In coerenza con i rigorosi limiti normativi fissati dall’art. 130 c.p.p., la pronuncia in esame esclude l’ammissibilità del ricorso alla procedura di correzione per integrare l’omessa indicazione, nel dispositivo dell’ordinanza di riesame, della riserva del maggior termine di deposito della motivazione quando, nella parte motiva della suddetta ordinanza, non si fa alcun cenno grafico alle ragioni o circostanze da porre a fondamento del suddetto differimento (ex art. 309, comma 10, c.p.p.).
Con il principio di diritto ivi enunciato, il Supremo Collegio mostra di aderire ad un’interpretazione rigorosa in punto di obbligo motivazionale richiesto al Tribunale del riesame ai fini della proroga dei termini di deposito; offrendo così lo spunto per una riflessione critica sulla formula normativa della particolare complessità della stesura della motivazione «per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni», nonché sulle ricadute negative dell’interpretazione riduttiva di tale formula consolidata nel diritto vivente.
In line with the strict regulatory limits established by art. 130 c.p.p., the ruling in question excludes the admissibility of recourse to the correction procedure to integrate the omitted indication, in the device of the review order, of the reservation of the longer term for filing the motivation when, in the reasoning part of the aforementioned order, no graphic mention is made of the reasons or circumstances to be used as a basis for the aforementioned deferral (pursuant to Article 309, paragraph 10, of the Code of Criminal Procedure).
The principle of law set out therein, with which the Supreme Court seems to adhere to a rigorous interpretation of the reasoning obligation required of the Court of Review for the purpose of extending the deadlines for filing, offers the starting point for a reflection criticism of the normative formula of the particular complexity of drafting the motivation «due to the number of those arrested or the seriousness of the charges», as well as on the negative effects arising from the consolidated reductive interpretation on the point de quo in the living law.
1. Il caso - 2. La consacrazione normativa dello sdoppiamento cronologico tra deliberazione e deposito dell’ordinanza di riesame - 3. Il quesito di fondo. I rigorosi limiti all’esperibilità della correzione degli errori materiali - 4. La soluzione della Suprema Corte - 5. Il nodo problematico della valutazione discrezionale di particolare complessità della stesura della motivazione - NOTE
Prima di analizzare la quaestio iuris sottoposta al vaglio del Supremo Collegio occorre brevemente soffermarsi sulla vicenda processuale da cui trae origine la sentenza in commento. Il Tribunale di Palermo, in funzione di giudice del riesame, una volta confermata l’ordinanza con cui era stata disposta – a seguito di condanna in primo grado per il reato di cui all’art. 416, commi 4 e 6, c.p. – l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, depositava tardivamente il provvedimento comprensivo della motivazione. Nello specifico, dopo aver deliberato entro i dieci giorni successivi alla ricezione degli atti (il 2 dicembre 2021), il Tribunale della libertà provvedeva al deposito in cancelleria della motivazione – rectius, dell’ordinanza nella sua completezza – decorso il termine perentorio di trenta giorni, ma entro il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione (il 17 gennaio 2022). Avvedutosi della tardività del deposito, attivava contestualmente, ex officio e de plano, la procedura di correzione dell’errore materiale, aggiungendo nel dispositivo originariamente emesso la dicitura “giorni 45 per la motivazione”; senza, peraltro, indicare le ragioni di particolare complessità idonee a giustificare ex art. 309, comma 10, c.p.p. l’adozione del maggior termine per la stesura della motivazione. La difesa proponeva ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del giudice del riesame congiuntamente al provvedimento di correzione; atto distinto ma accessorio ed intimamente connesso sul piano funzionale all’ordinanza corretta (il provvedimento principale) su cui era venuto ad innestarsi. E precisamente, non ritenendosi riscontrabile, nel caso di specie, un errore materiale ascrivibile alla fase di stampa, bensì una mera dimenticanza non rimediabile mediante la procedura prevista dall’art. 130 c.p.p., contestava – deducendo il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., in relazione agli artt. 125, 127, 130, 178, 179 e 309 c.p.p. – il deposito tardivo travalicante il termine perentorio di trenta giorni previsto dall’art. 309, comma 10, c.p.p., con conseguente perdita di efficacia della misura cautelare applicata. Ed, in ogni caso, (pure) il quomodo della procedura, eccependosi sia la nullità (ex art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p.) sia l’abnormità del provvedimento di [continua ..]
