Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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La procedura penale messa alla prova. Quale spazio per la giustizia riparativa? (di Giovanni Barrocu, Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Sassari)


L'istituto della messa alla prova è stato rivisto e potenziato cona la recente riforma processuale, anche tramite la valorizzazione della prospettiva riparativa. Proprio l’intersecarsi di queste due diverse ipotesi di definizione alternativa del procedimento ordinario rende necessarie alcune riflessioni relative, innanzitutto, all’impatto di simili deviazioni sui princìpi fondamentali e, inoltre, alla concreta realizzazione di un obiettivo che non sia semplice aumento statistico del ricorso alla deflazione processuale, bensì un utilizzo della giustizia riparativa quale reale strumento rivolto a disinnescare il conflitto sociale.

The criminal procedure under probation. Is there a space for restorative justice?

The probation has been revised and strengthened with the recent procedural reform, also through the enhancement of the restorative justice perspective. The intersection of these two different hypotheses of early definition of the ordinary procedure makes some reflections necessary relating, first of all, to the impact of similar deviations on the fundamental rights and, furthermore, to the concrete realization of an objective that is not a simple statistical increase of the use of procedural deflation, but rather a use of restorative justice as a real tool aimed to defusing social conflict.

SOMMARIO:

1. Premessa. La messa alla prova e la giustizia riparativa nel cotesto dell’ordinamento italiano - 2. Il difficile inquadramento costituzionale - 3. Conciliare o punire? Due esigenze non sempre compatibili - NOTE


1. Premessa. La messa alla prova e la giustizia riparativa nel cotesto dell’ordinamento italiano

Sin dai suoi esordi, la messa alla prova è stato un istituto decisamente divisivo e in questo condivide il suo “destino” con la giustizia riparativa; entrambe viste con una certa diffidenza, come spesso accade alle innovazioni di portata radicale che potrebbero costituire un punto di rottura con categorie processuali consolidate. Ora queste due possibili “deviazioni” dal percorso procedimentale ordinario si trovano a intersecarsi maggiormente l’una con l’altra, affinché – almeno nella prospettiva riformista – ne possano entrambe trarre nuova linfa. In questa sede non è possibile ricostruire il dibattito dottrinale emerso in merito alla messa alla prova né all’apporto della giustizia riparativa nel processo penale, men che meno offrire soluzioni univoche a una divergenza di opinioni che sembra essere la conseguenza dell’approccio allo studio del sistema processuale nella sua interezza. Una differenza che costituisce un derivato connaturato all’essenza del procedimento penale, la cui diversità di vedute è poi in fondo la conseguenza di tale dato ontologico, vale a dire che il processo in quanto fenomeno umano è imperfetto ma perfettibile, per il tramite anche di scelte di compromesso.

La messa alla prova e la giustizia riparativa, ovvero entrambe le ipotesi riconnesse tra loro, comportano importanti differenziazioni rispetto al procedimento ordinario e – con una estrema generalizzazione –, si possono tracciare due differenti approcci all’analisi critica di istituti dotati di caratteristiche tanto peculiari. Da un lato, una concezione idealistica, dogmaticamente ancorata ai princìpi generali, similmente ma non pedissequamente espressi nella Costituzione, nella Convenzione e.d.u. e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici; dall’altro lato, una visione maggiormente “ammiccante” all’empirico – e non per questo di inferiore valore etico –, al dato fattuale, alle problematiche del sovraffollamento carcerario e alla ragionevole durata del processo che sembra imporre sacrifici per inseguire il Sacro Graal: la deflazione del carico giudiziario, tramite la valorizzazione della marcata natura premiale di alcuni istituti, che dovrebbe automaticamente comportare una riduzione del numero dei processi e anche della tempistica degli stessi.

