Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La reformatio in peius Cartabia: l´improcedibilità dell´azione penale nel segno di Kronos sbocca nel “processo inconcludente” (di Carlo Morselli, Docente di Diritto dell’immigrazione – Università LUMSA di Roma)


È necessario far emergere il sottotesto della c.d. riforma Cartabia, valicando la barriera nominalistica che ne travisa il volto ed occulta l’imprinting. L’impianto varato detta la realtà della nuda prescrizione mimetizzata nella veste esteriore della “improcedibilità” dell’azione penale, espressione di un compromesso politico ed istituzionale. L’isti­tuto “capitalizza” il mero decorso del tempo quale fattore estintivo che cristallizza un predeterminato termine finale dei lavori, toccato il quale l’esperienza penale desinit. Si espelle la prescrizione, si importa l’improcedibilità. Il nastro della regiudicanda deve essere avvolto: plus rien ne va. La “macchina della giustizia” viene fermata “all’ultimo miglio”. Restano diversi interrogativi. Il Governo non ha impedito, con impegni di spesa per l’organico, lo sbocco tanatologico. Lo scenario è inedito: si attesta il processo inconcludente. Si pretende di aver reso giustizia, efficientemente, senza che ci sia stato vero ius dicere e sia stata accertata la punibilità, a cui si rinuncia al calare di uno sbarramento cronologico. Riforma del processo penale, quale adeguata “risposta” alla ragionevole durata o reformatio in peius? L’art. 111 Cost. prevede “la ragionevole durata” e non, ad imitazione dell’art. 13 Cost., che “La legge stabilisce i limiti massimi” alla durata del processo penale. Vengono chiamati in causa gli artt. 112 e 25 Cost. Se la c.d. riforma Cartabia risulta una specie di disinvestimento, bisognerebbe andare oltre.

Parole chiave: improcedibilità – azione penale – prescrizione del reato - riforma Cartabia.

The reformatio in peius Cartabia: the impossibility of prosecution in the name of Kronos leads to the “inconclusive trial”

It is necessary to bring out the subtext of the so-called Cartabia reform, crossing the nominalistic barrier that distorts its face and hides its imprinting. The system launched dictates the reality of the bare prescription camouflaged in the external guise of the “inadmissibility” of criminal prosecution, the expression of a political and institutional compromise. The institute “capitalizes” the mere passage of time as an extinguishing factor that crystallizes a predetermined final term of the works, after which the criminal experience ends. The prescription is expelled, the impossibility of prosecution is imported. The ribbon of the regiudicanda must be wound: plus rien ne va. The “machine of justice” is stopped “at the last mile”. Several questions remain. The Government has not prevented the thanatological outcome with spending commitments on staff. The scenario is unprecedented: the inconclusive process is attested. We claim to have done justice, efficiently, without there having been true jus dicere and without being punishable, to which we renounce the lowering of a chronological barrier. Reform of the penal process, which adequate “response” to the reasonable duration or reformatio in peius? Art. 111 of the Constitution provides for “reasonable duration” and not, in imitation of art. 13 of the Constitution, that “The law establishes the maximum limits” to the duration of the criminal trial. Articles are called into question. 112 and 25 of the Constitution. If the c. d. Cartabia reform is a kind of divestment, we should go further.

SOMMARIO:

1. Uno strumento “diagnostico” per decifrare la natura della c.d. riforma Cartabia - 2. Prescrizione processuale/sostanziale - 3. Ragionevole durata e obbligatorietà dell’azione, a confronto. Quale poziore? - 4. La costellazione europea del principio di ragionevole durata - 5. (segue) Artt. 111, comma 2, Cost. e 6, par. 1, C.e.d.u. La cronaca lentezza della “macchina della giustizia” che si ferma “all’ultimo miglio” - 6. Tetto massimo ai tempi di durata del processo (altius non tollendi) e rispetto della “regola” dell’obbligatorietà dell’azione penale - 7. Competenza sdoppiata, apertura di un “fronte civilistico” ed esodo della prova: inosservanza dell’art. 25, comma 1, Cost.? Due interrogativi sul trattamento ed acquisizione delle prove - 8. Alternativa alla riforma Cartabia: l’incremento della dotazione organica. La consunzione processuale e la prova dichiarativa non escussa: gli “ammortizzatori” della sospensione dei termini - 9. Le proroghe. Conclusione: la riforma Cartabia espressione di un disinvestimento - NOTE


