Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Nel segno della complessità: tutela 'inibitoria' e 'risarcitoria' epicentro del dibattito, ma il nodo da sciogliere è il 'sovraffollamento' (di Orietta Bruno, Ricercatrice confermata di Procedura penale – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)


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La disputa, che attraversa, da anni, la riflessione dottrinaria e giurisprudenziale, d'acchito, parrebbe riduttiva se posta a confronto con quelle, di spessore, in materia penitenziaria. Tuttavia, il computo dei metri della cella e la scelta dei requisiti per eseguirlo non sono aridi problemi matematici; essi involgono valori fondamentali del singolo, in particolare ad una espiazione della pena in maniera dignitosa: tant'è l’investitura dell’art. 3 Cedu. La Suprema corte, a sezioni unite, tenta di chiudere la ‘faccenda’, stabilendo le linee-guida per il conteggio, ma, finisce, come sempre, per intrattenersi sui rimedi attribuiti al detenuto o internato per ottenere il ristoro dei danni subiti e gli elementi ‘compensativi’ destinati a giustificare le limitazioni; pertanto, i principi di diritto confezionati rispondono alla questione concreta. Il ‘cancro’ del nostro sistema carcerario è il ‘sovraffollamento’: la strada da perseguire, affinché la vita infra-muraria non si traduca in trattamenti inumani e degradanti, è l'implementazione dell’edilizia penitenziaria e la messa a punto di un nugolo di misure che, pur assicurando la certezza della pena, agevolino la fuoriuscita della persona dal regime detentivo.

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In the sign of complexity: 'injunction' protection and 'compensation' epicentre of the debate, but the knot to be unravelled is the 'overcrowding'

The dispute, which has been going on for years in doctrine and jurisprudence, at first glance, would seem reductive when compared with those, of great depth, in prison matters. However, the calculation of cell metres and the choice of requirements to carry it out are not arid mathematical problems; they involve fundamental values of the individual, in particular a dignified expiation of the sentence: such is the investiture of Article 3 of the ECHR. The Supreme Court, in United Sections, attempts to close the ‘matter’, establishing the guidelines for counting, but, it ends, as always, by dwelling on the remedies attributed to the detainee or interned to obtain compensation for the damages suffered and the ‘compensatory’ elements intended to justify the limitations; therefore, the principles of law that have been drawn up respond to the concrete question. The ‘cancer’ of our prison system is ‘overcrowding’: the road to be pursued, so that intra-custodial life does not result in inhuman and degrading treatment, is the implementation of prison construction and the development of a swarm of measures that, while ensuring the certainty of punishment, facilitate the release of the person from the detention regime.

 

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Stimoli per riflettere - 3. L’intervento del legislatore - 4. Il contrasto - 5. Il principio - 6. (Segue) Gli epiloghi - 7. Interventi nel segno della continuità - 8. L’analisi - NOTE


1. Premessa

La problematica rischierebbe di non catturare l’attenzione dell’interprete se non fosse che, lungi dal ridursi ad una questione aritmetica, mette a repentaglio i diritti inviolabili del detenuto [1]. Inoltre, poiché fa registrare profonde diatribe all’interno della giurisprudenza comunitaria e nazionale, apre a storture sul piano applicativo [2]. Se, tuttavia, l’analisi, in retrospettiva, dei più disparati filoni esegetici coagula attorno a due direttrici principali, ricostruibili imbastendo uno studio di carattere evolutivo, più complicato è disegnare la cornice dei valori intaccati dalla mancanza dello spazio pro-capite all’interno della cella. Del resto, le condizioni di vita dei reclusi rappresentano uno dei banchi di prova più ardui per sindacare il rispetto della Cedu e, soprattutto, l’art. 3, da parte degli Stati: la mole di giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di trattamento penitenziario insiste su una delle carenze più spesso sollecitate dai ricorrenti, vale a dire l’assenza di un’area di movimento bastevole dentro la camera di pernottamento. All’uopo, ci si deve discostare da una visuale “strabica” della carcerizzazione, vale a dire da quel­l’indirizzo culturale sul sistema penitenziario, che, messo in campo negli ultimi anni, risulta avvilente nei contenuti quanto riduttivo nella portata. Si è abituati a tranquillizzare la coscienza tentando di concentrare lo sforzo della disamina solo sugli artt. 27, comma 3, Cost. e 3 Cedu; invece, una prospettiva attenta ha il pregio di allargare lo sguardo a tutte le norme – ed ai valori – della Costituzione che vengono in considerazione accanto ad essi: bisogna evitare anche scostamenti momentanei dai principi costituzionali. Sono previsioni altrettanto essenziali quando si parla di privazione della libertà personale, ma ancor più calpestate ove si continuino a negare i contraccolpi che l’assenza di un’area minima di spostamento all’interno della cella ha sui “residui” di libertà nel contesto della vita intramuraria [3]. Un discorso di questo tenore, induce ad affermare che l’inosservanza dell’art. 3 Cedu mette in crisi pure l’ossequio degli artt. 2, 3 [4], 27, comma 3, Cost. e la realizzazione di altri principi sovraordinati: la dignità umana [5], il [continua ..]