L’analisi della messa alla prova in una prospettiva visuale allargata che vada al di là della mera esegesi delle norme – ancor di più con il rinnovato apporto della giustizia riparativa – richiede l’apporto di altre scienze, indispensabili per l’inquadramento dell’istituto nel suo contesto sociale. Con una piccola fuga in avanti, ad esempio, al fine di verifica la reale portata special preventiva degli istituti è utile uno studio criminologico, il quale è certamente rilevante per il tema che ci occupa, e più precisamente in relazione a quanto gli aspetti più propriamente riparatori della probation all’italiana siano in grado di disinnescare il potenziale criminogeno dei reati espressione di conflittualità sociale, seppure sanzionati con pena edittale contenuta. In realtà, proprio la natura dell’istituto sembrerebbe lasciare margini per l’allargamento della sua sfera di operatività a delitti anche gravi; e questa potenziale evoluzione impone ancor di più una valutazione dell’impatto sistematico dell’istituto, al di là dell’attuale perimetro, comunque tutt’altro che trascurabile.

In più, è opportuna una riflessione circa l’eventualità che il potenziale effetto risocializzante cui si è fatto cenno – insito, voluto, e rafforzato anche tramite l’interazione con la mediazione penale [1] – non possa essere frustrato dalla scelta di calare la messa alla prova all’interno dell’ordinamento italiano restando ancorati a concezioni che sembrano essere insuperabili. Non ci si intende di certo riferire al necessario e dovuto rispetto dei princìpi fondamentali e alla presunzione di innocenza in particolare, ma alla volontà di sfruttare un istituto, atavicamente preposto a creare alternative rieducative alla detenzione, in ossequio a una insolita eterofunzione special-preventiva antecedente all’accertamento penalistico. Come dire, con un’ardita metafora, che un vestito altrui per quanto modificato con un lavoro di alta sartoria (legislativa) resterà pur sempre un abito prestato, per quanto lo si possa adattare.

Pur con tutte le perplessità che un istituto anti cognitivo, o se lo si preferisce con vaglio e soprattutto provvedimento giurisdizionale atipico – ordinanza di criptocondanna – suscita, è però opportuno riconoscere che sotto il profilo più propriamente statistico l’istituto ha funzionato e anzi ha un impatto sempre crescente, con l’aumento della frequenza del ricorso alla messa alla prova, e un numero realmente esiguo di ipotesi nelle quali il percorso trattamentale prospettato viene interrotto prima della sua conclusione.

Infatti, emerge dai dati diffusi dal ministero la costante crescita del ricorso alla probation (al netto del periodo pandemico) e una percentuale di recidive enormemente più basso rispetto all’utilizzo di altri strumenti di prevenzione speciale. Il dato, chiaramente, deve essere contestualizzato, posto che l’acces­so al percorso alternativo è previsto per reati molto diversi tra loro, benché la questione costituzionale sollevata in merito sia stata dichiarata infondata [2], e diverse di queste fattispecie (come quelle conseguenti alle violazioni del codice della strada) hanno ontologicamente carattere scarsamente recidivante. Per cui, come insegna la scienza statistica, i differenziali (variazioni) dovrebbero essere valutati su elementi similari, altrimenti anche una tale rilevazione, pur mantenendo una sua utilità, restituisce un risultato falsato. D’altra parte, non si può negare un assunto di logica “spicciola” che manifesta l’utilità empirica dell’istituto: se è vero che la maggior parte dei reati sono commessi da soggetti recidivi, disinnescare la recidiva stessa significa ridurre il numero dei reati commessi. Per la statistica, rectius per la tenuta del sistema penale, il vero problema è chi ricade in condotte delittuose, generando così una sorta di spirale, molto più di chi commette il primo reato.

