applicativa rappresenta in fondo il vero punto di giuntura tra il sistema della restorative justice e quello dell’accer­tamento processuale perché potrebbe, almeno in potenza, incidere assai più concretamente sulla quantificazione della pena [21] in tutti i giudizi in cui il risultato riparativo non sia in grado di evitare la condanna. Si tratta, va di nuovo sottolineato, di una galassia straordinariamente ampia e multiforme, estesa a tutti i reati perseguibili d’ufficio che non consentono valutazioni di particolare tenuità del fatto o sospensioni condizionali. Anche per questa via, il temperamento della pena appare però incerto e sfuggente. Non solo perché l’effetto si produce solo quando la circostanza non soccomba a soverchianti aggravanti, fattore non pronosticabile per chi decida di avviare i percorsi in fasi precoci del procedimento; ma anche per le intrinseche anomalie della nuova ipotesi accolta dall’art. 62 n. 6 c.p. La mitigazione del trattamento sanzionatorio viene infatti collegata a condotte post-fatto che si pongono solo in parte sotto la responsabilità dell’imputato, dipendendo in pari o maggior misura dalla volontà e disponibilità di terzi, le vittime, a intraprendere il percorso, portarlo a termine in tempi utili, non abbandonarlo, e convenire sull’esito riparativo.

Simile peculiarità solleva interrogativi sulla prevedibilità della risposta penale e, per altro verso, sul rispetto dell’art. 3 Cost. Se infatti eventi esogeni e incontrollabili dall’autore sono normalmente posti dalla legge penale alla base di condizioni di procedibilità o eventi estintivi (come accade per le querele e la loro rimessione, le autorizzazioni a procedere o le amnistie), una volta che il reato sia perseguibile e non estinto i contorni del trattamento punitivo, che resta perciò oggetto di accertamento processuale, non dovrebbero essere posti in modo così smaccato nell’altrui dominio. Le condotte riparatorie e i ravvedimenti operosi, anche quando prendono la forma di prescrizioni dettate da altri [22], sono conosciute in anticipo dal destinatario, che potrà decidere se attenervisi prima di svolgere le attività richieste e dedicarvi tempo e fatica. Gli obblighi da adempiere vanno poi onorati autonomamente, secondo livelli di diligenza e cura rimessi esclusivamente alla volontà dell’interessato. I programmi riparativi, per natura interpersonali [23], per statuto aperti ad ogni possibilità, per legge totalmente flessibili, sino ad ammettere recessi immotivati, interruzioni non sindacabili, sospensioni libere, disaccordi finali le cui ragioni dovrebbero restare sommerse, consegnano invece nelle mani altrui poteri pressoché arbitrari d’influsso sulla sanzione.

Il problema si pone perché la legge penale collega l’applicazione dell’attenuante, e così pure l’ingres­so nei criteri commisurativi della pena, non all’adesione al percorso, ma all’esito riparativo, ossia al suo risultato positivo [24]. Ciò presuppone che il cammino sia portato a termine, senza abbandoni in itinere, e che i gesti risolutivi siano accolti favorevolmente da chi è chiamato a compierli e a riceverli. Non è però previsto alcuno scrutinio sulle ragioni per cui il successo non sia raggiunto, che potrebbero essere del tutto indipendenti dalla buona volontà e dalla piena disponibilità dell’imputato [25].

Se le vittime lasciano inopinatamente la conca della mediazione o ingiustificatamente rifiutano le offerte riparative, il riprendere daccapo un percorso, magari laborioso, potrebbe vanificare il tempo speso e gli sforzi profusi, sino a rendere in certi casi irraggiungibili gli sperati effetti vantaggiosi, come accadrebbe quando il fallimento incolpevole del tentativo giunga in prossimità della chiusura del dibattimento e manchi il tempo per immaginare nuove vie di riconciliazione con la comunità. Le capacità di alcuni mediatori potranno certo impedire, con soluzioni acconce, che questo accada. Ma quando si ragiona su così larga scala non è inverosimile prefigurare livelli assai differenti di abilità, inventiva e solerzia da parte dei centri di giustizia riparativa. Nemmeno il travaso dell’attenuante riparativa in quelle riparatorie contemplate nella prima parte dell’art. 62, n. 6, c.p. [26] pare un’uscita d’emergenza sempre praticabile: in certi casi restituzioni e risarcimenti non sono possibili [27], mentre i tempi più stringenti imposti dalla legge penale per i ravvedimenti operosi potrebbero impedire la transizione dall’ultima ipotesi di attenuazione della pena alle altre due [28]. D’altro canto, anche per acclarare se l’imputato si sia «efficacemente» speso per rimediare alle conseguenze del reato, o per tenere conto del suo impegno ai fini della commisurazione della pena infraedittale e persino per il riconoscimento di attenuanti generiche [29] occorrerebbe conoscere le cause dell’interruzione del percorso e stabilire a chi siano addebitabili: se l’indicato come autore dell’offesa ne fosse responsabile non potrebbe patire conseguenze negative, per espresso divieto di legge, ma nemmeno lucrare effetti positivi; se il suo intento riparativo fosse invece ineccepibile, per poterlo valorizzare occorrerebbe qualche forma di controllo giudiziale. La giurisprudenza fiorita sull’art. 35 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 dimostra come spesso l’offeso rifiuti indebitamente proposte adeguate [30] e anche il più recente art. 162-ter c.p. ha prescritto controlli di congruità delle offerte quando siano respinte dal destinatario, confermando che le conseguenze sul processo e sulla sanzione non possono essere lasciate in balia di privati senza un intervento della giurisdizione [31].

Il risultato riparativo, specie simbolico, è a sua volta evanescente. L’imputato sarà tenuto a «dichiarazioni» di quale tenore? Ad «impegni comportamentali» privati e pubblici di quale natura? Per quanto tempo? A limiti sulla frequentazione di luoghi o persone quanto stringenti e prolungati? La letteratura straniera rivela bene come nelle stanze della mediazione si maneggi non solo il dolore della vittima ma anche la vergogna dell’autore [32], con esiti a volte avvertiti come umilianti o degradanti [33], tanto da risultare imparentati con le shaming sanctions [34]. Ma al di là di possibili, e sprovviste di rimedio, lesioni della dignità, se le richieste riparative risultassero eccessive, sproporzionate? I principi generali certo lo vietano, ma è una tavola di enunciati non presidiata da alcuna garanzia se non la fiducia cieca nel mediatore e la possibilità, sempre aperta anche per l’imputato, di rifiuto delle proposte ritenute inaccettabili; opzione, questa, che – di nuovo senza colpa dell’interessato – può compromettere un percorso gravoso e far sfumare all’ultimo momento i benefici penali. La sentenza costituzionale n. 91 del 2018, come noto, ha escluso per la messa alla prova una violazione dell’art. 25 Cost. per indeterminatezza del trattamento sanzionatorio [35]. Ci troviamo tuttavia al cospetto di un livello assai superiore di rarefazione: nel rito speciale la natura delle prescrizioni è più riconoscibile, perché la legge vi si diffonde [36]; si danno inoltre precisi limiti temporali per i contenuti maggiormente caratterizzanti il programma, come i lavori di pubblica utilità; ma soprattutto gli obblighi a cui l’imputato dovrà attenersi sono conosciuti all’ingresso del percorso, non all’esito di un cammino intrapreso quasi al buio. Eppure, si tratta d’impe­gni che sorgono dalla commissione di un reato, suggellati da un pubblico ufficiale, il cui adempimento va verificato dal giudice penale in vista di conseguenze dirette sul trattamento sanzionatorio.