1. Uno strumento “diagnostico” per decifrare la natura della c.d. riforma Cartabia

Solo in due modi è dato registrare il percorso seguito dal nuovo istituto introdotto dalla c. d. riforma Cartabia, per ricavarne la matrice: l’uso del canale che si affida al quadrante nominalistico prescelto (improcedibilità) o il tentativo di risalire all’identità del novum fissandone l’essenza. Il secondo modo si propone di valicare la barriera dell’enunciato e, quindi, abbraccia l’obiettivo di cogliere il sottotesto del fenomeno coinvolto [1]. L’interprete che si affranca dal tabulato esterno ed accede al fondamento individuando gli interessi gestiti è incarnato, per esempio, da uno dei primi commentatori della riforma, dal suo approccio: “La sventura della prescrizione sostanziale è stata di non potersi chiamare con un nome diverso da ‘prescrizione’; di qui la ‘luminosa’ idea di ricorrere alla prescrizione processuale che aveva la fortuna di potersi anche designare come ‘improcedibilità’, attraverso uno slittamento metonimico dalla causa verso l’effetto” [2]. Il riallineamento della materia all’interno di un quadro extraformale evita “il rischio di una frode delle etichette” e approda alla discovey [3]di avere, la riforma Cartabia, prodotto una “prescrizione processuale”, già accolta da alcuni, decaduti, disegni di legge [4].


2. Prescrizione processuale/sostanziale

La richiamata prescrizione processuale, legata al mero decorso temporale, mantiene, nel rapporto di filiazione, l’origine sostanziale [5]. Evidente è la specularità delle due forme di prescrizioni, relazionate dall’identico fattore dell’incidenza o rilevanza del decorso del tempo. Al riguardo, si è osservato:” “l’istituto della prescrizione del reato per decorso del tempo risponde al problema se e quale rilevanza attribuire al tempo trascorso dal commesso reato fino alla sentenza che definisce il processo. Un problema, dunque, relativo al diritto penale sostanziale, al sistema delle risposte al reato” [6]. Ma ciò nasconde zone d’ombra: “in quanto rinuncia alla ‘ normale’ risposta prevista dalla legge per il reato, la prescrizione penale è un istituto assiologicamente ambiguo…è in ogni caso una presa d’atto di una obiettiva defaillance del sistema…irragionevole durata del tempo intercorso fra il commesso reato e il momento della decisione; il suo effetto è la rinuncia ad applicare la conseguenza del reato…che in un tempo ragionevole sarebbe stata legalmente dovuta” [7]. Così, con “la prescrizione del reato, prevedendo che il reato possa estinguersi per effetto della prescrizione (art. 157), la legge dà rilievo al venir meno dell’interesse pubblico alla repressione dei reati…quando dalla commissione del reato del reato sia decorso…un tempo proporzionato, in linea di principio, alla sua gravità” [8]. Piuttosto, si è obiettato, «si deve rilevare come la terminologia utilizzata dal codice (“estinzione del reato”; “estinzione della pena”) sia impropria: in particolare, il reato in quanto fatto illecito non può “estinguersi” (factum infectum fieri nequit). Ciò che può effettivamente venir meno sono gli effetti che il reato è suscettibile di produrre, e quindi la sua punibilità» [9]. Ribadito l’interfacciarsi delle due prescrizioni, sostanziale e processuale, la prescrizione pare avere i caratteri della “consumazione” (delle conseguenze del crimine), lasciando sul campo l’ineludibile interrogativo di fondo: perché non punire? [10]. Entrambe le prescrizioni, quoad effectum – che è la “lente di [continua ..]