Anche per chi non è travolto da entusiasmo per lo spostamento in fase precognitiva di un istituto, sorto con altre finalità, al quale non si è voluta sottrarre quella che pare essere un’irrinunciabile esigenza retributiva, è, ad ogni modo, doveroso riconoscere l’esistenza di un dato realisticamente difficile da contestare. Vale a dire, ammettere che la messa alla prova come mezzo contestualmente deflattivo, punitivo e premiale non solo funziona ma sembra pure accontentare tutti: politici, avvocati, magistrati, imputati e persone offese, concilianti e conciliabili dietro risarcimento del danno. Oggi, ancora di più, nel momento in cui si è cercato di valorizzare maggiormente l’aspetto più direttamente riparativo. Soddisfa, insomma, il sistema giustizia nel suo insieme. E lo fa più del patteggiamento, con cui condivide alcuni aspetti ma presenta anche notevoli ed evidenti differenze.

Eppure, esiste un altro lato della medaglia.


2. Il difficile inquadramento costituzionale

Poste le note questioni sollevate in riferimento alla compatibilità costituzionale della messa alla prova, è necessario prendere l’abbrivio da una valutazione in ordine alla “tenuta” della presunzione di innocenza nel contesto di un istituto che, in tale ottica, presenta evidenti tratti borderlines. Questo perché anche nella prospettiva della giustizia riparativa è fondamentale comprendere come e se sia possibile bilanciare princìpi che rischiano di collidere, nonché se le scelte di politica legislativa abbiamo agevolato questo difficile compito.

Senza poter in questa sede entrare nel merito di come la stessa presunzione di innocenza possa essere vista o inquadrata in riferimento alle differenti opzioni terminologiche riscontrabili tra Costituzione e convenzioni sovranazionali, alcuni dati possono essere difficilmente confutabili: la presunzione in parola implica una duplice garanzia, come regola di trattamento e come regola di giudizio, e in quest’ultima prospettiva impone al giudice un accertamento rigoroso in termini fattuali e giuridici per poter condannare, altrimenti l’imputato deve essere prosciolto.

Ma c’è di più. Le garanzie processuali sono difficilmente isolabili nella dinamica processuale, così come difficoltoso è distinguere quali attengono esclusivamente alla prospettiva soggettiva dell’im­putato e quelle che assicurano un elevato standard qualitativo dell’accertamento penalistico. Se la premessa è vera, la conseguenza è che la presunzione di innocenza costituisce una sorta di “filo di Arianna” che cuce fra loro le diverse garanzie processuali (il diritto di difesa in primis, il contraddittorio, l’imparzialità del giudice, etc.) e agevola la “uscita”, ergo la soluzione, delle più complicate dinamiche all’interno delle quali i diritti fondamentali possono essere a rischio o vengono attenuati nella loro portata precettiva.

Orbene, i diritti e le garanzie quanto alla loro attuazione hanno una dimensione che si potrebbe definire fluttuante poiché subisce attenuazioni e oscillazioni nel corso del procedimento, ricollegabili alle diverse fasi e gradi dello stesso; invero, mutano nella forma e nella sostanza soprattutto come derivato di natura eminentemente cronologica della dinamica processuale. Questa costatazione vale a maggior ragione in riferimento alla presunzione di innocenza, come se fosse possibile ipotizzare una responsabilità dell’imputato a formazione progressiva, il cui derivato più deteriore porrebbe in dubbio persino la necessità di dover attendere una condanna definitiva; secondo una ricostruzione derivante dalla possibile interpretazione dalle convenzioni internazionali per cui la tenuta della presunzione in parola dovrebbe estendersi, nella sua massima ampiezza, soltanto sino a una pronuncia di colpevolezza. L’ar­gomento è decisamente scivoloso, soprattutto dove rivolto a legittimare progressivi automatismi nella privazione delle libertà della persona, e calato sul tema de quo impone una prima riflessione che può essere espressa con un breve flash foward: nella messa alla prova una qualche afflizione prescinde anche dalla sentenza, non definitiva, ci si accontenta di un’ordinanza.