2. Stimoli per riflettere

Spicca nel panorama giurispudenziale, anzitutto, una recente pronuncia delle sezioni unite. Cominciando dai fatti, va segnalato che, nell’occasione, propone ricorso il Ministero della Giustizia nell’ambito del procedimento promosso da un detenuto avverso l’ordinanza pronunciata, in data 2 aprile 2019, dal tribunale di sorveglianza de l’Aquila. Più esattamente, con tale provvedimento, l’organo abruzzese rigetta il reclamo proposto dal Ministero della Giustizia avverso la decisione del magistrato di sorveglianza che, in parziale accoglienza dell’istanza presentata dal recluso, ex art. 35-ter l. 26 luglio 1975, n. 354 – rubricata «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà» –, introdotto dall’art. 1, comma 1, l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014, n. 117, gli aveva liquidato la somma di € 4.568,00 [8]. Il magistrato di sorveglianza ammette che la detenzione del soggetto, in alcune delle architetture penitenziarie [9],si svolge in circostanze tali da violare l’art. 3 Cedu, come letta dalla Corte di Strasburgo. In effetti, il recriminante, che si appella ad un precedente [10], Corte e.d.u., 20 ottobre 2016, Murŝić c. Croazia [11], censura «l’ordinanza per l’adozione di un erroneo criterio di calcolo della superficie detentiva media goduta dal detenuto», determinata «al netto dello spazio occupato dagli arredi»; di contro, avrebbe dovuto ricorrere al metodo che contempla il lordo dell’area disponibile. Il tribunale investito, sottolineando che il sovraffollamento carcerario integra una forma di reclusione inumana e degradante, a sua volta, richiama l’insegnamento della Corte e.d.u. [12]: sussisterebbe una presunzione di inosservanza dell’art. 3 Cedu quando lo spazio personale riservato al detenuto è inferiore a 3 (tre) metri quadrati, con la conseguenza che non è indispensabile tenere conto di ulteriori aspetti della condizione detentiva. Secondo il provvedimento, dal momento che la superficie di tre metri quadrati rappresenta un ambiente che consente alla persona di muoversi, gli arredi fissi presenti nella cella vanno «scomputati» dal conteggio, rappresentando un ingombro che lo impedisce. L’organo giurisdizionale, scendendo nei dettagli, [continua ..]