Il giudice dovrebbe allora poterne controllare anche il tenore, il difensore dovrebbe presenziare alla loro elaborazione [37], come accade per gli impegni materiali. E dovrebbe essere possibile sindacare le ragioni del mancato esito raggiunto, quando non siano addebitabili all’imputato. Si tratta, beninteso, di profilo delicatissimo, perché la relazione conclusiva dei mediatori dovrebbe essere scarna e reticente, per non lasciar trapelare elementi di conoscenza sottratti al metodo proprio del processo penale. Comprensibili esigenze d’impermeabilità processuale a comportamenti e discorsi intervenuti in un contesto del tutto sguarnito di garanzie fanno sì che l’atto conclusivo da inviare al giudice, specie quando attesti il mancato raggiungimento di un risultato apprezzabile, sia concepito dalla legge come particolarmente stringato, riducendosi a una telegrafica comunicazione che non lasci scorgere i motivi dell’interruzione o dell’assenza di idonei gesti riparatori [38]. Tuttavia, i fatti da cui dipende la determinazione della pena sono oggetto di prova secondo l’art. 187 c.p.p. e, come tali, di dialettica dibattimentale, valutazione giudiziale, obblighi motivazionali e possibili controlli in sede di impugnazione. Non è pensabile di poter sottrarre del tutto un’attenuante a questi canoni processuali e riporla in una zona d’ombra, al riparo da qualunque verifica nel giudizio penale. Si determina così un’aporia difficilmente risolvibile tra le due linee della riforma: l’alterità del nuovo modello di giustizia, con le sue forme fluide e non controllate, richiede il massimo riserbo sulle dinamiche della mediazione o delle altre forme riconciliative; ma gli effetti diretti sul trattamento punitivo di un’attività regolata dalla legge necessitano di scrutini giudiziali non solo sugli esiti conseguiti, ma anche sul loro mancato raggiungimento.

Se questi profili s’intrecciano con alcune scelte appartenenti alla direttrice della restorative justice incurante del processo, come quella che non prevede sue sospensioni fuori dai casi di querela rimettibile, i rapporti tra i tre mondi – il diritto penale, il procedimento penale e la giustizia riparativa – s’intor­bidiscono ulteriormente. L’attenuante potrebbe ad esempio risultare determinante per l’accesso o meno al patteggiamento e ai suoi ulteriori vantaggi sanzionatori; ma anche in caso di rito abbreviato, direttissimo o immediato la maggiore rapidità della decisione potrebbe impedire di tener conto di un percorso parallelo rivelatosi laborioso e pieno d’intoppi non addebitabili all’imputato e che avrebbe potuto sortire, concludendosi prima o durando di più il processo, positivi riverberi sulla pena. Le irragionevolezze, stante la latitudine del campo applicativo del nuovo modello di giustizia, emergeranno e con esse occorrerà confrontarsi. La Corte costituzionale, quando si tratta di trattamento sanzionatorio favorevole, che una volta previsto dalla legge deve essere fruibile da chi lo meriti, non è indifferente alle contingenze processuali in grado di ostacolarne l’applicazione. Emblematica in tal senso è la sentenza n. 115/1987 in materia di reato continuato e passaggio in giudicato di alcune sentenze dovuto a tempistiche del tutto accidentali, che ha aperto la via all’introduzione di un rimedio in fase esecutiva [39]. Ma su questa scia può porsi anche la sentenza n. 120/2002 sull’innesto dell’abbreviato nell’immediato, che ha censurato i pregiudizi derivanti dalla casuale successione di notifiche decise da un ufficio giudiziario [40].

Per sanare disparità troppo smaccate nella fruizione dell’attenuante, ma anche dei criteri di cui all’133 c.p., e riallineare un poco questi universi asincroni, si dovrebbe prevedere un congegno sospensivo a più ampio raggio, non solo scambi d’informazioni, quando il programma è in corso e la decisione è imminente [41].


3. Le potenzialità dei programmi e il ruolo del giudice della cognizione: le insidie dell’inizia­tiva officiosa e della selezione per utilità

Le potenzialità dei percorsi apprezzabili in sede di cognizione potrebbero essere impedite anche e soprattutto dal vaglio dell’autorità giudiziaria, vero vortice di questioni irrisolte.

Quella che è stata maggiormente posta in evidenza e contestata attiene all’iniziativa officiosa del giudice, che può disporre dall’alto l’invio delle parti a un centro di giustizia riparativa [42]. Si tratta senza dubbio di una stortura da correggere. La riforma organica era vincolata sul punto da un criterio della delega, ma quest’ultima ha pur sempre il valore di legge ordinaria ed è agevolmente emendabile da un provvedimento successivo di pari grado, ove se ne rilevino consistenti frizioni con i postulati tanto della giustizia riparativa quanto del procedimento penale. È infatti evidente che l’avvio delle attività, seppure ancora preliminari ai confronti interpersonali, per scelta giudiziale contraddice ab imis i canoni di volontarietà e libertà dell’adesione che dovrebbero essere propri della restorative justice. Si è parlato in proposito di spinta gentile [43], ma è spinta data da un soggetto che indossa la toga e tra le mani ha la spada della giustizia punitiva. Non ne userà la lama ma l’elsa per sospingere verso la conca della mediazione, però non si può parlare di determinazioni libere dei soggetti esortati per questa via ad intraprendere i programmi.

Anche perché simile sprone s’accompagna a un’insistente campagna di avvisi che correda ogni atto processuale [44]: se ne contano ben quattordici in fase di cognizione, di cui dodici diretti all’imputato. È una sorta di assillante spot pubblicitario che irrompe in tutti gli snodi della sequenza procedimentale e che da utile strumento informativo, proprio per il suo ripetersi ossessivo, diviene compulsivo per chi è sotto accusa e rischia la libertà, o l’ha già perduta: l’avviso viene dato anche all’arrestato e recapitato con l’ordinanza di custodia cautelare, quando il ristretto versa in condizioni di forte fragilità psicologica e può essere indotto ad accettare qualunque cosa.

L’insistenza negli avvisi e l’invio ex auctoritate può d’altro canto mettere in difficoltà anche l’offeso, in particolare il querelante, perché riporta continuamente in gioco la necessità di una scelta capace di condurre alla remissione. Non compierla, una volta che sia così di frequente evocata, rischia di esacerbare il confitto ed accrescere le tensioni con l’imputato che legittimamente può intravvedere un esito estintivo, essendo a sua volta raggiunto dai ripetuti inviti. Se anche così non fosse, le reiterate comunicazioni possono ugualmente portare l’offeso ad avvertire il peso psicologico di un’opzione in grado di incidere fortemente sul destino della causa penale e che gli viene continuamente riproposta dagli organi statali. La giustizia tradizionale lo sgravava da simile, costante pressione. Pure nell’interesse della vittima occorrerebbe pertanto ripensare il numero e la natura delle sollecitazioni, mentre, anche a sua tutela, all’autorità giudiziaria dovrebbe spettare il solo ruolo di verifica sui rischi del programma chiesto concordemente dalle parti.

La selezione imperniata sull’utilità potenziale del percorso andrebbe invece riservata ai mediatori [45]. Intanto perché il giudice non può preconizzare le opportunità passibili di schiudersi nel corso dei programmi, data l’ampiezza e persino l’estro delle possibili vie riparative, la cui individuazione spetta agli esperti di questa materia. Ma anche e soprattutto perché si urta altrimenti con la presunzione di non colpevolezza, intesa anzitutto nel significato adottato in apertura della direttiva europea 2016 [46] e che, secondo le categorie interne, investe anche profili attinenti all’imparzialità dell’organo giudicante. Se questi è chiamato a discernere tra le cause assegnategli quelle candidabili a fruttuosi percorsi riparativi, con l’invio al competente centro finirebbe prima della condanna per indicare l’imputato come autore dell’offesa (penale), secondo le premesse definitorie poste dalla legge [47].

Del resto, come indiscutibilmente prevede la prassi, e come richiedono le fonti internazionali, una parziale ammissione o non contestazione dei fatti da parte dell’accusato è indispensabile perché la riconciliazione con vittime o rappresentati della società possa avere atto [48]. Che vi sia un episodio storico di rilevanza penale e l’imputato abbia contribuito a provocarlo non può essere posto in discussione. Se la premessa da cui muove il percorso non fosse un reato, la questione sfocerebbe in lite privata e si uscirebbe dalla mediazione penale; se l’imputato fosse estraneo ai fatti, non potrebbe ripararne le conseguenze, specie nel senso così intimamente coinvolgente richiesto dalle pratiche di mediazione. L’am­mis­sione del crimine può sì restare un contenuto implicito, che non ha valore di prova in fase di cognizione. L’escamotage non risolve tuttavia le antinomie, ma immette piuttosto in un groviglio di ambiguità, sott’intesi, acrobazie interpretative e correlati rischi di effetti pregiudizievoli per chi voglia difendere la sua innocenza nel processo, che in questo caso continua a correre indisturbato a differenza di quanto accade in altri terreni scivolosi per il canone costituzionale (come patteggiamento e messa alla prova). Sarebbe allora più onesto prevedere l’ammissione parziale dei fatti come requisito per l’accesso ai programmi, accettando – certo – il loro drastico calo di appetibilità. Non poserebbe su questo la frizione con l’art. 27, comma 2, Cost.: la confessione è infatti apertamente prevista, e senza troppo scandalo, dal codice di rito come presupposto di una deviazione dall’ordinario svolgersi della sequenza processuale (il rito direttissimo) ed è comunemente premiata con attenuanti specifiche e generiche. È insomma evenienza possibile nel corso del procedimento penale, che non lede i principi fondamentali se non è indotta, né trattata come prova legale o regina, ma come dato da verificare e a cui non può, di per sé solo, ricollegarsi una sanzione penale.