Tuttavia, sulla portata della presunzione di innocenza, per disinnescare ab origine ogni dubbio si può prendere in prestito – seppur impropriamente – il principio della “ragione più liquida” di civilistica elaborazione giurisprudenziale, poiché la questione relativa all’interpretazione della presunzione di innocenza in riferimento alla normativa sovraordinata di riferimento non dovrebbe neppure porsi. Come è stato efficacemente sottolineato, «meglio sgombrare subito il terreno da un ricorrente equivoco […] l’effettiva portata precettiva della regola di trattamento implicata dall’art. 27 comma 2 Cost. riguarda proprio i gradi di giudizio successivi alla condanna non definitiva. Affermare che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva assume un preciso significato dopo la condanna non definitiva, perché prima di essa nessuno avrebbe potuto considerarlo colpevole in mancanza di una pronuncia giurisdizionale in tal senso. Come sarebbe possibile “ritenere colpevole colui che nessun giudice ha ancora dichiarato tale?” [3]». In altre parole, si avrebbe una contraddizione logica se fosse necessaria una garanzia rivolta a tutelare l’imputato dal rischio di essere ritenuto colpevole senza un accertamento giurisdizionale, la cui forza precettiva – o, sarebbe meglio dire, “protettiva” – esprime il suo valore proprio in riferimento alle pronunce che accertino la responsabilità ma non siano definitive. E certamente non lo è l’ordinanza con cui si dispone la messa alla prova.

Pertanto, se tale è la tutela che deve essere riconosciuta al principio che regge il sistema processuale nel suo insieme, poiché ne costituisce, in fondo, il presupposto fondamentale per la sua esistenza (nullum crimen, nulla poena, sine iudicio), oltre all’ampiezza della sua portata applicativa, si pone un’altra questione dirimente. Rispetto a un istituto a carattere premiale e con accesso connotato da chiara manifestazione di volontà dell’imputato, qual è la messa alla prova, non ci si può non interrogare sulla disponibilità soggettiva della presunzione di innocenza; il tutto non solo nell’ottica di tutela individuale poiché «rinnegare la presunzione di innocenza non significa solo privare l’imputato di tutte le garanzie processuali che su di essa sono edificate, ma anche negare la stessa funzione cognitiva del processo, cambiare il significato della giurisdizione penale» [4]. Ebbene, più in concreto, scegliere di essere “in prova”, significa aderire a un percorso risocializzante, riparativo, conciliativo rispetto a un fatto di reato espressione di una qualche forma di devianza – prima di una valutazione vera e propria di responsabilità ma pure dell’esistenza stessa del fatto – per cui sembra davvero illusorio immaginare un possibile successivo giudizio circa la sua responsabilità, conseguente alla revoca dell’ordinanza, che non sia un mero feticcio di un giudizio reale.


3. Conciliare o punire? Due esigenze non sempre compatibili

Proprio l’aspetto relativo all’accertamento e alla consistenza delle presunzioni processuali, in termini di innocenza o – come sembra – della sussistenza ante iudicium di esigenze special preventive, è di fondamentale importanza per poter affrontare gli aspetti più propriamente attinenti alla giustizia riparativa calata nel contesto della probation, e richiede uno sforzo di comprensione del perimetro costituzionale all’interno del quale muove l’istituto. Gli stessi sono stati tracciati, come è noto, nella sentenza n. 91/2018 con la quale, seppur con pregevole sforzo argomentativo, la Corte ha salvato la messa alla prova dalle censure di incostituzionalità [5].

Delle diverse questioni sollevate dinnanzi alla Corte costituzionale [6], tra quelle che potrebbero rilevare maggiormente ai fini della presente riflessione vi è in primis l’aspetto relativo alla valutazione del giudice chiamato a disporre la sospensione del procedimento con messa alla prova. Sia esso su iniziativa dell’imputato ovvero, oggi, con il consenso di quest’ultimo, a seguito di proposta del pubblico ministero.