3. L’intervento del legislatore

Gli accadimenti si inseriscono, da un lato, lungo il crinale delle novelle in materia di ordinamento penitenziario che intaccano la materia oggetto di analisi, dall’altro, si sovrappongono alle annose diatribe dottrinarie e giurisprudenziali incapaci di pervenire a soluzioni condivise. Per quanto concerne il primo aspetto, si registrano, tra dissensi e proposte abortive, due interventi legislativi, operati a breve distanza di tempo, che introducono due istituti di nuova fattura, il reclamo giurisdizionale e il rimedio risarcitorio conseguente alla violazione dell’art. 3 Cedu [17]: dapprima, il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10, che emenda l’art. 69 ord. penit. e introduce, nella compagine normativa del 1975, l’art. 35-bis ord. penit. [18]; poi, il d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014, n. 117, che allestisce l’art. 35-ter ord. penit., stabilendo anche una disciplina transitoria [19]. L’opzione normativa funge da precipitato della emblematica sentenza-pilota ‘Torreggiani c. Italia’ [20] la quale, atteso il livello di inciviltà delle carceri italiane, si incunea nel labirinto del disfunzionamento del nostro sistema penitenziario, ufficializzando l’allarme sovraffollamento nel nostro Paese che viola, in maniera strutturale e sistemica, l’art. 3 Cedu ed ergendosi, così, a guida per i successivi interventi dell’organo di Strasburgo. Il leading case in parola – che si premura di evidenziare come la carcerazione non faccia perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione – impone un indirizzo consolidato sui criteri di individuazione dei limiti spaziali al di sotto dei quali si configura l’inos­servanza dei parametri della previsione convenzionale poiché trattamento e pena impietosi e avvilenti. L’assenza di un’area inferiore ai 3 (tre) metri quadrati per ciascun detenuto costituisce, ad avviso della Corte e.d.u., un’automatica trasgressione dell’art. 3 Cedu, soprattutto in Italia, gravata, come anticipato, da una affluenza esorbitante di persone negli istituti penitenziari. Altre circostanze, come l’assenza di un sistema di areazione, servizi igienici a vista, inadeguata presenza di attività fuori dalla cella, impossibilità di libero movimento in luoghi diversi [continua ..]


4. Il contrasto

La pronuncia delle sezioni unite diventa il viatico per condurre un’indagine in retrospettiva quanto alla voragine apertasi in giurisprudenza sulla materia. Il dibattito in argomento si addensa – celando, di rimando, il dissidio esistente tra superficie materialmente calpestabile ed area che assicuri il normale movimento dentro la cella – attorno a dette alternative: secondo un primo indirizzo, poiché allo spazio minimo individuale corrisponde la superficie calpestabile e, di conseguenza, dalla superficie della camera di reclusione va detratta la zona occupata dagli arredi, senza operare alcun distinguo in ragione della natura degli stessi (insomma, la conformità all’art. 3 Cedu si concretizzerebbe prendendo, semplicemente, in considerazione l’area funzionale al normale movimento del singolo all’interno della stanza, misurata al netto della mobilia) [37]; diversamente, in alcune decisioni, si ritiene che il mobilio vada sottratto solo qualora sia particolarmente ingombrante: il letto, per esempio, quando assume la struttura “a castello” [38]. Altro orientamento si focalizza su una discrepanza tra gli arredi integranti strutture tendenzialmente fisse – di ostacolo al libero movimento – il cui ingombro deve essere detratto dallo spazio minimo e quelli rimuovibili con una certa facilità che devono essere estromessi dal computo [39]. Esso è confluito in una decisione diventata terreno di scontro in letteratura. Premesso che la superficie a cui si applicano i parametri minimi individuati dalla Corte e.d.u. vada intesa come spazio utile al fine di garantire il movimento del soggetto recluso nello spazio detentivo, il che esclude di poter inglobare nel computo gli arredi fissi, in ragione dell’ingombro che ne deriva e riportandosi ai principi, di poco precedenti, di Corte e.d.u. ‘Muršić c. Croazia’, reputa, quanto alla metodologia di calcolo della superficie vitale in cella collettiva, che vada detratto, dall’ambiente complessivo, non solo quanto destinato ai servizi igienici e il mobilio fisso, ma anche il letto (in particolare, a castello) il quale non può essere considerato come una superficie utile allo svolgimento delle attività sedentarie del detenuto in quanto rappresenta, al contrario, una limitazione della possibilità di muoversi: per la sua quota di incidenza, anzi per il suo [continua ..]