È doverosa l’analisi preliminare del dettato normativo dell’art. 309, comma 10, c.p.p. radicalmente rimodulato nel contesto dell’ampia rivisitazione che ha interessato, già all’indomani dell’entrata in vigore del codice 1988, la disciplina in tema di cautele personali. Nell’ottica di garantire l’effettività del controllo giurisdizionale «a tempi brevi» [1] sul provvedimento restrittivo della libertà personale, si è pervenuti ad un progressivo irrigidimento delle scansioni temporali del procedimento di riesame. Per vero, in corrispondenza a prassi giudiziarie eccessivamente disinvolte, il legislatore ha preso atto della necessità di ancorare a cadenze certe non solo il momento della decisione, ma pure gli adempimenti prodromici e successivi ad essa; sottraendo, alle autorità coinvolte dai suddetti incombenti, quei residui spazi di discrezionalità [2] suscettibili di dilatare i tempi del sub-procedimento cautelare, con grave vulnus della ratio garantista ad esso sottesa. Per effetto di successivi interventi di restyling normativo, sono stati, pertanto, introdotti nuovi e stringenti termini perentori, presidiati dalla sanzione della perdita di efficacia della misura coercitiva in corso di esecuzione, prima, per la trasmissione degli atti (art. 309, commi 5 e 9, c.p.p., come modificati dalla l. 8 agosto 1995, n. 332), poi, altresì, per il deposito dell’ordinanza nella cancelleria del Tribunale del riesame (art. 309, comma 10, c.p.p. come sostituito dalla l. 16 aprile 2015, n. 47). Con il conseguente ampliamento dell’area di incidenza del rigido meccanismo garantista – basato sull’automatismo tra effetto caducatorio ed inosservanza del termine perentorio – [3] che, nell’assetto originario della disciplina de qua, era circoscritto alla (sola) ipotesi di decisione intempestiva. La prescrizione di un termine predeterminato, oltreché blindato, per il deposito della motivazione, pari a trenta giorni dalla decisione, elevabile a quarantacinque giorni nei casi di particolare complessità della stesura della motivazione, segna – nella versione attuale del comma 10, art. 309, c.p.p. – il superamento della previgente regola dell’ininfluenza del deposito tardivo sulla efficacia del titolo cautelare. Si è inteso così reagire alle distorsioni applicative [continua ..]
Nell’iter decisionale del Supremo Collegio riveste assoluta centralità la questione relativa all’emendabilità dell’omessa indicazione, nel dispositivo dell’ordinanza di riesame, della determinazione del Giudice di avvalersi del più ampio termine di quarantacinque giorni per il deposito della motivazione. O, in altri termini, se siffatta omissione integri un errore di natura strettamente materiale sanabile mediante la procedura di correzione di cui all’art. 130 c.p.p. oppure – come ritenuto dal ricorrente – un errore in procedendo rimediabile solo con gli ordinari mezzi di impugnazione. Occorre prendere le mosse dal concetto di errore materiale. La nozione de qua, insuscettibile com’è di un’aprioristica definizione dogmatica [19], non può che essere enucleata sulla base delle indicazioni normative e delle enunciazioni di principio della giurisprudenza di legittimità. In ossequio al generale principio di economia processuale posto a governo di ogni attività del giudice [20], l’art. 130 c.p.p. prevede che gli errori di tipo materiale che inficino un provvedimento giurisdizionale siano emendati, «anche d’ufficio, dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento». Al contempo, però, in coerenza con la funzione di mera rettifica della forma espressiva della volontà del giudice propria del rimedio autocorrettivo [21], si subordina l’esperibilità del rimedio de quo all’insussistenza di una duplice condizione preclusiva, integrante il «confine invalicabile per qualsiasi intervento correttivo» [22]. Delimitandosi, in negativo – secondo parametri già noti al codice abrogato (art. 149 c.p.p. abr.) e comuni al codice di procedura civile (art. 287 c.p.c.) – l’area delle deviazioni passibili di correzione ai soli «errori od omissioni che non determinano nullità, e la cui eliminazione non comporta una modificazione essenziale dell’atto». Se il primo dei due presupposti negativi è verificabile “per tabulas” – dalla mancata previsione di nullità –, viceversa, il riscontro del presupposto generico della “non essenzialità” della modifica, stante la relativa fluidità “in parte qua” del dato normativo, non può che essere rimesso al vaglio [continua ..]