Con l’apertura del percorso riparativo, difatti, non è tanto la regola di giudizio imposta dal canone costituzionale ad essere intaccata, quanto la regola di trattamento: resta infatti insanabile la frizione con la presunzione d’innocenza quando l’imputato sia addirittura indotto dall’autorità giudiziaria a partecipare a programmi che lo postulano autore di un’offesa penale e possono sfociare in esiti, come le scuse formali, implicanti – ben più degli oneri prestazionali-riparatori e finanche dell’accettazione di una pena concordata ma subita – la sua colpevolezza [49]. Del resto il dialogo riparativo non è così scollato dal concetto di responsabilità penale come comunemente si asserisce, se è vero che secondo la stessa disciplina organica, ove sono adottate nozioni late ed eccentriche rispetto ai paradigmi penali e processuali, in caso di proscioglimento nel merito si cessa d’essere indicabili, anche nel mondo informale della restorative justice, come autori dell’offesa [50]. La linea della totale alterità sembra infrangersi su questo scoglio, perché la legge istituisce una correlazione tra formule di proscioglimento, con relativa attinenza agli elementi della fattispecie, e svolgimento dei programmi. Proprio tale convergenza della nozione di non colpevolezza accolta dai due sistemi di giustizia finisce per far risaltare la tensione con i principi fondamentali in tutti gli altri casi, ove evidentemente la responsabilità penale, non accertata ma assunta, è adottata a premessa concettuale dei percorsi riconciliativi.


4. Il vaglio sui rischi dei percorsi di giustizia riparativa nella fase di cognizione

Al giudice dovrebbe dunque riservarsi un vaglio sui soli rischi che la giustizia riparativa può celare quando inserita nel procedimento penale: la legge li compendia in due categorie, quelli suscettibili di pregiudicare i soggetti che prendono parte ai programmi e quelli capaci di compromettere l’accerta­mento dei fatti (art. 129-bis, comma 3, c.p.p.). I percorsi di riconciliazione, dietro al velo di un’apparente inoffensività, possono infatti rivelarsi tutt’altro che innocui per il contemporaneo dispiegarsi delle attività processuali. Numerose, differenti insidie li renderanno di fatto inaccessibili per una grande gamma di ipotesi, impedendo i positivi riverberi sul trattamento sanzionatorio.

Durante le indagini preliminari il pubblico ministero potrebbe non autorizzare l’invio ogniqualvolta le esigenze del segreto e le sue strategie di accertamento lo sconsiglino. Specie nelle vicende intrecciate, così comuni nella prassi, in cui più persone siano coinvolte, potrebbe essere oltremodo rischioso porle a confronto diretto per periodi prolungati mentre le attività investigative fervono, magari con intercettazioni in corso, o fonti ancora da sentire. Non è chiaro come il mondo della mediazione interagisca con la fluidità delle inchieste, con le diverse piste da seguire, gli stalli, i repentini sviluppi, gli inattesi cambi di direzione. Non è inconsueto ad esempio che i familiari della persona offesa, che potrebbero essere coinvolti nei percorsi riparativi a suo supporto o direttamente come «vittime», da fonti informate sui fatti divengano dopo qualche tempo sottoposte alle indagini, finendo per spartire il ruolo con soggetti ab origine indicati come autori del reato, che casomai l’ulteriore incedere investigativo potrebbe scagionare. Le pratiche riparative sono concepite dalla legge come del tutto indifferenti a simili vicende: per attivarle è sufficiente un indice puntato contro qualcuno e nemmeno occorre che chi è additato come responsabile dell’offesa sia sottoposto ad indagine. Per la disciplina organica basta infatti un addebito del tutto privato, sprovvisto di qualsivoglia base conoscitiva, talmente diafano da assurgere all’iperu­ranio. Sfuma così del tutto l’adequate evidence to charge the offender, principio base richiesto dalle fonti internazionali [51] che rappresenta garanzia di serietà e praticabilità dei percorsi di mediazione, nonché requisito minimo per non svuotare di significato le concorrenti categorie penali e processuali. Più prosaicamente, potrebbe rilevarsi che vengono investiti organi statali e denaro pubblico per risolvere questioni derivanti da un reato in presenza di una notitia criminis neppure soggettivamente determinata.

Problematico appare anche il rapporto con le misure cautelari: l’accesso ai programmi di giustizia riparativa potrebbe ammettersi solo se il tipo di restrizione e la natura delle esigenze cautelari poste alla sua base lo permettono [52]. Non dovrebbero precluderlo limitazioni della libertà disposte ad e­sempio per un pericolo di fuga prevenibile con obblighi di dimora o divieti d’espatrio, oppure applicate per necessità di tutela della genuinità della prova che non posino su rischi di minacce alle fonti coinvolte nei dialoghi mediati. Sarebbe naturalmente incompatibile con il loro avvio il divieto di avvicinamento alla persona offesa, così come ogni altra misura ordinata per impedire attività criminose a suo danno. Negli altri casi, i limiti agli spostamenti subiti dal sottoposto alle indagini o dall’impu­tato potrebbero, di fatto, rendere ugualmente impraticabili le esperienze di giustizia riparativa: divieti di dimora, arresti domiciliari, sino alla carcerazione possono determinare l’inaccessibilità della sede deputata ai confronti per uno dei suoi protagonisti. La detenzione non appare per vero radicalmente ostativa, se l’avviso sull’op­portunità di intraprendere la via della restorative justice, come già rilevato, viene fornito anche con l’ordinanza che dispone la custodia cautelare (art. 293, comma 1, lett. i-bis, c.p.p.). Eppure, il setting penitenziario, specie quello delle case circondariali, non pare consono ai criteri dettati dalla disciplina organica per gli spazi della mediazione [53]. Nei casi di misure applicate durante le indagini preliminari è comunque discutibile che l’invio ai centri di giustizia riparativa, e il correlato scrutinio previsto dalla legge, spetti al pubblico ministero, in ragione della fase, e non al giudice che ha emesso il provvedimento restrittivo ed è competente a stabilire quali contatti siano o meno ammissibili per il suo destinatario.

Fuori da queste ipotesi, anche i rischi di minor grado dovuti allo squilibrio nei rapporti tra imputato e persona offesa o alla vulnerabilità di quest’ultima possono essere considerati dal giudice come fattori idonei a bloccare l’attivazione del programma richiesto. È vero che la disciplina edificata intorno all’art. 90-quater c.p.p. punta soprattutto a preservare la vittima dai pregiudizi legati alle modalità tipiche dell’accertamento processuale, senz’altro più ruvide di quelle della mediazione. Eppure, non possono sfumare nel nulla tutte le preoccupazioni espresse in questi anni sui danni cagionati dai ripetuti ritorni del ricordo sui fatti di reato, in grado di risvegliare e acuire le sofferenze patite [54]. E così pure non possono scadere nell’irrilevanza tutte le cautele accolte nel procedimento penale per l’ascolto dei più deboli, come l’assistenza di specialisti. La richiesta di intraprendere i programmi, ancorché congiunta, dovrebbe perciò essere preceduta dai vagli sulla particolare vulnerabilità della vittima. La riforma, anche in queste ipotesi così delicate, sembra però non voler precludere l’accesso al sistema complementare di giustizia [55]. Lo si ricava dalla riscrittura dell’art. 152 c.p., che ha escluso la tacita remissione di querela solo per l’offeso convocato per deporre che non si presenti all’udienza ma versi in una delle situazioni descritte dall’art. 90-quater c.p.p., senza richiamare analogo limite per chi si trovi in identiche condizioni e abbia partecipato a un programma con esito riparativo.