5. Il principio

Ecco, dunque, il duplice quesito cui le sezioni unite devono trovare risposta [49]: «se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 Cedu come interpretato dalla Corte e.d.u., lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello (per il suo maggiore ingombro e minore fruibilità) ovvero anche quello singolo». E «se, infine, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo (tre metri quadrati), secondo il corretto criterio di calcolo, al lordo o al netto dei mobili, possa comunque escludersi la violazione dell’art. 3 Cedu nel concorso di altre condizioni, come individuate dalla stessa Corte e.d.u. (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività, dignitose condizioni carcerarie) ovvero se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati» [50]. Secondo l’Adunanza plenaria – che offre una motivazione piuttosto articolata pur se a tratti di non semplice lettura – la soluzione ad esso presuppone alcune considerazioni sulla novellata configurazione dell’art. 35-ter ord. penit. che valgono, non solo in ipotesi di violazione dell’art. e Cedu in conseguenza del sovraffollamento carcerario, ma in ogni ipotesi di restrizione inumana e degradante derivante dall’esegesi della disposizione sovranazionale. Cosicché, in primis, bisogna cogliere le pronunce della Corte e.d.u. da adottare come elemento integrativo della norma anche se il compito è reso arduo dalla loro natura delle stesse che tendono, di regola, a risolvere il caso di specie, accertando se ricorre la violazione di un diritto sancito nella Convenzione [51]. Spiegando, i giudici interni, nell’applicazione e lettura del sistema normativo, non possono sorvolare l’interpretazione dell’istituto operata dalla Corte e.d.u. quando sia consolidata in una certa direzione; indicazioni in questo senso provengono sia dal Giudice delle leggi che dalla Suprema [continua ..]


6. (Segue) Gli epiloghi

Scanditi i passaggi dell’architettura motivazionale, le sezioni unite pervengono, come tratteggiato, mediante una dettagliata opera di ricostruzione dello sviluppo storico-legislativo ed ermeneutico, intervenuto sul punto, ad approdi d’impatto. Ripercorrere i singoli profili del compiuto discorso per addivenirvi, agevola il ragionamento, alquanto complesso, ed è utile a comprendere meglio (pure) i rapporti tra Corti supreme, la ratio legis e, conseguentemente, la descrizione del margine discrezionale attribuito ai giudici nazionali che si trovino ad applicare le disposizioni promulgate. D’altra parte, essi sono densi di richiami a precedenti giurisprudenziali e alle coordinate esegetiche, essenziali per affermare un duplice (granitico) principio di diritto ritenuto, come si vedrà, condivisibile [58]. Innanzitutto, sostengono che «il riconoscimento di trattamenti» carcerari «disumani e degradanti è frutto di una valutazione multi-fattoriale» e che, quest’ultima, nel determinare la superficie di 3 (tre) metri quadrati, che assicura il normale movimento (la libera deambulazione) nella cella, sulla base della progettualità dell’istituto di pena, deve eseguire una detrazione degli arredi tendenzialmente fissi tra cui rientrano (oltre ai servizi igienici) i letti a castello e, in generale, l’oggettistica non spostabile. Incentrandosi, poi, il discorso sul rapporto tra il sovraffollamento e gli altri aspetti che incidono sulle condizioni di detenzione, ribadita l’esigenza di un giudizio complessivo ed unitario, si è asserito che, in tutte le ipotesi nelle quali la restrizione abbia luogo in una cella collettiva in cui l’area di azione sia uguale o superiore al livello minimo di 3 (tre) metri quadrati, ma inferiore a 4 (quattro), pur non violandosi la regola dettata dalla Corte e.d.u., ciò può costituire un fattore negativo ai fini del sindacato in ordine alle qualità d’insieme della restrizione. La contestuale sussistenza di altri dati non confortanti potrà condurre a ritenere violato l’art. 3 della Cedu. Gli elementi in questione sono raffigurati dalla mancanza di accesso al cortile o all’aria e alla luce naturale, la cattiva aereazione, una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, l’assenza di riservatezza nei bagni (visibilità dei servizi e/o allocazione di essi [continua ..]