Il breve excursus giurisprudenziale consente di fissare le coordinate sulla base delle quali perimetrare la sfera applicativa dell’autorimedio correttivo e risolvere agevolmente la questione oggetto della sentenza in esame. Postulando una disarmonia manifesta tra il pensato e voluto del giudice (il dispositivo) e la sua materiale rappresentazione grafica (il documento-provvedimento) [34] cagionata da mera svista o disattenzione nella redazione del provvedimento, il rimedio de quo rinviene la sua causa – ed al contempo il suo limite – unicamente nell’esigenza di ricostruire la reale volontà “soggettiva” del giudice tradita dalla formula espressiva ma emergente dallo stesso atto; o quella “oggettiva” immanente nell’atto per dettato ordinamentale, laddove ricorrano le ipotesi contemplate nella sentenza Boccia. In coerenza con tale premessa di principio, l’errore suscettivo di correzione coincide con i vizi di forma: errori non attinenti alla sostanza della decisione ma aventi carattere meramente materiale-ricognitivo e, dunque, di immediata rilevabilità ad un’analisi esteriore dell’atto stesso (“ictu oculi”). Di talché, nel caso in cui nel provvedimento giudiziale si annidi un errore di natura omissiva, l’emenda integrativa sarà consentita solo laddove debba ovviarsi alla mera mancanza di elementi-espressioni necessari ad integrare la decisione perché deducibili dalle restanti parti dell’atto; epperò la cui integrazione non si traduca in un mutamento o sostituzione di quello che è il contenuto concettuale e sostanziale del dispositivo. Esulando dal perimetro della procedura in esame interventi volti ad ovviare non già ad un mero errore di documentazione o linguistico (prototipi di errore materiale) in cui sia incorso accidentalmente il giudice, ma, piuttosto, a quanto sia stato da lui disatteso a causa di un’erronea interpretazione di norme giuridiche processuali ovvero di una violazione di legge (errore di diritto) [35]. Orbene, nel caso in esame, dal contesto dell’ordinanza conclusiva del procedimento di riesame non emergeva nessuno scostamento esteriore tra il contenuto decisorio del provvedimento e la sua formale manifestazione, quale conseguenza dell’omessa indicazione – da parte del Tribunale della libertà – nel dispositivo della stessa ordinanza della [continua ..]
Il principio di diritto statuito nella pronuncia in esame – con cui la Corte di cassazione mostra di aderire ad un’interpretazione rigorosa in punto di motivazione del differimento del termine di deposito – offre lo spunto per una riflessione critica sull’ipotesi, ben diversa da quella analizzata, in cui il Tribunale del riesame indichi, nel dispositivo dell’ordinanza, la determinazione di avvalersi di un termine più ampio di quello ordinario per il deposito della motivazione, senza, però, argomentare tale scelta o, comunque, in assenza del requisito di particolare complessità della fattispecie. Come accennato, l’organo giudicante è autorizzato a differire la redazione ed il deposito della motivazione dell’ordinanza per un termine massimo di quarantacinque giorni, laddove la stesura della parte motiva dell’ordinanza sia particolarmente complessa «per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni» (ex art. 309, comma 10, c.p.p.). Le perplessità già espresse relativamente all’ulteriore dilatazione dei tempi ordinari di deposito – già di per sé significativi – si accentuano con riguardo al supporto motivazionale richiesto all’organo giudicante a sostegno della scelta del maggior termine. L’innesto, ad opera della l. n. 47/2015, nel peculiare contesto delle impugnazioni avverso i provvedimenti de libertate – riesame ed appello (ex art. 310, comma 2, c.p.p.) – della stessa formula utilizzata per il giudizio di merito con riguardo alla motivazione della sentenza(art. 544, comma 3, c.p.p.), non può non destare serie riserve non solo per l’insufficiente determinatezza di siffatta formula, ma, pure, a causa dell’irragionevole parallelismo tra situazioni eterogenee non assimilabili [39]. Deve, invero, rimarcarsi come lo sforzo definitorio del legislatore dovrebbe essere maggiore laddove la libertà personale risulti già compressa. Basti por mente come nelle more del deposito della motivazione, diversamente dalla sentenza dibattimentale, la cui esecuzione è sospesa (ex art. 588, comma 1, c.p.p.), l’ordinanza applicativa di misura cautelare coercitiva oggetto di riesame – come pure, in caso di appello, tutte le altre ordinanze riguardanti le misure coercitive, nonché quelle interdittive (salva l’ipotesi di cui [continua ..]