Ad ogni modo, il giudice che rifiutasse di inviare le parti al centro di giustizia riparativa sarebbe tenuto a giustificare la sua decisione con un apparato motivazionale consistente, data la prevista forma dell’ordinanza, prospettando l’esistenza di concreti pericoli per gli interessati. I rischi di prolungati contatti extraprocessuali saranno con ogni probabilità riferiti a comportamenti e contegni dell’imputato e non a condotte per lui pregiudizievoli che potrebbero tenere gli altri compartecipi. È perciò plausibile che la pronuncia di diniego si soffermi sulla gravità del fatto, la personalità dell’autore o la sua pericolosità sociale con considerazioni capaci di disvelare in anticipo la visione del giudice sui fatti di causa. In simili evenienze, ci si potrebbe approssimare ai parametri fondanti le figure di incompatibilità scolpiti dalla giurisprudenza costituzionale.

Anche i pericoli per l’accertamento dibattimentale andrebbero accuratamente soppesati. Su questo delicato profilo dovranno vigilare attente le difese prima di consigliare ai rispettivi assistiti d’intra­prendere percorsi dialogici mediati fuori dalle aule d’udienza. Il coinvolgimento delle parti private in un coevo rituale di rievocazione dei fatti può invero compromettere le tecniche conoscitive proprie del processo penale. Non solo, come si è già evidenziato, per l’antitesi tra le modalità relazionali-con­ciliative della mediazione e lo scontro, anche aspro, che è la spina dorsale del sistema accusatorio [56]. In quest’ottica è la simultaneità dei due metodi, praticati all’unisono in contesti differenti, che potrebbe risultare perniciosa. Per non compromettere un percorso riparativo fruttuoso si potrebbe essere indotti ad atteggiamenti morbidi nelle escussioni dibattimentali, forse concordando questa linea con i propri legali, con grave pregiudizio del metodo adversary che sul contrasto tra visioni – regolato e disciplinato, ma non addomesticato – trae la sua linfa vitale. Qualora si resti del tutto fedeli, come dovrebbe essere, al principio informatore del processo penale, che del conflitto si nutre per generare conoscenze attendibili, si produrranno scossoni e frane nella grotta della mediazione: una tecnica difensiva legittimamente incalzante potrebbe turbare l’andamento, casomai faticoso, di un percorso di riconciliazione in atto; finanche l’esercizio da parte dell’imputato del diritto di rifiutare l’esame o di tacere potrebbero essere confusivi, disorientanti e pregiudizievoli nel mondo sotterraneo della riparazione dove forse il dialogo è fitto e vi sono momenti, conquistati a fatica, di apertura reciproca [57].

Ma le insidie della convivenza dei due mondi vanno oltre la divaricazione di stili e posture per toccare la materia viva del metodo dialettico, fondato su quali domande porre, come porle, su quali dettagli indugiare, su quali aspetti della vicenda sfuggiti alle altre parti gettar luce, sulle contraddizioni da evidenziare con le contestazioni. Contraddittorio è anche una domanda inattesa, spiazzare la fonte esaminata, osservarne le reazioni a caldo, stimolare spiegazioni su qualche elemento rimasto poco esplorato. Il dialogo nella stanza del mediatore tra parti private messe a confronto, magari per lungo tempo, con tutt’altro metodo e tutt’altri fini, può ben richiamare l’attenzione su particolari, circostanze, frasi che potrebbero incidere fortemente sulle strategie difensive di imputato, parti civili e finanche pubblico ministero, inquinando la genuinità dell’esame dibattimentale: viene infatti consegnata al giudizio una narrazione dei fatti amalgamata, pre-elaborata, pre-digerita da alcuni degli attori chiave del processo. Nel contesto parallelo ciascuna delle parti può facilmente venire a conoscenza di dettagli rilevanti per l’accertamento in corso che prima le erano ignoti e di cui è possibile si avvalga in maniera anomala nel contraddittorio dibattimentale, al di fuori dei divieti d’uso opportunamente dettati dalla legge: basta suggerire al difensore di formulare una domanda che non si sarebbe altrimenti posta, o rispondere ai quesiti con parole differenti da quelle che si sarebbero diversamente prescelte, anche in buona fede e senza l’intento di tenere comportamenti scorretti. In modo inconsapevole si potrebbero fornire armi potenti alla contro-parte processuale che altrettanto involontariamente potrebbe utilizzarle, inficiando anche le strategie dibattimentali dell’attore pubblico. Se, come è stato osservato, davanti ai mediatori il criterio della rilevanza probatoria non assume alcun significato e si sarà anzi portati a concentrarsi su molti aspetti della vicenda privi di attinenza ai fatti di causa [58], è al contempo plausibile che vi sia un nucleo di elementi conoscitivi pertinenti per entrambe le sedi e che su di essi ci si soffermi contestualmente: modalità di azione, circostanze di tempo e di luogo, intenzioni, comportamenti collaterali, rapporti tra alcuni dei soggetti chiamati a deporre. È possibile che le dichiarazioni future dei diretti interessati ne risultino alterate, perdano l’aderenza al proprio ricordo, preparino alle obiezioni della controparte e a come pararle in anticipo, sanino contraddizioni che altrimenti sarebbero emerse; così come è verosimile che le ricostruzioni operate nella sede extraprocessuale offrano spunti di escussione per l’esame di fonti estranee al percorso riparativo ma il cui ruolo sia stato in quel contesto menzionato e discusso. Si tratta di rischi che corrono in pari misura tutti i soggetti coinvolti nei due accertamenti e più cresce il loro numero, più l’eventualità di distorsioni del metodo accusatorio, ancorché accidentali, aumenta.

Il pericolo appare particolarmente intenso nel panorama italiano dove, a differenza di quanto patrocinato da invalse opinioni, la vittima non è affatto estromessa dal procedimento, né confinata ad un ruolo marginale. Il modello adottato, che accoglie le forme salienti del paradigma adversary senza respingere alcuni tratti della tradizione europea continentale, accetta le pretese civilistiche nel rito penale consegnando per questa via tutti i poteri delle parti principali anche all’offeso e al danneggiato. Invero, l’allarme per lo scarso ruolo di queste figure è stato lanciato, e poi mutuato, da paesi in cui o, come quelli di common law, non è contemplata la costituzione di parte civile nel processo penale e anche il diretto titolare del bene giuridico leso è completamente escluso dal cuore delle fact finding activities; oppure l’azione risarcitoria è ammessa ma s’inscrive in una modalità di accertamento, quella propria della matrice inquisitoria, sottratta al dominio delle parti e affidata a un giudice fisiologicamente più concentrato sulle questioni penalistiche, fulcro della sua decisione. In Italia l’offeso e, come sempre più spesso accade, plotoni di danneggiati se accettano il semplice espediente dell’esercizio dell’azione civile assurgono immediatamente al livello dell’imputato e del pubblico ministero e vengono equipaggiati degli stessi, intensi poteri anche sul nucleo penalistico della regiudicanda, presupposto di ogni statuizione sui danni: spetta anche a loro l’individuazione delle prove su cui edificare il giudizio, la formazione delle conoscenze necessarie alla decisione mediante l’escussione delle fonti, l’ampia facoltà di critica della pronuncia giudiziale. D’altro canto la sofferenza delle «vittime», nell’accezione lata accolta dalla disciplina organica, costituisce a pieno titolo, e in ogni sua possibile sfaccettatura, materia di giudizio, come tale plasmata e scandagliata dagli apporti di parte: la legge penale ne considera tipologia e intensità al fine dell’applicazione di numerose aggravanti e dei generali criteri di commisurazione della pena; mentre quella civile impone di soffermarsi su ogni aspetto del nocumento patito: materiale, biologico, morale, d’immagine, persino statutario. L’unico limite, sacrosanto, posto alle parti civili nel sistema italiano è quello di non poter chiedere direttamente una pena o indicarne l’entità. Il non aver voce sul trattamento sanzionatorio penalistico, ma solo su quello civilistico, non compromette tuttavia il pieno dispiegarsi dei loro poteri dibattimentali, che le pone – se lo vogliono – al centro della scena processuale dotandole di tutto il composito e raffinato armamentario del diritto probatorio. Ed è proprio questo protagonismo, agli antipodi della tanto spesso prospettata irrilevanza, unito alla proliferazione delle parti civili dovuta alla morbidezza con cui se ne sonda la legittimazione, a rendere più tangibili che altrove le controindicazioni della coesistenza tra le due tecniche di risoluzione delle questioni penali: la vittima in Italia non è solo fonte di prova, come accade nei sistemi accusatori puri e in quelli inquisitori [59], ma, al pari delle parti principali, è sovrana sulle prove, portatrice di prove, costruttrice di prove, confutatrice di prove. Per queste ragioni la sua visione dei fatti, le informazioni a sua disposizione, i dati conoscitivi che è in grado di apportare o d’infirmare fanno parte del tessuto connettivo del processo di cognizione, che il concomitante percorso riparativo può adulterare.

