Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Riflessioni sul modello attuale delle misure di prevenzione personale (di Paolo Moscarini, Professore f.r. di Procedura penale – Università di Roma LUISS)


Elaborate dal pensiero penalistico dell'ottocento liberale e recepite da un ordinamento fascista volto a valorizzare la difesa sociale, i provvedimenti di coercizione personale per finalità di pubblica sicurezza basati sul sospetto sopravvivono nel diritto italiano vigente, solo parzialmente giustificati dall'esigenza di contrastare la criminalità di stampo mafioso ed altre gravi forme di delinquenza associativa. Questo scritto cerca di evidenziare le incongruenze di tale sistema alla luce dei principi costituzionali ed internazionali di tutela dei diritti umani, nonché di indicare taluni criteri per una eventuale futura riforma.

Reflections on the current model of personal prevention measures

The Italian legal system which provides same personal coercive measures to prevent some crimes was conceived by the liberal jurists of the nineteenth century and was acknowledged by the Fascism as one of the means to defend the public safety. At present, this system survives above all as one of the tools to contrast the Mafia, but it causes many doubts from the side of its compliance with the constitutional al the international rules about the human rights.

SOMMARIO:

1. L’oggetto dello studio - 2. I lineamenti della vigente regolamentazione … - 3. … e la problematicità della sua giustificazione costituzionale - 4. Una possibile soluzione - 5. I limiti costituzionali della coercizione personale “in via amministrativa” … - 6. … e le conseguenti problematicità del sistema vigente - NOTE


1. L’oggetto dello studio

Com’è noto, si definiscono “misure di prevenzione personali” quei provvedimenti, demandati a talune pubbliche autorità e coercitivi quoad libertatem personae, che sono destinati a funzionare non già, a guisa delle “pene criminali”, post et propter delictum, contro chi di questo si è reso autore; bensì ante aut praeter delictum, cioè prima od a prescindere dalla commissione di simile illecito, per il solo fatto che il rispettivo destinatario, in virtù di determinate circostanze, appare come “autore futuribile” di taluni fatti penalmente antigiuridici; così da far sembrare l’atto restrittivo come applicato in quanto destinato ad elidere la presunta attuale pericolosità del soggetto interessato [1]. Basta già questa (pur imperfetta) definizione a far intendere l’enorme problematicità della materia; della quale sembra doveroso tracciare preliminarmente gli attuali lineamenti normativi [2].


2. I lineamenti della vigente regolamentazione …

La disciplina delle misure in oggetto risulta oggi (principalmente) dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, la cui rubrica esordisce appunto dicendo: «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione […]»; peraltro, non può dubitarsi che l’istituto fosse anche anteriormente conosciuto dal nostro ordinamento, poiché la normativa de qua succede a quella già dettata dal r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (intitolato “Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”) [3]; nonché a quelle ulteriori via via stabilite dalla l. 27 dicembre 1956, n. 1423 (recante “Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità”) [4]; e dalla l. 31 maggio 1962, n. 575 (avente titolo “Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso anche straniero”) [5]. In particolare, il citato decreto n. 159 considera due tipologie differenti d’istituto, demandandone l’applicazione – rispettivamente – all’autorità amministrativa ed a quella giudiziaria. Difatti, l’atto normativo de quo, al suo art. 1, esordisce parlando dell’allontanamento con “foglio di via obbligatorio” dal luogo di attuale dimora, ed indicando come passibili di simile provvedimento “coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi” (lett. a), “coloro che per la condotta e il tenore di vita [siano da considerare], sulla base di elementi di fatto, [quali persone viventi] abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” (lett. b), “coloro che per il loro comportamento [appaiano “sospetti”], sulla base di elementi di fatto, [d’essere dediti] alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o la morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica” (lett. c). I soggetti de quibus, laddove siano da ritenere pericolosi “per la sicurezza pubblica e si trovino fuori del luoghi di residenza”, potranno essere obbligati a rientrare nei luoghi di loro abituale dimora, attraverso “provvedimento motivato e foglio di via obbligatorio”; e sottoposti, per un periodo che può giungere fino a tre anni, alla proibizione, di tornare nel luogo del [continua ..]


