Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La Corte di cassazione torna a pronunciarsi sul regime del procedimento in assenza ma sorgono dubbi sulla tenuta costituzionale della normativa (di Costanza De Caro, Dottoranda in Diritto processuale penale – Università degli Studi di Firenze)


La pronuncia della Corte di cassazione in commento, che non smentisce né innova la posizione già adottata dalla stessa in punto di procedimento in assenza ed indici sintomatici della effettiva conoscenza da parte dell’imputato, induce una riflessione più ampia legata a doppio filo con i diritti delle vittime di reato e con i meccanismi della cooperazione internazionale. Il famoso caso Regeni offre lo spunto per ripensare la normativa italiana sul processo in assenza alla luce delle istanze provenienti dal piano sovranazionale.

The Court of Cassation rules once again on the provisions concerning the in absentia proceedings but doubts arise on the constitutional legitimacy of the discipline

This decision of the Court of Cassation, which does not retract nor adjust its case law concerning in absentia trials and evidence of effective knowledge of the proceeding by the defendant, paves the way to a broader consideration strictly linked to the participative guarantees held by the victims and with international judicial cooperation mechanisms. The famous Regeni case offers the opportunity to reconsider the Italian provisions on in absentia proceedings in light of the supranational context.

Non è abnorme l’ordinanza del g.u.p. che sospende il processo se non vi è prova della volontaria sottrazione dell’imputato, anche qualora la mancata notifica della vocatio in iudicium sia dovuta all’inerzia dello Stato terzo richiesto di cooperare MASSIMA: Ai fini della ricorrenza della condizione della volontaria sottrazione al procedimento penale, che se sussistente legittimerebbe la celebrazione del procedimento in absentia, occorre la prova di comportamenti positivi dell’im­pu­tato, dai quali desumere che egli – a conoscenza del processo a proprio carico – intenda sottrarvisi. Di conseguenza, non è abnorme l’ordinanza con la quale il giudice, nell’impossibilità di procedere a notifica a mani della vocatio in iudicium, disponga la sospensione del processo. PROVVEDIMENTO: (Omissis) RITENUTO IN FATTO 1. In data 20 gennaio 2021 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma chiedeva il rinvio a giudizio di T.S., A.K.M.I., U.H. e M.I.A.S., cittadini egiziani dichiarati irreperibili con decreti del 28 gennaio 2020, in relazione alla seguente imputazione: “a) delitto di cui agli artt. 110,605, primo e comma 2, n. 2), 61 n. 1), e 4), c.p. perché, in concorso tra loro e con altri soggetti allo stato non identificati, a seguito della denuncia presentata, negli uffici della National Security, da A.S.M., rappresentante del sindacato indipendente dei venditori ambulanti de (Omissis), dopo avere osservato e controllato, direttamente ed indirettamente, dall’autunno 2015 alla sera del (Omissis), R.G., dottorando italiano della Cambridge University, abusando delle loro qualità di pubblici ufficiali egiziani, lo bloccavano all’interno della metropolitana de (Omissis) e, dopo averlo condotto contro la sua volontà ed al di fuori da ogni attività istituzionale, dapprima presso il Commissariato di (Omissis) e successivamente presso un edificio a (Omissis), lo privavano della libertà personale per nove giorni. In (Omissis), (Omissis), dal (Omissis)”. Per il solo M.I.A.S. la richiesta riguardava anche le seguenti imputazioni: “b) delitto di cui agli artt. 110, 582, 583, n. 2, 585, in relazione all’art. 576 n. 2), e 61 n. 1), 4) e 9), c.p. perché, dopo aver posto in essere il delitto di cui al capo che precede, in concorso con soggetti allo stato non identificati, per motivi abietti e futili ed abusando dei loro poteri, con crudeltà, cagionava a R.G. lesioni, che gli avrebbero impedito di attendere alle ordinarie occupazioni per oltre 40 giorni nonché comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi, seviziandolo, con acute sofferenze fisiche, in più occasioni ed a distanza di più giorni: – attraverso strumenti dotati di margine affilato e tagliente ed azioni con meccanismo urente, con cui gli cagionavano numerose [continua..]