In tale prospettiva il richiamo normativo all’art. 129 c.p.p., con un parallelismo – solo in parte calzante – con il patteggiamento, ha consentito di sostenere che perlomeno un giudizio allo stato degli atti, embrionale, ictu oculi – se lo si preferisce –, esiste anche nel procedimento speciale in esame. La possibilità di prosciogliere l’imputato, a prescindere dalla sua richiesta, impedirebbe sostanzialmente di considerare l’istituto come totalmente privo di cognizione e tutelerebbe la presunzione di innocenza nel senso di non permettere macroscopiche violazioni della stessa, come succederebbe se fosse ritenuta una garanzia totalmente disponibile.

La questione sollevata dal giudice grossetano (a quo) riguarda però lo scarso materiale probatorio disponibile, che di riflesso impatta sulla possibilità di optare per il proscioglimento immediato ovvero sulla possibilità del giudice procedente di verificare tutti gli elementi richiesti per decidere sulla sospensione con messa alla prova. A cascata, è emerso il dubbio circa l’accesso del giudice del dibattimento al fascicolo del pubblico ministero, problema cui la Corte costituzionale ha risposto sostenendo come fosse compatibile con il sistema processuale l’applicazione di un potere similare a quello previsto dall’art. 135 disp. att. c.p.p., ovverosia la possibilità del giudice dibattimentale di “sbirciare” nel fascicolo del pubblico ministero; la qual cosa ha generato molte perplessità soprattutto in ordine alla sua compatibilità con le funzioni decisorie, laddove – in caso di valutazione negativa – il procedimento dovesse proseguire nelle forme ordinarie. A tal proposito occorre riconoscere come l’introduzione dell’udienza predibattimentale ex art. 554-bis c.p.p. risolve in gran parte la questione relativa alla compatibilità, posto che il giudice preposto alle valutazioni inerenti alla richiesta di sospensione con messa alla prova è comunque diverso dal giudice del potenziale dibattimento che dovesse celebrarsi a seguito del diniego giurisdizionale. Ad ogni modo non si può trascurare come possono tutt’ora insorgere profili di incompatibilità del giudice come avverrebbe, ad esempio, in caso di connessione ovvero nelle ipotesi di recupero del diritto al rito premiale a seguito di nuove contestazioni dibattimentali.

Inoltre, un altro aspetto di notevole impatto, seppure indiretto, sui profili della giustizia riparativa, riguarda la tipologia del provvedimento e il contenuto del trattamento. In breve, la criticità attiene alla possibilità di irrogare ed eseguire sanzioni penali in assenza di una condanna e neppure di una sentenza.

E qui si può scorgere un fenomeno pericoloso. Restando alla metafora psichiatrica, l’istituto della messa alla prova da borderline inizia a manifestare evidenti tratti del disturbo bipolare di personalità. La natura “ibrida” della probation ha consentito di valorizzare i tratti tipicamente processuali per provare ad attenuare la concezione deterministica della pena (anche in riferimento alla specificazione normativa della sua durata) e una sua valutazione sostanziale, rispetto a una categorizzazione legislativa; seppure in quello che sembra un aperto contrasto con la normativa sovranazionale che richiede a tal proposito un apprezzamento in concreto in ordine al reale contenuto della stessa, con particolare riferimento alla sua afflittività. D’altra parte, l’assenza di un accertamento sulla responsabilità dell’imputato sarebbe compensata dal consenso, mentre l’atipicità del trattamento predisposto dal giudice – insito nella particolarità del rito che comporta un’inversione degli ordinari schemi procedimentali – permetterebbe che la funzione risocializzante e special preventiva siano anticipate rispetto al provvedimento definitivo.

Insomma, l’ordinanza che ammette al rito, sebbene comporti obbligatoriamente da parte del giudice una valutazione in chiave rieducativa, non conterrebbe un provvedimento equiparabile a una sanzione penalisticamente intesa. Per cui, se per quanto attiene alla problematica inerente alla presunzione di innocenza la natura processuale del rito giustifica deviazioni dall’ordinaria regola di giudizio, gli aspetti sostanziali invece permetterebbero l’erogazione di una forma di trattamento (id est il lavoro di pubblica utilità) in una fase antecedente alla sua usuale funzione sanzionatoria.