3. Ragionevole durata e obbligatorietà dell’azione, a confronto. Quale poziore?

L’amministrazione della giustizia è retta dalla (è incardinata saldamente nel tronco della) obbligatorietà dell’azione penale, che è precetto indeclinabile (art. 112 Cost.), assai diverso dalla generale scansione temporale segnata (o vagheggiata) all’art. 111 Cost. la quale contiene una riserva di legge in bianco, e quindi la previsione del pendolo di una seconda legge tipicamente discrezionale quando stabilisce, nella breve ramificazione del comma due: La legge ne assicura la ragionevole durata [14]. Modalità, mezzi, percorsi sono indeterminati alla fonte verticistica, non sufficientemente caratterizzata neppure in via di principio (salvo l’inserimento del riferimento alla “ragionevolezza”), ma determinabili alla foce primaria parlamentare, in via discrezionale, appunto. Più in generale, la Corte costituzionale ha ripetutamente avvertito che «il legislatore, nel regolare il funzionamento del processo, dispone della più ampia discrezionalità, sicché le scelte concretamente compiute sono sindacabili soltanto ove manifestamente irragionevoli» (ord. n. 32/2001; ord. n. 7/1997) [15]. Infatti, «la ragionevolezza è stata usata come freno al potere legislativo» [16]. In definitiva, gli artt. 111 [17] e 112, sebbene dipendano dalla stessa fonte costituzionale non sono pariordinati nell’impostazione della organizzazione della corrispondete materia, ma risultato diversificati per portata ed incidenza verso “il basso” disciplinare: solo il secondo ha una luce propria [18], espressione di una disposizione “di senso compiuto” e specchio del “dover essere” della normazione processuale ordinaria [19]. In ogni caso e d’altra parte, il principio della ragionevole durata del processo «non può comportare la vanificazione degli altri valori costituzionali che in esso sono coinvolti» [20]; cosicché, «resta assorbente il rilievo che, per costante affermazione di questa Corte, il valore costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.) – cui si raccordano le previsioni normative intese a realizzare economie di tempi e di energie processuali – va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 219/2004; ordinanze n. 420 e n. 418 del 2004) e non [continua ..]


4. La costellazione europea del principio di ragionevole durata

La necessità di limitare la latitudine temporale dei processi ha condotto al riconoscimento del principio della ragionevole durata del processo, che deve essere assicurata dalla legge [26]. Siffatto principio esprime una caratterizzante costellazione previsionale europea, sancito dall’art. 6 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo [27] e dall’art. 46, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Proprio in attuazione di tale principio è stata emanata la c.d. legge Pinto (l. 24 marzo 2001, n. 89), sul diritto ad una riparazione per il pregiudizio derivante dall’eccessivo o abnorme protrarsi del giudizio civile [28]. L’art. 6, par. 1, C.e.d.u. detta: «Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente e imparziale costituito per legge». Analogamente, nell’art. 14, par. 2, del Patto internazionale è stabilito: «Ogni individuo accusato di un reato ha diritto, in posizione di piena eguaglianza, come minimo alle seguenti garanzie: […] c) ad essere giudicato senza ingiustificato ritardo» [29].