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SOMMARIO:

1. La vicenda processuale - 2. La decisione della cassazione e la ricostruzione del quadro normativo - 3. I dubbi di legittimità costituzionale paventati dalla procura e la risposta del gup - 4. La lunga (ed incompiuta) strada della disciplina sul procedimento in assenza - 5. (segue): possibili evoluzioni all’orizzonte - 6. Riflessioni conclusive - NOTE


1. La vicenda processuale

La sentenza in commento si innesta nel tristemente noto – in ragione dell’entità dei fatti nonché dei lunghi tempi di una giustizia ancora incompiuta – caso Regeni, il ricercatore italiano presso l’Università di Cambridge sequestrato e brutalmente torturato a Il Cairo nella notte del 25 gennaio 2015 e il cui corpo fu rinvenuto solo il 2 febbraio 2016 nella periferia della città. La Suprema Corte è stata interpellata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, che ricorreva ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. avverso l’ordinanza con cui il giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Roma aveva disposto la sospensione del procedimento per assenza degli imputati ex art. 420-quater c.p.p., una volta esperiti inutilmente i tentativi di rintracciare i quattro generali egiziani individuati dall’accusa come responsabili della morte della vittima. Difatti, la vicenda giudiziaria che si è dipanata fino a questo momento, la quale ha visto il coinvolgimento tanto dell’autorità giudiziaria quanto della struttura governativa e del corpo diplomatico nel tentativo di ottenere la collaborazione da parte dello Stato egiziano, ruota attorno alla irreperibilità dei soggetti imputati avallata dalla più o meno evidente compiacenza delle strutture governative cairote nonostante gli innumerevoli tentativi di dialogo esperiti dalle autorità italiane. Con questa decisione la Corte ha colto l’occasione per ribadire un indirizzo recentemente adottato in tema di procedimento in absentia [1] e, più in particolare, con riguardo agli indici sintomatici di conoscenza ovvero di volontaria sottrazione alla conoscenza del procedimento, senza apportare novità di rilievo alla posizione assunta in quella sede. Se il valore della sentenza non è da rinvenire intrinsecamente nella stessa, poiché non sono stati offerti nuovi spunti esegetici, tuttavia la riflessione che ne scaturisce appare necessaria alla luce di una circostanza esogena e temporalmente successiva: in data 3 aprile 2023, l’ufficio della Procura ha depositato una memoria presso la cancelleria del giudice dell’udienza preliminare per chiedere che venga sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis c.p.p in riferimento agli artt. 3, 10, 11, 24, 111, 112, 117 Cost. in relazione all’art. 6 della [continua ..]


2. La decisione della cassazione e la ricostruzione del quadro normativo

Come anticipato, la Corte di cassazione non condivide la ricostruzione proposta dall’accusa e con sentenza del 15 luglio 2022 dichiara inammissibile il ricorso. La Suprema Corte nega che l’ordinanza del g.u.p. sia affetta da abnormità, essendo di contro espressione di un potere esplicitamente riconosciuto al giudice dall’art. 420-quater, comma 2, c.p.p. ed esercitato nei limiti di legge. La Corte ribadisce in via preliminare la giurisprudenza di legittimità in tema di abnormità di atti processuali, evidenziando come né sul piano strutturale né su quello funzionale si rileva una anomalia tale da snaturare l’essenza dell’atto processuale ovvero da determinare la stasi irreversibile del procedimento. Anzitutto, la Corte ritiene che la Corte d’assise e il giudice dell’udienza preliminare di Roma abbiano fatto buon uso delle prescrizioni imposte dalla disciplina sul procedimento reo absente nonché degli insegnamenti delle Sezioni Unite, secondo le quali le ipotesi tipizzate dall’art. 420-bis, comma 2, c.p.p. non vanno intese alla stregua di una «scorciatoia probatoria» [6] ma di casi in cui è «ragionevole ritenere che l’imputato abbia effettivamente conosciuto l’atto regolarmente notificato secondo le date modalità» [7]. Alla luce delle prove allegate dalla Procura di Roma, dunque, non può desumersi con certezza la conoscenza della pendenza del processo da parte degli imputati, dovendosi escludere una loro assenza volontaria e consapevole. Esclude altresì la Corte che il caso de quo rientri tra le ipotesi di “volontaria sottrazione” alla conoscenza del procedimento o di atti del procedimento poiché, contrariamente a quanto avvenuto nel caso in esame, devono sostanziarsi in «condotte positive, rispetto alle quali si rende necessario un accertamento in fatto, anche quanto al coefficiente psicologico» [8]. La Corte rammenta come non si possa fare ricorso ad ogni mezzo per la difesa dai “finti inconsapevoli” e che dunque non possano automaticamente valorizzarsi situazioni comuni quali la irreperibilità ovvero la mancata elezione o dichiarazione del domicilio, pena la violazione dell’effettività del contraddittorio e del diritto alla partecipazione personale ontologicamente connessi al principio dell’equo processo sancito [continua ..]