E qui il problema diviene irrisolvibile senza una sorta di finzione. Se l’eccezione che faceva riferimento alla formazione del convincimento, avvenuto in modo atipico (cui la Corte costituzionale ha replicato invocando l’art. 135 disp. att.), è stata superata attraverso un raffronto con il patteggiamento, la qualificazione del percorso trattamentale come meramente volontaristico non equiparabile a una pena, convince poco. Curioso affermare che non è una pena ma è già previsto il calcolo del “presofferto” (tre giorni di lavoro corrispondono a un giorno di reclusione), oltre alla chiara indicazione legislativa secondo cui il giudice nella valutazione del percorso deve utilizzare i parametri di cui all’art. 133 c.p., rubricato “Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena”.

Quello che appare dal tentativo di creare una atipicità che resti nei margini del costituzionalmente consentito sembra essere una formalistica simulazione della realtà, invero ben poco riuscita. Venendo poi a come i diversi istituti si intersecano tra loro, a ben vedere, questi aspetti – tutt’altro che chiariti dalla giurisprudenza costituzionale – possono impattare negativamente sulla portata riparativa della messa alla prova. E, se questo doveva essere un test sull’introduzione della giustizia riparativa in una fase nettamente anticipata rispetto all’esecuzione, può rivelarsi decisamente controproducente.

Prima ancora, però, esiste da superare una prima possibile difficoltà concettuale di fondo. Sussiste compatibilità tra Giustizia negoziata e Giustizia riparativa?

Il fattore tempo, per entrambe, è determinante, ma sembrerebbe in modo opposto, perché se i riti speciali ambiscono alla semplificazione attraverso il sacrificio di porzioni più o meno ampie di giurisdizione (anche a costo di far degradare l’efficienza verso l’efficientismo), la giustizia riparativa richiede tempo e pazienza, la necessità di un confronto profondo, del tempo naturale per apprezzare il potenziale disvalore di una condotta che non è oggettivo ma deve essere sempre posto in una valutazione di relazione intesa a comprendere come sia stata percepita dalle persone coinvolte, uscendo dall’ottica giudicante che è tipica del processo, ma avendo come incipit fondamentale – come punti fermi a partire dai quali iniziare un percorso con i singoli e con la collettività –, con il possibile coinvolgimento delle famiglie, i diversi ruoli e un fatto ben definito, seppure non necessariamente coincidente con gli elementi dello stesso penalisticamente inteso.

Parrebbero due traiettorie parallele, non solo destinate a non incontrarsi mai, ma che procedono in direzioni diametralmente opposte. L’incompatibilità che sembra profilarsi non è solo quella relativa ai tempi richiesti, soprattutto per la mediazione, ma pure la possibile esistenza della stessa nell’ambito di un procedimento che frettolosamente vuole liquidare l’accertamento per favorire la prevenzione speciale di un presunto innocente, per il tramite di una irrinunciabile sanzione penale dal “sapore” decisamente retributivo.

La bipolare messa alla prova è istituto penalistico e processuale al contempo, si è detto. Ma non si può attingere dalle due sfere indiscriminatamente. Con una enorme semplificazione, si può sostenere che il diritto penale, nella sua ambizione utopica e ideale, se raggiungesse l’obiettivo di prevenzione generale, potrebbe vivere di sola prevenzione. Tutti i consociati credono nelle norme, nel senso di averle eticamente fatte proprie e nessuno commette reati. Il reo, la persona offesa, il danneggiato, esistono solo staticamente, sulla carta. Posto che l’utopia è tale proprio perché irrealizzabile deve intervenire il processo penale – che altrimenti rimarrebbe solo una ventilata possibilità –, il quale dovrebbe porsi come strumento repressivo solo a condizione della previa cognizione e accertamento di responsabilità.