Stando così le cose, nei procedimenti penali più delicati, o semplicemente con pluralità di soggetti coinvolti, dovrebbe essere lo stesso giudice, prima ancora dei difensori, a considerare incombenti i pericoli per l’accertamento insiti nella partecipazione ai programmi. Se le esperienze di mediazione funzionano meglio in fasi precoci della sequenza del procedimento [60], i rischi per la dinamica dibattimentale dovrebbero portare in molti casi a prediligerne l’avvio in fasi avanzate del processo, quando l’istru­zione probatoria è ormai conclusa. Anche per questa ragione appare indispensabile calibrare le tempistiche delle pratiche accertative e conciliative con idonei meccanismi di sospensione che all’uopo ritardino la decisione per consentire le diverse modulazioni del trattamento sanzionatorio.

In un quadro così frastagliato le potenzialità del paradigma riparativo nella fase di cognizione s’accompagnano a numerose insidie. Non vanno negate, né esasperate, ma laicamente considerate per apporre al grande progetto riformatore alcuni necessari ritocchi, che non ne snaturino la portata innovativa ma lo concilino maggiormente con le esigenze del procedimento in corso. Certo la disciplina organica segna un allontanamento ulteriore dai canoni liberali dello Stato di diritto [61], dove l’autorità pubblica, comunque configurata, non dovrebbe varcare il limite della coscienza individuale, del foro interno, dei sentimenti e delle emozioni: cosa resta altrimenti di intimo, di privato? Nella conca si allestisce un dialogo che s’approssima al trattamento psicologico [62], accettato e consensuale [63], ma con geometrie solo apparentemente equilatere, perché qualcuno nel cerchio dei partecipanti è sott’accusa e rischia la libertà. È molto esile, e davvero gracile, il confine tra il prender coscienza dell’imputato [64] e il prendere la coscienza dell’imputato.


NOTE

[1] Art. 44, commi 2 e 3, e art. 47, comma 1, d.lgs. 10 ottobre 2002, n. 150, art. 129-bis, comma 1, c.p.p. La legge italiana ricalca, in questa opzione come in molte altre, le previsioni della raccomandazione CM/Rec(2018)8 del Consiglio d’Europa, che al § 6 prevede il possibile utilizzo della giustizia riparativa lungo tutto il corso del procedimento penale, oltre che nella fase esecutiva.

[2] Sul nuovo linguaggio che si fa strada con il paradigma riparativo, v. per tutti P. Maggio, Giustizia riparativa e sistema penale nel decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. Parte II. «Disciplina organica» e aspetti di diritto processuale, in Sist. pen., 27 febbraio 2023, p. 7 ss.

[3] Vi si possono annoverare gli artt. 43, comma 1, lett. h), 44, commi 2 e 3, 47, comma 1, 55, comma 2, del d.lgs. n. 150/2022.

[4] Come accade per le sollecitazioni ad avviare i programmi di giustizia riparativa date a ridosso dell’udienza di patteggiamento o dell’emanazione del decreto penale di condanna, o con la citazione per il giudizio di appello: v. a riguardo A. Presutti, Aspettative e ambizioni del paradigma riparativo codificato, in Sist. pen., 14 novembre 2022.

[5] Per tutti, v. G. Mannozzi, La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, Giuffrè, 2003, p. 46 ss. Prende atto del dato di realtà l’Ufficio del Massimario-Servizio penale della Corte suprema di cassazione, Relazione su novità normativa. La "riforma Cartabia", Roma, 5 gennaio 2023, p. 307.

[6] È in effetti la raccomandazione CM/Rec(2018)8 del Consiglio d’Europa, nelle sue proposizioni introduttive, ad introdurre l’idea di un pari interesse, di vittime e autori del reato, ai percorsi di giustizia riparativa, i cui «bisogni» «possono essere identificati e soddisfatti in maniera equilibrata». Mentre le esigenze delle prime sono individuate nella possibilità di «avere più voce in merito alle misure opportune da adottare in risposta alla loro vittimizzazione, a comunicare con l’autore dell’illecito e a ottenere riparazione e soddisfazione nell’ambito del procedimento giudiziario», quelle dei secondi sono evocate «considerando l’importanza di incoraggiar[n]e il senso di responsabilità» e «di offrire loro l’opportunità di riconoscere i propri torti, che potrebbe favorire il loro reinserimento, consentire la riparazione e la comprensione reciproca e incoraggiare la rinuncia a delinquere».

[7] M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Dir. pen. cont., 2015, f. 2, p. 246; Id., Pena agìta e pena subìta. Il modello del delitto riparato, in Quest. giust., 2020, p. 9. Definisce «timidi» i tentativi di collegare all’esito riparativo alcuni effetti sulla risposta sanzionatoria M. Bortolato, La riforma Cartabia: la disciplina organica della giustizia riparativa. Un primo sguardo al nuovo decreto legislativo, in Giustizia insieme, 10 ottobre 2022.

[8] M. Bouchard, Vittime e colpevoli: c’è spazio per una giustizia riparatrice?, in Questione Giustizia, 1995, f. 4., p.p. 893, rileva come le misure riparatorie si caratterizzerebbero per i diversi mezzi attraverso cui reagire alla commissione di un reato: «l’obbligo di riparare i danni causati anziché [corsivo nostro] la sofferenza della detenzione o il trattamento riabilitante». V. Patanè, Mediazione penale, in Enc. dir., Annali, II, tomo I, 2008: a p. 574, evidenzia come «la mediazione rappresenta il risultato di una maturata consapevolezza della necessità di risposte non punitive, diverse dalle sanzioni penali tradizionalmente intese» e a p. 575 giustamente rileva che «una sua utilizzazione ottimale, soprattutto ove se ne voglia enfatizzare il carattere di alterità rispetto al modello di gestione formalizzata dei conflitti, ne postula un inquadramento come strumento alternativo non solo alla sanzione, ma addirittura alla stessa procedibilità»; C.E. Paliero, Il sogno di Clitennestra: mitologie della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 517, sottolinea come «l’intrinseca validità di questa opzione alternativa alla penalità – in primis ma non esclusivamente – vendicatoria si apprezza soprattutto (e sono tentato di dire soltanto) se davvero alternativa: un aliud sistemico che circoli totalmente all’esterno del paradigma puntivo penalistico, benché condividendone l’oggetto (i conflitti sociali “a tipicità penale”).

[9] Dai quali, per statuto teorico e per legge, si può sempre recedere liberamente, senza nemmeno la necessità di spiegazioni o giustificazioni (art. 48, comma 1, d.lgs. n. 150/2022).

[10] V. sul punto, ex plurimis, G. Mannozzi, Giustizia riparativa, in Enc. dir., Annali, X, Milano, Giuffrè, 2017, p. 483 ss.; M. Bortolato, La riforma Cartabia, cit.; A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Torino, Giappichelli, 2010, p. 58 s.; C. Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 56, 58 e 144.