3. I dubbi di legittimità costituzionale paventati dalla procura e la risposta del gup

Se la Cassazione ha ritenuto in sentenza che la problematica della cooperazione tra Stati esuli dall’esercizio dell’attività giudiziaria, spettandone la risoluzione alle competenti Autorità di governo, l’ufficio della Procura di Roma ha proposto una terza via invocando l’intervento della Corte costituzionale per pervenire ad una rilettura ovvero ad una modifica della norma sul processo in assenza «nell’ottica della avvenuta costituzionalizzazione dei principi derivanti dalle Convenzioni internazionali». Allo stato, e ciò come si vedrà non cambia nella prospettiva delle modifiche introdotte dal D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la disposizione di cui all’art. 420-bis c.p.p. presenterebbe profili di incostituzionalità rispetto agli artt. 3, 10, 11, 24, 111, 117 Cost., in relazione all’art 6 Cedu e alla direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 in materia di effettività del diritto alla celebrazione del processo sia per le vittime di reato sia per l’accusato, «nella parte in cui non prevede che si possa procedere “in assenza” dell’accusato nei casi in cui la formale mancata conoscenza del procedimento dipenda dalla mancata assistenza giudiziaria da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’accusato stesso». Il pubblico ministero sostiene dunque che il giudice dell’udienza preliminare non avrebbe dovuto ricorrere all’ordinanza di sospensione del procedimento ex art. 420-quater, c.p.p. Difatti le circostanze allegate dalla Procura e non contestate in fatto neppure dal giudice suggerivano la conoscenza del procedimento, ancorché informale in mancanza della ricezione di alcun atto ufficiale, ovvero la consapevole sottrazione allo stesso [12] da parte degli imputati, così addivenendosi ad una violazione degli obblighi internazionali, anche di natura pattizia, e sovranazionali gravanti sugli Stati in materia di cooperazione giudiziaria e persecuzione dei reati. A questo punto della memoria viene proposta una breve ricognizione dei più rilevanti strumenti di diritto internazionale ed europeo latamente inteso che portano l’attenzione della comunità internazionale su specifiche violazioni dei diritti umani e dei principi sanciti dalla Dichiarazione universale delle Nazioni Unite del 1948, non soltanto richiedendone agli Stati [continua ..]


4. La lunga (ed incompiuta) strada della disciplina sul procedimento in assenza

Come lo stesso giudice dell’udienza preliminare ha rilevato preliminarmente, la normativa applicabile al caso di specie è quella relativa alla mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. La disciplina della celebrazione del processo in assenza è stata oggetto di vistose modifiche più o meno profonde che ne hanno ridisegnato la fisionomia. Come noto, il sistema vigente fin da un’epoca antecedente al codice del 1930 e rimasto formalmente invariato fino alla riforma del 2014, era imperniato sull’istituto della contumacia e sullo standard normativo della conoscenza legale della pendenza del procedimento da parte dell’interessato come criterio per poter legittimamente disporre la prosecuzione dell’attività giudiziaria [23]. In entrambi gli scenari di regolamentazione del procedimento reo absente, evidentemente, il legislatore ha inteso ricostruire la partecipazione al processo alla stregua di un diritto, peraltro non assoluto [24], e non di un obbligo; ciò che cambia vistosamente è il corollario di garanzie poste a tutela dell’imputato non presente e del suo diritto, eventualmente esercitabile, al recupero del contraddittorio non integratosi correttamente. Con il superamento della contumacia ad opera della l. 28 aprile 2014, n. 67 [25], anche la conoscenza legale fondata su valutazioni presuntive del giudice avrebbe dovuto essere abbandonata a favore di un parametro fondato sulla conoscenza effettiva della vocatio in iudicium. Tuttavia, la resa normativa non ha tenuto fede a quanto astrattamente auspicato, avendo un imperterrito legislatore introdotto l’“ele­mento di rottura” [26] degli indici sintomatici di conoscenza da parte dell’imputato, rivelatori della sua volontà di non partecipare al processo [27]. Le perplessità, peraltro, si acuivano in relazione alla clausola aperta in chiusura dell’art. 420-bis, comma 2, c.p.p. – stante la quale l’assenza è accertata ove «risulti comunque con certezza che [l’imputato] è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo» – idonea a comprendere qualunque circostanza del caso, senza che la legge avesse previsto l’indicazione di situazioni probabili dalle quali inferire la volontarietà [continua ..]