Ma se il reo nella dinamica del processo penale è l’indagato/imputato ed è presunto innocente, la persona offesa/vittima è, alla stregua, presunta tale, perlomeno come offesa dall’imputato di quel procedimento.

Tutto nel processo penale deve essere accertato. Nel seguire l’ordine delle formule terminative di assoluzione si evince che primariamente devono essere provati gli elementi costitutivi di un reato, ossia se il fatto sussiste. E questa base, pur su presupposti diversi, vale a dire il riconoscimento dell’esistenza di un fatto, della sussistenza di una relazione tra due soggetti, legati da uno specifico occorso, deve esserci per l’inizio di un percorso riparativo che miri realmente a un tipo di giustizia che disinneschi il conflitto sociale; in alternativa, avremo solo il commodus discessus nel quale in sostanza nessuno è chiamato formalmente a riconoscere alcunché, le vittime – o presunte tali se si condivide il ragionamento appena proposto – vedono nel rito in parola una procedura premiale nella quale l’offeso non è escluso e sono tacitate tramite il mero risarcimento del danno, senza dover intraprendere autonome e dispendiose azioni civili. Ridurre il tutto al ristoro economico in verità è proprio l’antitesi della giustizia riparativa, perché la mera soddisfazione civilistica ha una dimensione eminentemente privata, la mediazione penale non è delega privata alla gestione delle conseguenze sociali del reato ma ha una dimensione pubblica, nel senso che le sue potenzialità hanno un ruolo determinante per la collettività, al fine di disinnescare il conflitto sociale e favorire lo sviluppo di una coscienza civica condivisa, aderente il più possibile al diritto positivo.

Il problema allora è circolare: la prevenzione speciale di un presunto innocente applicata con ordinanza che potrebbe condurre all’estinzione del reato, tramite un trattamento individualizzato obbligatorio, il cui contenuto fondamentale resta una pena che però stavolta pena non è, e si presenta come irrinunciabile per il rito.

Ma proprio l’obbligo del trattamento, in realtà, potrebbe porsi come ostacolo alla mediazione penale, per l’utile svolgimento della quale è necessario uscire da canoni “retributivi”, giudicanti, per entrare in un’ottica di dialogo che conduca alla comprensione delle differenti posizioni, in riferimento alle cause e ai diversi stati emotivi che hanno condotto verso un conflitto. Invero, la giustizia riparativa ha molto più bisogno della comprensione che della reazione da parte dell’ordinamento, che potrebbe porre il soggetto in una condizione nella quale si sente lui stesso vittima del sistema, che per brevità, per strategia processuale, per fattori economici, per paura, ha dovuto accettare. Ebbene, l’imputato può vivere il percorso per quello che in effetti potrebbe essere: vale a dire un moltiplicarsi di sanzioni, penali, civili e amministrative, cui si aggiunge la sofferenza emotiva, la possibile umiliazione derivante dal dover rivivere la vicenda, alla stregua di come l’assenza di un percorso realmente avvertito come momento di riflessione può aumentare i rischi di vittimizzazione secondaria.

Eppure, non sembra che lo Stato voglia rinunciare a un minimo quid retributivo come reazione alla violazione penalistica e delegare maggiormente alla giustizia riparativa la creazione di una coscienza comune similare tra etica e norma; forse più facile da perseguire se le regole fossero percepite come reale volontà di aiuto, prima ancora che di punizione. Chiaramente, in un ragionamento simile non può di certo essere dimenticato l’altro scoglio critico che si staglia sullo sfondo, ovvero l’obbligatorietà del­l’azione penale.

Non è certamene operazione semplice trovare un punto di equilibrio tra un processo penale – nonché un sistema carcerario – ormai privo da anni di provvedimenti indulgenziali e per il cui funzionamento è richiesta celerità, e un percorso di giustizia riparativa che ha necessità di tempo, equilibrio e risorse.