[11] I positivi effetti dei percorsi di giustizia riparativa sul rischio di recidiva sono spesso evocati. Studi statistici condotti in diverse parti del mondo sono sinteticamente riportati da E. Ahmed-N. Harris-J. Braithwaite-V. Braithwaite, Shame Management Through Reintegration, Cambridge, Cambridge Univerisity Press, 2001, p. 5 ss. V. anche il noto compendio delle caratteristiche della restorative justice tratteggiato da L.W. Sherman, Reason for Emotion: Reinventing Justice with Theories, Innovations, and Research – The American Society of Criminology 2002 Presidential Address, (2003) 41 Criminology 1, p. 10, secondo cui lo scopo della restorative justice è «to repair the harm of the crime under discussion, and prevent further crimes by the offenders, victims, or supporters of either». La via per ottenerlo implica emozioni da impegnare: «remorse, guilt, shame, empathy, hope» (ivi, p. 11). La letteratura straniera esplicita senza infingimenti ciò che i giuristi italiani tendono a non rimarcare apertamente, perché suonerebbe inaccettabile: ciò a cui si punta perché i legami si riparino è la vergogna, il rimorso, il senso di colpa. Sugli effetti in termini di prevenzione speciale v. altresì G. Mannozzi, La giustizia senza spada, cit., p. 122 s.; in rapporto alle tradizionali funzioni della pena, v. E. Mattevi, Una giustizia più riparativa. Mediazione e riparazione in materia penale, Napoli, ESI, 2017, p. 49 ss. V. anche A. Presutti, Aspettative e ambizioni, cit.

[12] Fuori dai casi di possibile diversion, sarebbero infatti ipotizzabili altre vie, per alleviare, curare e prendere in carico il dolore delle vittime: da servizi di assistenza psicologica gratuita e assicurati senza limiti di tempo né di gravità del reato subito, a fondi per garantire in ogni caso il risarcimento del danno e le restituzioni, da porre a carico dello Stato (cfr. M. Bouchard, Vittime e colpevoli, cit., p. 889; e, con pungenti rilievi critici su mancati investimenti in altri settori di ausilio alla vittima, Id., Commento al Titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 sulla disciplina organica della giustizia riparativa, in Quest. giust., 7 febbraio 2023, p. 4). Si tratterebbe, com’è evidente, di soluzioni molto più dispendiose e che necessiterebbero di risorse ben più ingenti di quelle stanziate per l’istituzione dei centri di giustizia riparativa.

[13] Per tutti, S. Cohen, Vision of Social Control, Cambridge, Polity Press, 1985, p. 41 ss.; G. Mannozzi, La giustizia senza spada, cit., p. 329 ss. Per una prospettiva comparata, v. E. Kantorowicz-Reznichenko, The ‘Net-Widening’ Problem and its Solutions: The Road to a Cheaper Sanctioning System, 1 dicembre 2013, in SSRN.Social Science Research Network (disponibile in https://ssrn.
com/abstract=2387493
).

[14] Non sempre infatti tale veste è auto-evidente e molto spesso necessita di accertamenti. V. sul punto O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in D. Negri-L. Zilletti (a cura di), Nei limiti della Costituzione: il codice repubblicano e il processo penale contemporaneo, Milano, Cedam-Wolters Kluwer, 2019, p. 80 s. e in Dir. pen. cont., 9 aprile 2019, p. 13.

[15] Per le differenze tra i due modelli, v. per tutti G. Di Chiara, Scenari processuali per l’intervento di mediazione: una panoramica sulle fonti, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p. 502 ss.

[16] Non pare tuttavia che questa linea sarebbe stata tradita da selezioni fondate sul regime di procedibilità: riservare gli spazi applicativi delle pratiche mediatorie ai reati perseguibili a querela, prescelti dunque non per tipologia o per presunzioni astratte di inconciliabilità, ma per ragioni legate al ruolo rilevante che già le persone offese rivestono sulla stessa azionabilità delle pretese penali, avrebbe reso molto più agevole la coesistenza dei due paradigmi. Sul problema della scelta dei casi suscettibili di essere mediati e per un’anticipazione dell’opzione svincolata da specifiche tipologie di reato, v. le riflessioni di V. Patanè, Mediazione penale, cit., p. 576.

[17] Prima della riforma R. Orlandi, La mediazione penale tra finalità riconciliative ed esigenze di giustizia, in AA.VV., Accertamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo, Milano, Giuffrè, 2007, p. 165, ne rimarcava la natura di «fenomeno extraprocessuale e persino extragiuridico».

[18] Sul carattere di alterità che avrebbe dovuto connotare questa via di risoluzione dei conflitti v. ancora C.E. Paliero, Il sogno di Clitennestra, cit., p. 517.

[19] V. A. Ceretti, Mediazione penale e giustizia. In-contrare una norma, in A. Ceretti (a cura di), Scritti in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. III, Criminologia, Milano, Giuffrè, 2000, p. 763, che sottolinea come non sia il comando ad essere mediato, ma dal comando si debba muovere per cercare la relazione riparativa. V. anche M. Bouchard, Vittime e colpevoli, cit., p. 893, su come le pratiche riparatorie rinuncino «a concentrare l’attenzione sul reato, quale comportamento astrattamente illegale facendo scivolare in secondo piano l’astratta qualificazione giuridica del fatto a differenza di quanto avviene nel modello retributivo». E ancora G. Di Chiara, Scenari processuali, cit., p. 506 e V. Bonini, Una riforma organica della giustizia riparativa tra attese decennali e diffidenze contemporanee. Definizioni, principi e obiettivi, in G. Spangher (a cura di) La riforma Cartabia, Pisa, Pacini Giuridica, 2022, p. 733.

[20] L’ art. 58 del d.lgs. n. 150/2022.

[21] M. Iannuzzielllo, La disciplina organica della giustizia riparativa e l’esito riparativo come circostanza attenuante comune, in Legisl. pen., 28 novembre 2022, p. 17 rileva che in questo modo la condotta susseguente al reato è sottratta al bilanciamento con le circostanze di cui all’art. 133 c.p.

[22] Come accade ad esempio in materia ambientale, secondo le diposizioni introdotte dalla l. 22 maggio 2015, n. 68.

[23] V. M. Bortolato, La riforma Cartabia, cit., che evoca una «riparazione “interpersonale”» e una «pena interrelazionale».

[24] Così dispone l’art. 58, comma 2, d.lgs. n. 150/2022. Sul punto, v. V. Bonini, Una riforma organica, cit., p. 729. Se debba contare il percorso o il risultato raggiunto è del resto questione da tempo dibattuta: la questione è ricondotta, con diverse sfumature, al contrasto tra visione «olistica» e «massimalista» della giustizia riparativa da P. Maggio, Mediazione e processo penale. I disorientamenti del legislatore italiano, in A. Pera (a cura di), Dialogo e modelli di mediazione, Milano, Cedam-Wolters Kluwer, 2016, p. 35 s. Si sofferma da ultimo sulla tradizionale dicotomia tra process-based view e outcome-based view R. Muzzica, Il ruolo dell’autorità giudiziaria nei programmi di giustizia riparativa, in Sist. pen., 2003, 2, p. 38 ss., che ravvisa tuttavia nella riforma Cartabia la prevalenza del primo paradigma.

[25] Secondo D. Guidi, Profili processuali della giustizia riparativa, in DisCrimen, 16 novembre 2022, p. 9 s., il giudice sarebbe anzi inconsciamente portato ad addebitare il mancato raggiungimento dell’esito riparativo all’imputato.

[26] Prospettato da A. Presutti, Aspettative e ambizioni del paradigma riparativo, cit.

[27] Per la natura dei fatti oggetto d’accertamento (si pensi ad es. ai reati in materia di immigrazione clandestina o di stupefacenti, in caso di dialoghi avviati con vittime surrogate o rappresentanti della comunità che si siano tirati indietro sul finire del programma), o per l’indisponibilità di mezzi sufficienti da parte dell’imputato (che potrebbe non essere in grado di risarcire integralmente il danno prima del dibattimento e per questo scelga la diversa via del dialogo con le vittime, poi non andato a buon fine senza sua colpa).

[28] È pacifico per la giurisprudenza di legittimità che la clausola «prima del giudizio» sia da interpretare come prima dell’a­pertura del dibattimento (v. ad es. Cass., sez. IV, 4 marzo 1991, n. 9582, in CED Cass., n. 188204; Cass., sez. IV, 17 dicembre 2009, n. 1528, in CED Cass., n. 246303) o, in caso di rito abbreviato, prima dell’ordinanza di ammissione al rito (Cass., sez. V, 27 settembre 2022, n. 223, in CED Cass., n. 284043). Per il conseguimento dell’esito riparativo il rinnovato art. 62 n. 6 c.p. non impone, a differenza delle altre condotte post-fatto contemplate dalla medesima disposizione, tale soglia temporale. È allora ben possibile che il termine per fruire delle altre ipotesi di attenuazione della pena risulti superato quando il programma riparativo prende il via e si arresta senza l’esito sperato per ragioni non imputabili a chi dovrà subire il trattamento sanzionatorio in caso di condanna.