5. (segue): possibili evoluzioni all’orizzonte

Dalle brevi considerazioni finora svolte sulla riforma in tema di processo in assenza, risalta con evidenza come l’intento deflattivo sia stato la stella polare che ha guidato le scelte del legislatore [42]. Tuttavia, è opportuno chiedersi se un tale obiettivo, pur apprezzabile, avrebbe dovuto ispirare anche il restyling di una materia in cui risulta particolarmente delicato tanto il bilanciamento tra esigenze efficentiste e di tutela delle garanzie difensive e dei diritti fondamentali, quanto il rispetto delle legittime aspettative di tutte le parti coinvolte portatrici di interessi antitetici. Il garantismo atto a preservare la posizione del soggetto imputato che ha diritto a conoscere ed essere parte del processo a suo carico non può spingersi al punto da svilire le prerogative della persona offesa la quale chieda che il processo venga celebrato per ottenerne soddisfazione in termini di giustizia e sul piano risarcitorio, anche a fronte di una volontà elusiva dell’imputato che sfugga all’azione penale. Ragionando diversamente, l’attuazione dei principi del giusto processo sarebbe sacrificata, o perlomeno incompiuta, dovendosi considerare “giusto” un processo che sia la sede di un equo esercizio dei diritti attribuiti per legge a ciascuna parte [43]. Una lettura convenzionalmente orientata della disciplina interna, imposta all’interprete dall’art. 117 Cost. e dunque dal rango di norma interposta che i principi della Cedu assumono [44], richiede che il principio di recente confermato dalla Consulta [45] alla stregua del quale «il diritto di difesa ed il principio di ragionevole durata del processo non possono entrare in comparazione, ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla completezza del sistema delle garanzie» si consideri esteso anche alle legittime prerogative della persona offesa dal reato. Del resto, il giudice delle leggi «non solo non può consentire che si determini, per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost., una tutela inferiore a quella già esistente in base al diritto interno [46], ma neppure può ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale», con la conseguenza che il «confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla [continua ..]


6. Riflessioni conclusive

In conclusione, preme soffermarsi sulla panoramica di ampio respiro in cui la vicenda processuale si innesta. Come si è affermato inizialmente, la memoria della procura – evidentemente da ultimo suffragata dall’adesione del g.u.p. nella sua ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale – impone una riflessione sul ruolo che i rapporti di cooperazione giudiziaria in materia penale giocano nelle vicende processuali interne. Difatti, il ragionamento del pubblico ministero è imperniato sulla palese ingiustizia che deriverebbe alle costituende parti civili in un processo se la condotta ostile delle autorità giudiziarie di un paese estero si facesse ricadere su di esse. Si dovrebbe pertanto pervenire ad una conclusione opposta a quella adottata dalla Corte di cassazione nella sentenza in commento, secondo la quale consentire la prosecuzione del processo permetterebbe «il superamento, in via giudiziaria, di una pretesa “paralisi processuale”, che, nel caso di specie, non deriva dai provvedimenti giudiziari esaminati ma da fattori esterni al processo» [57]. Alla luce dell’evoluzione nella fisionomia delle relazioni interstatuali alla quale si è assistito negli ultimi decenni [58], di dubbia attendibilità pare l’assunto che le vicende di cooperazione giudiziaria siano estranee a quelle che investono il piano interno; lo stesso giudice a quo riconosce che «[l]a normativa di riferimento è stata chiaramente concepita con riferimento ad imputati che si trovano in territorio italiano o in territori di Stati appartenenti all’Unione europea» o che siano altrimenti disposti a cooperare in forza di un accordo ad hoc ovvero di una richiesta di rogatoria. La disposizione omette di contemplare l’ipotesi in cui l’onere di accertamento del giudice sia di fatto impedito – in quanto reso impossibile, inesigibile – da un patologico malfunzionamento nel sistema di assistenza giudiziaria [59]. Va sottolineato che tra lo Stato italiano e quello egiziano non intercorre attualmente alcun accordo di cooperazione nella materia penale. Tale circostanza, se per un verso non esime gli attori statali dall’in­teragire in virtù del principio della leale collaborazione, non lascia in ogni caso sprovvisti di tutela casi di gravi violazioni dei diritti umani ed anzi l’assenza di un trattato specifico non dovrebbe avere [continua ..]


NOTE
Fascicolo 5 - 2023