Senza nessuna pretesa di offrire soluzioni a problematiche tanto complesse, sebbene siano necessari studi e valutazioni ben più approfonditi, si potrebbe ipotizzare di valorizzare la prospettiva ammissiva o confessoria dell’imputato nell’accesso alla messa alla prova, anche per le conseguenze positive che la stessa avrebbe nel corso della mediazione. Senza dimenticare il nemo tenetur se detegere, in questo modo l’istituto parrebbe anche più fedele alla propria natura intrinseca, di prova sociale, anche afflittiva, per il ristoro della collettività, innanzitutto; ma sarebbe anche meno ipocrita, così da non domandare a un soggetto presunto innocente di sottoporsi volontariamente a un programma di prevenzione speciale.

Un’ulteriore ipotesi potrebbe essere quella di formalizzare il momento cognitivo attraverso una pronuncia in termini di “non ragionevole previsione di condanna” accompagnato dallo stabilire la messa alla prova con sentenza, all’interno della quale il giudice prevederà già quale debba essere la pena detentiva e/o pecuniaria per l’eventualità in cui il soggetto non segua il percorso trattamentale tracciato dall’ufficio per l’esecuzione penale esterna, approvato dal giudice stesso, comprensivo di un programma di giustizia riparativa, il tutto però con una maggiormente specificazione in via legislativa. Così, verrebbe ricondotto il lavoro di pubblica utilità a ciò che di fatto è, vale a dire una sanzione penale a tutti gli effetti. Ma pure in tale ottica, dovrebbe essere possibile una più attenta valutazione del caso concreto, dello specifico reato, senza la rigidità che connota oggi la sospensione con messa alla prova; in altri termini, sarebbe opportuna la creazione di un sistema che consenta di adattare maggiormente il percorso alla specifica fattispecie per cui si procede e soprattutto al percorso di giustizia riparativa intrapreso.

In conclusione, come detto, così come è strutturata la messa alla prova accontenta tutti, funziona egregiamente se si guarda il dato statistico, eppure non convince. Sembra essere stata calata nel nostro sistema processuale dall’esterno modificandone alcune categorie concettuali ma senza voler abbondare i vecchi schemi punitivi. Sebbene sia il primo rito speciale nel quale sembrerebbe trovare una collocazione importante la giustizia riparativa, il timore è che questi retaggi impediranno alla stessa di esprimere le sue potenzialità, poiché la volontà di innovare senza poi cambiare realmente non può essere sufficiente e rischia di intaccare invece proprio quelle fondamenta su cui si regge il sistema processuale.

Rapidità, deflazione, ed efficienza sono obiettivi da raggiungere, certamente con qualche compromesso, ma che sia realmente tale: forse si può fare di più, anche in merito a un istituto che appare realmente – nel proseguire le incursioni terminologiche nella scienza medica – “iperfunzionante”.


NOTE

[1] Per brevità, anche nel proseguo, si richiama alla mediazione, benché – chiaramente – gli strumenti di giustizia riparativa siano molteplici e ciascuno richiede tempo e approfondite riflessioni. Ci si riferisce, ad esempio, alla mediazione con vittima a-specifica, alla conciliazione, al dialogo esteso ai gruppi parentali o tra gruppi di vittime e autori, ai consigli commisurativi, alle scuse formali, ecc.

[2] C. cost., 10 marzo 2017, ord. n. 54.

[3] Così O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in Dir. pen. cont., 9 aprile 2019, p. 3, nel richiamare P. Ferrua, Presunzione di non colpevolezza e definitività della condanna penale, in Id., Studi sul processo penale, II, Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, Giappichelli, 1992, pp. 123-124.

[4] Ancora O. Mazza, op. cit., p. 4.

[5] C. cost., 27 aprile 2018, n. 91.

[6] C. cost., 27 aprile 2018, n. 91.