[29] Vie suggerite, per tener conto del percorso infruttuoso, da M. Iannuzziello, La disciplina organica della giustizia riparativa e l’esito riparativo come circostanza attenuante comune, in Legisl. pen., 28 novembre 2022, p. 18, tuttavia connotate da ben più alti tassi di discrezionalità e comunque implicanti qualche forma di verifica sulle ragioni dell’insuccesso. Cfr. anche E. Mattevi, La giustizia riparativa: disciplina organica e nuove intersezioni con il sistema penale, in D. Castronuovo-M. Donini-E.M. Mancuso-G. Varraso (a cura di), Riforma Cartabia. La nuova giustizia penale, Milano, Wolters Kluwer-Cedam, 2023, p. 263.

[30] V. ad es. Cass., sez. V,10 aprile 2008, n. 31070, in CED Cass., n. 241166. Si veda altresì Cass., sez. V, 26 giugno 2006, n. 22323 che sottolinea (in motivazione) come il baricentro della causa estintiva sia da porre sulla condotta dell’autore e non sul consenso della vittima.

[31] Anche la giurisprudenza sviluppatasi intorno alle condotte risarcitorie di cui all’art. 62 n. 6 c.p. prima ipotesi conferma l’importanza dei vagli giudiziali sulle offerte e le accettazioni dei risarcimenti: v. Cass., sez. II, 18 gennaio 1993, n. 2611, in CED Cass., n. 193585; Cass., sez. II, 13 novembre 2019, n. 51192, in CED Cass., n. 278368.

[32] L’idea fiorisce e si sviluppa a partire dall’ormai classico studio di J. Braithwaite, Crime, Shame and Reintegration, New York, Cambridge University Press, 1989, imperniato sull’idea che la più potente arma contro i comportamenti criminali sia la riprovazione della comunità di appartenenza unita alla vergogna dell’autore per le azioni compiute. «Shaming the offender» è pertanto un percorso che le istituzioni dovrebbero gestire, seppure non in modo stigmatizzante, e perciò controproducente, ma a fini di una positiva reintegrazione in società degli autori dei reati (passim, ma in particolare p. 4 ss. e 54 ss.). La tesi è riaffermata con specifico riguardo ai percorsi di giustizia riparativa in Ahmed-N. Harris-J. Braithwaite-V. Braithwaite, Shame Management Through Reintegration, cit., passim. Notevole seguito ha avuto anche lo studio di S.M. Retzinger e T.J Scheff, Strategy for community conferences: Emotions and social bonds, in B Galaway-J Hudson (eds.), Restorative justice: International perspectives, New York, Criminal Justice Press, 1996, p. 315 ss. sulle pratiche di giustizia riparativa. Vi si sostiene che la rottura del legame sociale è passibile di riparazione se l’offender riconosce la sua vergogna, invece di negarla o nasconderla (p. 318 s.). Che la restorative justice faccia uso di questi principi e cerimonie legati alla vergogna della disapprovazione è rilevato da tempo: v. R. Young-B. Goold, Restorative Police Cautioning in Aylesbury – From Degrading to Reintegrative Shaming Ceremonies?, in Criminal Law Review, 1999, p. 126 ss.; G. Johnstone, Restorative justice, shame and forgiveness, in Liverpool Law Review, 1999, 21, p. 202, che evidenzia come l’incontro con le vittime e con gli effetti della condotta criminosa «helps offenders to really understand that what they did was wrong and helps them to feel deeply ashamed of it», passaggio necessario a una positiva reintegrazione in società. Sul punto v. anche R. Rodogno, Shame and guilt in restorative justice, in Psychology Public Policy and Law, 2008, vol. 14, n. 2, p. 142 ss.

[33] G. Johnstone, Restorative Justice. Ideas, Values, Debates, Cullompton, Devon, Willan Publishing, 2001, p. 125 s., che rileva come i rischi di trattamenti umilianti nella pratica del conferencing siano in verità sottostimati e riporta esperienze in cui gli offender si sono sentiti oggetto di «cerimonie di degradazione».

[34] Li si ritiene infatti affini alle shaming sanctions, categoria punitiva tornata in auge: v., pur problematicamente, G. Johnstone, Restorative justice, shame and forgiveness, cit., p. 203 ss. Se ne sottolinea la diversità in G. Mannozzi-G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, Torino, Giappichelli, 2017, p. 182 ss.

[35] V. M. Miraglia, La messa alla prova dell’imputato adulto, Torino, Giappichelli, 2020, p. 280 ss.

[36] Seppure ancora lasci spazio a soluzioni bizzarre giustamente biasimate: v. L. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova, Wolters Kluwer-Cedam, Milano, 2020, p. 130 ss. Per la necessità di una maggiore tassatività e tipizzazione delle prestazioni di riparazione, v. M. Donini, Pena agìta e pena subìta, cit., p. 10.

[37] Esigenza avvertita anche da D. Guidi, Profili processuali, cit., p. 14; L. Parlato, La giustizia riparativa: i nuovi e molteplici incroci con il rito penale, in D. Castronuovo-M. Donini-E.M. Mancuso-G. Varraso (a cura di), Riforma Cartabia, cit., p. 292 s.

[38] V. a riguardo V. Bonini, Evoluzioni della giustizia riparativa nel sistema penale, in questa Rivista, 2002, n. 1, p. 116; F. Brunelli, Programmi di giustizia riparativa, in G. Spangher (a cura di), La riforma Cartabia, cit., p. 769. Per R. Muzzica, Autorità giudiziaria, cit., p. 51 dovrebbero essere individuati parametri oggettivi su cui svolgere la verifica giudiziale. La differente formulazione dei commi 1 e 2 dell’art. 58 d.lgs. n. 150/2022 sembra tuttavia impedire, in caso di interruzione del programma o mancato raggiungimento di esito riparativo, l’invio al giudice di «ulteriori informazioni» da cui ricavarli.

[39] C. cost., 9 aprile 1987, n.115, dove la Corte censurava il fatto che «l’applicazione di pene distinte viene a vanificare la volontà del legislatore, e non perché l’ipotesi sia prevista da specifica eccezione normativa, ma soltanto perché le diverse violazioni si sono occasionalmente presentate all’esame dei giudici in tempi diversi».

[40] C. cost., 16 aprile 2002, n. 120, in cui la questione era ancora incentrata sui tempi del procedimento e su contingenze casuali foriere di irragionevoli disparità di trattamento, che qui venivano a determinarsi per la fissazione di due diversi dies a quo per la richiesta di rito abbreviato, seguita a un decreto di giudizio immediato, per imputato e difensore: gli interessati restavano in balia di una «scansione temporale (…) lasciata all’iniziativa dell’ufficio giudiziario che procede».

[41] R. Orlandi, La mediazione penale, cit., p. 185, prospettava la necessità di sospensione con sola possibilità di compimento degli atti urgenti; Id., Giustizia penale riparativa. Il punto di vista processuale, in Dir. pen. proc., 2023, p. 93, a commento della nuova disciplina, suggerisce di programmare la parentesi riparativa in modo «da assicurare – in caso di buon esito – sbocchi utili a fini decisori nel procedimento di cognizione»; M. Gialuz, Guida alla riforma Cartabia, cit., p. 20, propone di risolvere il problema mediante una richiesta di rinvio al giudice avanzata dall’imputato, così come prospettato dalla Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, in Gazz. Uff. 19 ottobre 2022, p. 578. Tuttavia, in assenza di prescrizioni normative, l’istanza potrebbe essere disattesa e vanificare gli effetti del programma in corso.

[42] Per severi e precisi rilievi sul punto, v. O. Mazza, L’efficientismo del processo post-accusatorio, in Arch. n. proc. pen., 2022, p. 504 s. Su tutt’altre posizioni è V. Bonini, Evoluzioni della giustizia riparativa, cit., che reputa tuttavia eccentrico l’innesco ex officio dei percorsi, con l’effetto di "procedimentalizzarli" (p. 114). Su come dall’invio giudiziale gli interessati possano sentirsi forzati, L. Parlato, La giustizia riparativa, cit., p. 290; R. Orlandi, Giustizia penale riparativa, cit., p. 91 nota 16. A difesa della scelta legislativa, v. P. Maggio, Giustizia riparativa e sistema penale, cit., p. 17.