3. … e la problematicità della sua giustificazione costituzionale

Di fronte al suesposto quadro normativo, viene immediatamente da interrogarsi circa la sua legittimità costituzionale; in primo luogo, al fine di rinvenire, attraverso attenta disamina della nostra legislazione di rango primario, una qualche soluzione esegetica che dia plausibile ragione in ordine alla medesima esistenza d’un sistema coercitivo destinato a funzionare ante aut praeter delictum. È infatti ovvia la “singolarità” di misure che si risolvono essenzialmente in un trattamento afflittivo destinato a colpire individui soltanto a causa di una loro condotta la quale, pur legittimando il sospetto di una futuribile criminosità, di per sé non risulta ancora realizzare alcuna fattispecie di antigiuridicità penale [6]: ciò basta ad escludere preliminarmente la riconducibilità del sistema in oggetto a quel secondo comma dell’art. 25 Cost. che sancisce il principio di stretta legalità in materia di reati e di pene [7]. L’attenzione si sposta allora sul successivo capoverso del medesimo articolo che, subordinatamente ad omologa riserva di legge, ammette, nei “casi” [8] da questa previsti, la sottoposizione della persona a “misure di sicurezza”. Difatti, posto che la funzione istituzionale dei provvedimenti di questa tipologia è unanimemente ravvisata appunto nella neutralizzazione della pericolosità sociale che connota i rispettivi destinatari [9], appare senza dubbio più agevole ricondurre a tale genere di attività anche le misure legislativamente configurate per un’adozione anteriore od indipendente dalla commissione di un fatto penalmente antigiuridico, quando esse siano rivolte ad una simile finalità profilattica [10]. Del resto, in questo senso è orientata un’autorevole dottrina [11]: premesso che funzione fondamentale della Repubblica è quella di garantire i “diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2 Cost.), da questa enunciazione si desume l’obbligo statuale di tutelare così universali prerogative non solo attraverso la repressione post delictum (cioè, punendo i comportamenti che puntualmente ricadono nella descrizione di una previa norma incriminatrice), ma anche mediante un’azione coercitiva ante delictum; autorizzata – appunto – proprio dal suddetto art. 25 comma 3, che, parlando delle [continua ..]


4. Una possibile soluzione

Dunque, l’obiezione fondata sul divieto di considerare l’imputato “colpevole fino alla condanna definitiva” (v. art. 27, comma 2, Cost.), oppure sull’obbligo di presumere “Ogni persona accusata di un reato […] innocente sino a quando la sua colpevolezza è stata legalmente accertata” sembrerebbe davvero insuperabile: l’idea di una coecizione personale “anticipata” rispetto alla effettiva realizzazione di un comportamento penalmente antigiuridico appare davvero come una macroscopica contraddizione, nel contesto di un sistema penale fondato sul principio in dubio pro reo [18], nonché sulla sua necessaria implicazione processuale che esclude trattamenti sostanzialmente sanzionatori nei confronti di colui il quale, alla conclusione del giudizio, non “risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533, comma 1, c.p.p.) [19]; onde risulta irrimediabilmente assurda, anche, l’ipotesi di un atto restrittivo della libertà personale applicabile indipendentemente dall’esistenza, in capo al destinatario, perfino d’un qualsiasi fumus commissi delicti. Tuttavia, l’aporia segnalata – a ben vedere – non è insuperabile: dette clausole di salvaguardia, pur integrate nel rango supremo delle fonti giuridiche interne [20], si riferiscono nondimeno ad un ambito d’ipotesi piuttosto determinato: quello delle persone che stanno subendo un procedimento penale; in questo senso, sono inequivoche tanto la disposizione costituzionale (che parla di “imputato”) quanto la norma internazionale pattizia (che dice: “persona accusata di un reato”). Insomma. Si vuol qui dire che la presunzione de qua è pensata per proteggere i soggetti i quali vengono a subire un indagine o – ancor peggio – un processo penale, al fine di escludere che la loro posizione, divenuta deteriore solo per tale medesima circostanza, di essi comporti automaticamente l’assog­gettamento ad un trattamento punitivo che va invece strettamente riservato a chi risulti “reo” in esito a “legale giudizio”: il mero instaurarsi della procedura criminale non deve avere conseguenze sanzionatorie automatiche nei loro confronti; e ciò per garantire sia quelle libertates agendi che costituiscono prerogative inviolabili dell’essere umano, sia [continua ..]


