Il contributo analizza criticamente il reiterato rifiuto del ne bis in idem internazionale da parte della Suprema Corte, prendendo le mosse da una recente pronuncia a riguardo.
The paper critically analyzes the reiterated rejection by the Supreme Court of the international ne bis in idem, starting from a recent decision in this regard.
1. Un nuovo caso di disconoscimento italiano del ne bis in idem internazionale - 2. Paradossi interpretativi - 3. L’orizzonte di senso - NOTE
La sentenza in commento si inserisce nella lunga serie di decisioni con le quali la Suprema Corte, quasi estenuata dalla necessità di ribadire certi orientamenti inamovibili, torna ad occuparsi del divieto di bis in idem nella sua dimensione internazionale, che travalica il nucleo dell’area Schengen e del diritto dell’Unione europea, e per ciò solo rimane privo dell’effetto che gli sarebbe proprio a causa della mancata sottoscrizione di accordi tra Stati. È questa la sensazione avvertita dalla lettura della motivazione della decisione della Corte di Cassazione, in parte sovrapponibile a quelle già redatte nelle occasioni pregresse: un copione che si ripete dinnanzi all’ennesima eccezione inerente alla doppia condanna per lo stesso fatto nei confronti della stessa persona, pronunciata da un tribunale della Repubblica di Albania e da una corte italiana: «il processo celebrato in uno Stato che non appartiene alla Unione Europea non preclude la rinnovazione del giudizio per i medesimi fatti in Italia, perché il ne bis in idem non è un principio generale di diritto internazionale, applicabile in quanto tale nell’ordinamento interno» [1]. È tramite la riproposizione di tale assunto che, ancora una volta, nel caso di specie, la Corte di legittimità usa liquidare le doglianze sulla violazione del divieto di doppio giudizio, richiamandosi ai suoi precedenti [2], tesi a rimarcare che «in caso di reato commesso nel territorio nazionale da un cittadino appartenente ad uno Stato in cui non vigono accordi idonei a derogare alla disciplina dell’art. 11 c.p., il processo celebrato in quello Stato non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per i medesimi fatti, non essendo il principio del ne bis in idem principio generale del diritto internazionale, come tale applicabile nell’ordinamento interno» [3]. Secondo gli orientamenti consolidati, infatti, sono i principi di territorialità e obbligatorietà generale della legge penale a prevalere sul divieto di secondo giudizio che, negli attuali scenari, non assurge ancora al rango di principio di diritto internazionale generalmente riconosciuto ma, al più, di «principio tendenziale cui si ispira oggi l’ordinamento internazionale» a tutela della posizione del singolo «di fronte alle concorrenti potestà punitive degli [continua ..]
Eppure, dovrebbe essere la risalente affermazione, proprio nelle sedi internazionali [7], del divieto di bis in idem a comportarne l’applicazione generalizzata, in un tempo in cui la sua versatilità e la capacità di arricchirsi senza smarrire il suo nucleo essenziale, gli consente di caratterizzare i settori più diversi delle esperienze giuridiche come davvero pochi e tradizionali istituti riescono a fare. Al contrario, paradossalmente, è proprio la sua proiezione a livello internazionale, che supera livelli di tutela che lo riconoscono nello spazio giudiziario dell’Unione europea, o tramite la sua consacrazione in appositi patti tra Stati, ad assegnargli un valore ridotto e una collocazione che lo allontana persino dalla sua portata culturale, tutta rivolta all’abbandono di quel protagonismo nazionalistico nell’esercizio della potestà punitiva, forse ormai obsoleto e privo di ragion d’essere dinnanzi all’obiettivo primario e condiviso del principio, che è quello di tutelare l’individuo da un doppio processo e da una doppia punizione. Proprio l’adozione di questa prospettiva, porta a interrogarsi nuovamente sull’attualità della concezione, puramente ideologica, fatta propria dalla giurisprudenza nomofilattica nella sua ottica conservatrice, malgrado la forte carica assiologica del principio del ne bis in idem, che non può essere ridotto a fenomeno meramente normativo. Tra i tradizionali diritti fondamentali dell’individuo, quello alla non duplicazione del processo penale per lo stesso fatto [8] si attesta certamente in una posizione di stabilità, assurgendo ad “argine meccanico che struttura un semplice raccordo implicativo, plasmato secondo il modello dell’if/then” [9]. Non può sfuggire che la protezione dell’individuo rispetto ad un secondo processo in idem, qualificato come “fondamentale principio di civiltà giuridica” [10], appartenga alle tradizioni della quasi totalità degli ordinamenti interni, che ne contemplano il valore nella normazione di rango ordinario o, in alcuni casi, costituzionale [11]. Assolvendo anche al compito di testimoniare un ciclo del giudizio che comunque si chiude, la preclusione del ne bis in idem, quale garanzia della stabilità delle decisioni giudiziarie, si avvantaggia, notoriamente, della vis rei iudicatae come [continua ..]
Le giustificazioni interne al disconoscimento della preclusione derivante dal divieto di doppio processo de eadem re et persona, nella sua dimensione internazionale, si adagiano su quella negazione, da parte della Consulta, della possibilità di considerare il principio del ne bis in idem orizzontale comune agli ordinamenti interni. Il Giudice delle leggi, nel ribadire che “il divieto di bis in idem con riferimento alle sentenze pronunciate all’estero (ne bis in idem orizzontale) non ha valore di principio comune alla generalità degli ordinamenti statuali moderni”, ha affermato che “il riconoscimento della sua validità anche nell’ordinamento internazionale con riferimento alle sentenze dei tribunali internazionali non comporti la sua applicabilità come norma generale regolatrice delle relazioni tra le competenze giurisdizionali e le decisioni in materia penale di organi appartenenti ad ordinamenti diversi” [33]. In questa logica, seppure a seguito della propensione a ritenere il ne bis in idem internazionale alla stregua di principio tendenziale cui si ispira oggi l’ordinamento, rispondente ad evidenti ragioni di garanzia del singolo di fronte alle concorrenti potestà punitive degli Stati [34], lo sbarramento all’operare dei suoi effetti nei rapporti tra Stati ancora estranei all’Unione e non parti di specifiche convenzioni, trova la sua base essenziale, dalla prospettiva interna, nelle previsioni che valorizzano i principi di territorialità, personalità o universalità, che possono recedere rispetto al divieto di doppio processo solo in presenza di convenzioni fra Stati, vincolanti unicamente le parti contraenti nei limiti dell’accordo raggiunto. Formalismi e spazi territoriali prevalgono, allora, dinnanzi all’essenza del principio e alla sua natura, ormai acclarata, di diritto fondamentale della persona. Da ciò, evidentemente, il passo verso la duplicazione del processo per lo stesso fatto nei confronti della stessa persona è assai breve [35]. Ma è l’estensione del principio in un contesto che trascende i confini nazionali ad imporre un cambio di prospettiva, nel solco di una più consapevole maturità nella tutela dei diritti del singolo sollecitata proprio da quell’approccio che considera il divieto di essere giudicati due volte per lo stesso fatto un fondamentale [continua ..]