[43] M. Bouchard, Commento al Titolo IV, cit., p. 9.

[44] Critica sull’insistenza e sovrabbondanza degli avvisi L. Parlato, La giustizia riparativa, cit., p. 286.

[45] Avrebbe ritenuto preferibile questa soluzione anche E. Mattevi, La giustizia riparativa, cit., p. 249.

[46] Direttiva 2016/343/UE, che a più riprese insiste sull’obbligo di non «presentare» all’esterno, o di non «riferirsi» all’impu­tato come colpevole prima che la sua responsabilità sia legalmente accertata, specie da parte di autorità pubbliche e giurisdizionali. Le dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero nemmeno «rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole» (§ 16, 17 e 18 dei Considerando). Su come l’accesso al sistema della giustizia riparativa presupponga «logicamente e giuridicamente, la definizione dei ruoli processuali di colpevole e di vittima del reato» v. diffusamente O. Mazza, L’efficientismo del processo, cit., p. 504 s.

[47] Rimarca il pregiudizio del giudice sulla colpevolezza al momento dell’invio e critica l’assenza di una previsione di incompatibilità D. Guidi, Profili processuali, cit., p. 8 s. V. anche, per i riflessi negativi sull’imparzialità del giudice, O. Mazza, L’efficientismo del processo, cit., p. 505. Ribatte a queste obiezioni P. Maggio, Giustizia riparativa e sistema penale, cit., p. 19.

[48] V. in particolare l’art. 12, comma 1, lett. c), della direttiva 2012/29/UE, oltre che il § 30 della raccomandazione CM/Rec(2018)8. Sul questo profilo, tra i molti, G. Mannozzi, La giustizia senza spada, cit., p. 101; G. Di Chiara, Scenari processuali, cit., p. 513 s.; G. Ubertis, La mediazione penale tra finalità riconciliative ed esigenze di giustizia, in AA.VV., Accertamento del fatto, alternative al processo, cit., p. 149 s.; R. Orlandi, Giustizia penale riparativa, cit., p. 91; A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa, cit., p. 261 ss. M. Bouchard, Commento al Titolo IV, cit., p. 10 s.; L. Parlato, La giustizia riparativa, cit., p. 274.

[49] Per una descrizione dettagliata di queste pratiche emendative, oggi incluse tra le riparazioni simboliche dalla legge italiana, v. ancora G. Johnstone, Restorative justice, shame and forgiveness, cit., p. 202: «Offenders are given an opportunity, and encouraged, to apologise to their victims and to others who have been harmed by their behaviour, such as their parents. They are then invited to offer to do something to repair the material harm they have caused. (…) It is crucial to understand that these acts of apology and reparation are intended for the offender’s benefit, as well as for the benefit of the victim. Through showing remorse, saying sorry, and accepting responsibility for repairing their harm, offenders pave the way for their reintegration into the community of law-abiding citizens. They distance their true selves from their criminal actions, confirming that they are in essence good people, whilst at the same time accepting responsibility for their bad behaviour». V. anche G. Mannozzi, Pena e riparazione: un binomio non irriducibile, in E. Dolcini-C.E. Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, Giuffrè, 2006, p. 1167, che riporta come in Nuova Zelanda, una delle culle del modello riparativo, la legge preveda espressamente la considerazione del «rimorso per il fatto commesso», l’offerta di scuse, ma anche «la promessa formale di non reiterare l’attività delittuosa». E v. ancora, ampiamente, G. Mannozzi-G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa, cit., p. 228 ss. dove tra l’altro si sostiene che il rifiuto di porgere scuse formali possa essere «indice di una certa pervicacia nella scelta criminosa» e la spia di una persistente pericolosità (p. 232); le scuse, poi, per essere costruttive, devono essere precedute da un’«espressioni di rimorso, dispiacere sincero». Si tratta all’evidenza di scenari, sfondi, grammatiche del tutto inconciliabili con la presunzione di non colpevolezza.

[50] Lo si ricava per esclusione dall’art. 42, comma 1, n. 6), che consente di indicare come «autore dell’offesa» (solo) «la persona nei cui confronti è stata emessa una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’articolo 344-bis del codice di procedura penale, o per intervenuta causa estintiva del reato». Peraltro, condivisibilmente, M. Iannuzziello, La disciplina organica, cit., p. 10, reputa in frizione con la presunzione di non colpevolezza applicare simile definizione anche a chi sia stato prosciolto per estinzione del reato o assenza di condizioni di procedibilità. Torna infatti, irrisolta e persistente, la questione di cosa sia un’offesa «penale» in campo riparativo (v. supra, § 2.).

[51] V. per tutti A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa, cit. p. 257 s. che rimarca come la necessità «che vi sia adequate evidence of guilty" (…) deve considerarsi un principio basilare dei programmi di giustizia riparativa».

[52] Cfr. R. Muzzica, Il ruolo dell’autorità giudiziaria, p. 48, che ritiene inconcepibile l’invio giudiziale in caso di sottoposizione dell’imputato a provvedimenti cautelari.

[53] L’art. 55, comma 1, d.lgs. n. 150/2022 prescrive spazi e luoghi «idonei ad assicurare riservatezza e indipendenza».

[54] V. per tutti F. Del Vecchio, Il danno alla vittima del reato e i suoi rimedi, Milano, Wolters Kluwer-Cedam, 2017, p. 84 ss.

[55] Ritiene invece un limite invalicabile la qualificazione di vulnerabilità dell’offeso L. Parlato, op. cit., p. 297.

[56] C. Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto, cit., p. 100.

[57] Su come l’esercizio del diritto al silenzio possa essere d’ostacolo alla praticabilità di un percorso di mediazione, v. V. Patanè, voce Mediazione penale, cit., p. 580.

[58] G. Di Chiara, La premura e la clessidra, cit., p. 382; R. Orlandi, Giustizia penale riparativa, cit. p. 91.

[59] E come sembra considerarla la Relazione illustrativa, cit., p. 578, ove fa riferimento, sebbene a mero titolo esemplificativo dei pericoli per l’accertamento processuale, al solo caso della vittima come fonte di prova dichiarativa decisiva, che rischierebbe di essere alterata dal confronto con l’imputato.

[60] R. Orlandi, La mediazione penale, cit., p. 183 s.; V. Patanè, Mediazione penale, cit., p. 580.

[61] V. le preoccupazioni espresse da D. Negri, L’avvenire del processo penale. Tre voci a confronto, in Legisl. pen., 10 aprile 2021, p. 21 s. che mette in guardia dal «pericolo di scivolare verso la generalizzata sottomissione degli imputati a pratiche penitenziali».

[62] Per R. Orlandi, Giustizia penale riparativa, cit., p. 81, «la procedura riparativa ha la sostanza di una pratica terapeutica»; Id., La mediazione penale, cit., p. 166, la definisce come «un percorso comune simile più a una psicoterapia che a un confronto dialettico».

[63] Sulla «regola d’oro» del consenso che sanerebbe tutti i rischi e le difficoltà della giustizia riparativa v. A. Ciavola, Il contributo della giustizia consensuale e riparativa, cit., p. 259 ss. ed E. Mattevi, Una giustizia più riparativa, cit., p. 452. Contra, su come sia «proprio la valorizzazione estrema del fattore consensuale a destare inquietudine», v. D. Negri, L’avvenire, cit., p. 22.

[64] «Il processo di riparazione, del resto, passa necessariamente per una fase caratterizzata proprio dalla presa di coscienza, da parte del reo, non solo degli effetti della propria condotta ma anche dei motivi personali che lo hanno spinto a delinquere» (G. Mannozzi, La giustizia senza spada, cit., p. 122). Analoga esigenza è evidenziata da V. Patanè, Mediazione penale, cit., p. 578; P. Maggio, Giustizia riparativa e sistema penale, cit., p. 25; in questi termini si esprime anche l’Ufficio del Massimario nella Relazione su novità normativa. La "riforma Cartabia", cit., p. 280.