5. I limiti costituzionali della coercizione personale “in via amministrativa” …

La prima clausola garantistica contenuta nel capoverso testé menzionato è quella – tradizionale – della “riserva di legge” [33]: è appunto al legislatore che è circoscritta la competenza a contemplare in generale le limitazioni de quibus, per giunta subordinatamente all’onere di indicare “tassativamente” [34] i rispettivi casi; i quali – inoltre – devono connotarsi come intrinsecamente “eccezionali” [35], nonché tali da rivelare la “necessità ed urgenza”dell’intervento autoritativo de libertate [36]. A ben vedere – allora – quella in oggetto è una vera e propria “riserva rinforzata”: il potere normativo istituito dalla norma in discorso va esercitato in vista di bisogni pressanti ed evidenziati da circostanze emergenziali, tali da richiedere l’intervento dello Stato – Amministrazione in vista del soddisfacimento di quelle finalità che sono normativamente raggruppate sotto l’insegna della “pubblica sicurezza”: il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia di sicurezza, incolumità e salute di persone e beni [37]. Puntualmente descrittiva e cogente risulta anche la regolamentazione costituzionale delle fasi successive all’adozione del provvedimento: questo va comunicato entro quarantotto ore all’”autorità giudiziaria”, chiamata a decidere sulla relativa convalida nelle successive quarantotto; a ratifica denegata, o comunque non tempestivamente intervenuta, l’atto poliziesco “si intende revocato” e “resta privo di ogni effetto”. Dunque, allo “straordinario” intervento contra libertatem dell’organo esecutivo deve seguire, e con pochissimo, indugio, il ripristino del “normale” ordo procedendi: quello per cui, in subiecta materia, la competenza è riservata all’autorità giurisdizionale [38]; chiamata a decidere, come di regola (v. il secondo comma dell’art. 13) con “atto motivato” [39], così da giustificare razionalmente il proprio percorso deliberativo e rendere possibile il controllo superiore di legittimità previsto dal settimo comma dell’art. 111 Cost. [40].


6. … e le conseguenti problematicità del sistema vigente

Alla luce del precedente excursus, la lettura dell’attuale normativa in tema di coercizione personale praeter delictum evidenzia una prima criticità per quanto concerne l’istituto del foglio di via obbligatorio (v. artt. 2 e 3 d.lgs. n. 159/2011): esso consente al questore di rinviare al luogo di loro residenza le persone “sospette” di dedizione a taluni comportamenti delittuosi o comunque di pericolosità per l’altrui incolumità moralità e sicurezza, per di più gravandole dell’obbligo di restare presso lo stesso luogo per un periodo di tempo (suscettibile di protrarsi fino a tre anni) che il questore medesimo determina. Si può davvero considerare un tal genere di regime conforme alla riserva di giurisdizione istituita, riguardo alle misure de libertate, dai commi 2 e 3 dell’art. 13 Cost.? Certo, si potrebbe obiettare che, nel caso di sottoposizione ad un simile trattamento, ad essere compresso non è il bene primario della libertà personale; e ciò in considerazione sia del fatto che il provvedimento de quo produce un effetto non già immediatamente corcitivo delle facultates movendi individuali [41], bensì meramente obbligatorio, per di più solo relativamente alla permanenza del destinatario nell’am­bito di certa una sfera territoriale; che risulta – si – circoscritta, ma entro la quale egli conserva pur sempre limitate possibilità di spostamento e relazione umana; onde si sarebbe indotti a concludere che una simile misura pervenga ad incidere piuttosto sull’area di prerogative umane protetta dall’art. 16 Cost.: questo, nel suo primo comma, garantisce ad “Ogni cittadino [il diritto di] circolare e soggiornare liberamente in ogni parte del territorio nazionale”, facendo salve “le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza” [42]. La quale disposizione – a prima lettura – sembrerebbe compatibile con una normativa ordinaria che, in vista della tutela dei medesimi pubblici interessi, conferisse direttamente ad un’autorità amministrativa il potere d’incidere sulla anzidetta prerogativa individuale. Tuttavia, una simile argomentazione non reggerebbe ad una semplice replica: il “rimpatrio” di cui qui si discute è destinato a funzionare non già come misura [continua ..]


NOTE