7. Interventi nel segno della continuità

Di recente, la Suprema corte, nel tentativo di chiudere la polemica, almeno sino a quando la materia non verrà sottoposta ad adeguate ortopedie legislative, torna ad occuparsi della questione dei “famigerati” 3 (tre) metri quadrati di spazio all’interno della cella del recluso e dei criteri di calcolo degli stessi al fine di accertare l’eventuale violazione dell’art. 3 Cedu. [75]. In particolare, la I sez. dell’organo di legittimità conferma, assorbendolo, il pensiero espresso dalle suesposte sezioni unite: «(…) in tema di rimedi risarcitori nei confronti di soggetti detenuti o internati previsti dall’art. 35-ter ord. penit.», essa reputa che «ai fini della determinazione della superficie minima pro capite di tre metri quadrati, da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione [e.d.u.]», così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, «non è computabile lo spazio occupato, oltre che, come già affermato dalle sezioni unite, dai letti a castello, anche dai letti singoli, ove questi siano ancorati al suolo» [76]. Insomma, si ribadisce che, nella stima dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati, da riconoscere ad ogni ristretto, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella stanza di pernottamento; sicché, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello. Anzi, la Cassazione allarga il novero degli oggetti la cui ‘stabilità’ al suolo impedisce il libero movimento della persona reclusa, inglobando anche il mero letto singolo se ancorato al pavimento. Del resto, i limiti che esso genera, quanto alla possibilità di movimento in una camera chiusa, quale è la cella, sono assimilabili a quelli procurati dagli arredi che non si possono affatto spostare e, dunque, fungono da parete o costituiscono spazi inaccessibili. Pertanto, quando si procede al ‘calcolo della superficie disponibile’ si deve computare anche lo spazio occupato dagli arredi purché siano facilmente spostabili da un punto all’altro dell’ambiente; viceversa, dal conteggio vanno esclusi i mobili fissi [77]. Lo spostamento del detenuto assume rilievo se [continua ..]


8. L’analisi

Ecco qualche riflessione di sintesi. Ci si occupa del dibattuto e, sinora, mai risolto quesito inerente il quantum di superficie di cui abbisogna il ristretto all’interno delle camere di pernottamento collettive; ciò, per allestire un sistema penitenziario aderente ai principi sanciti in Costituzione e, prima ancora, nella Cedu [79]. La quaestio, d’impatto banale, suscita, nel tempo, come anticipato, numerosi interventi delle Corti nazionali ed europee; anche la letteratura si accapiglia sulle singole tematiche[80]. Senza ripetersi, mentre la dottrina decanta il rispetto delle garanzie individuali, la giurisprudenza, da ultimo, fornisce, irrobustendo abbrivi consolidati, le chiavi di lettura dei concetti di “spazio minimo individuale”, calcolo dello stesso e “mobilio” il cui intralcio incide sulla capacità di spostamento dentro la cella. Dunque, subito ci si accorge che non si tratta di effettuare calcoli aritmetici, ma scelte più incisive che hanno ricadute su diritti inviolabili del recluso: l’area pro-capite, la quale deve essere assicurata al detenuto, non è solamente frutto dell’applicazione di alcuni principi basilari e costituzionalmente salvaguardati da collocarsi nell’astrattezza e nell’empireo del diritto, bensì una necessità volta a garantire la salute e la dignità di coloro che si trovano ristretti in un istituto penitenziario (artt. 2, 32 Cost. e 3 Cedu) [81]. Del resto, una detenzione vissuta in costruzioni malsane può rendere, alla società, solo uomini esacerbati dalle condizioni nelle quali vengono tenuti, incapaci, per ciò stesso, di ricucire i rapporti con la realtà esterna. Solo la grettezza mentale non consente di capire che una restrizione vissuta in luoghi adeguati ha un forte impatto educativo. Il tema si riallaccia, in maniera consequenziale, all’annosa problematica dei luoghi di pena, il sovraffollamento della popolazione carceraria, argomento, questo, che è tornato, con prepotenza, alla ribalta a causa della situazione epidemiologica [82] e alla spinta, proveniente da più parti, al ricorso alle misure alternative alla detenzione [83]. Da questo punto di vista, sembra un’autentica stortura il fatto di interrogarsi su quali siano le effettive modalità di calcolo dei 3 (tre) metri quadrati. Il nocciolo del problema è che il soggetto [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2023