5. (segue) Artt. 111, comma 2, Cost. e 6, par. 1, C.e.d.u. La cronaca lentezza della “macchina della giustizia” che si ferma “all’ultimo miglio”

La materia della ragionevole durata del processo si articola in due previsioni, entrambe sovraordinate: l’art. 111, comma 2, Cost. secondo cui la «La legge […] assicura la ragionevole durata [del processo]» – ciò che è, appunto, «attualmente oggetto di espressa garanzia costituzionale» [30] – e l’art. 6, par. 1, C.e.d.u., citato. Si è dedotto che si tratta di «precetti ispirati ad una logica ben diversa sia dal punto di vista strutturale sia sotto il profilo degli obblighi che ne derivano e del sindacato sulla loro inosservanza»: precetti in senso oggettivo (nel primo caso) e soggettivo (nel secondo caso) [31]. Anche nel livello sottordinato, il codice prevede termini di durata massima: quella delle indagini preliminari [32]. Questa previsione partecipa, per la sua rilevante quota, ad una sorta di “pianificazione” della ragionevole durata processuale, radicandola fin dall’inizio dell’accertamento penale ove si incardina. Però diventa problematico accettare che una barriera preclusiva si replichi, al pari di un sequenziamento e con il metro della prescrizione processuale, proprio “all’ultimo miglio” [33] dell’iter processuale. Si finisce per recidere il “nastro” attivo e iterativo della regiudicanda e dell’amministrazione della giustizia [34]: complicando le cose, si interviene nella fase decisoria (già avviata verso l’epilogo, preceduta da sviluppi interni), diversa da quella preliminare ove ragionevolmente, per evitare derive veteroinquisitorie, il cittadino-indagato non può essere calato in una condizione (di soggezione) di stallo investigativo. Nella protofase il “semaforo” del contingentamento dei tempi non incontra la cristallizzazione della regiudicanda (dedotta in giudizio) che dovrebbe diventare uno spartiacque quando si vogliono inserire le barriere preclusive dei tempi massimi. Ecco una differenza con cui non si misura la riforma Cartabia. Può essere riguardata, la dibattuta impostazione, come una forma di “protezionismo” acceleratorio, che però non può innestarsi, al pari di un termine perentorio, nella fase decisoria (che obbedisce ad esigenze autonome: la deliberazione/declaratoria dello ius dicere sull’azione penale esercitata), già gravata dalla prescrizione estintiva [35], [continua ..]


6. Tetto massimo ai tempi di durata del processo (altius non tollendi) e rispetto della “regola” dell’obbligatorietà dell’azione penale

Si è puntualmente avvertito che «l’art. 111 comma 2 Cost. demanda genericamente alla legge il compito di assicurare la ragionevole durata del processo, guardandosi bene dall’indicare i mezzi. Pare evidente, tuttavia, che il precetto costituzionale intenda alludere a interventi positivi di tipo acceleratorio, ossia volti a propiziare, nel rispetto delle garanzie, la tempestiva conclusione del processo – dalla depenalizzazione alla fluidità delle fasi preliminari al dibattimento – interventi dei quali…non si vede neanche l’ombra nella riforma ‘Cartabia’; non certo ad una mannaia che, per il mero decorso del tempo, si abbatta sul processo, segnandone la fine con la più nichilistica e vuota delle immaginabili conclusioni», ritenendosi che “il precetto più vistosamente contraddetto dalla improcedibilità è l’art. 112 Cost. relativo all’obbligatorietà dell’azione penale, disposizione espressa come regola e, quindi, insuscettibile di bilanciamento con il principio della ragionevole durata del processo» [42]. Ciò vale a mettere ordine alla complessa materia, tutt’altro che monotematica. Diversamente, «si potrebbe obiettare che l’azione penale non è direttamente implicata nel fenomeno giuridico al nostro vaglio… la sospensione o interruzione della serie si configura come arresto della progressione del processo in quanto tale, anziché della dinamica dell’azione… La situazione di improcedibilità prevista dall’art. 344-bis c.p.p., del resto, non sottintende alcuna fattispecie condizionale, alla quale resti subordinato l’esercizio o il proseguimento dell’azione» [43]. A parte il dato testuale che emerge, nettamente, dalla riforma Cartabia [44], riteniamo che l’azione penale, dal suo inizio (artt. 50, 405, comma 1, c. p. p.: «Il pubblico ministero…esercita l’azione penale, formulando l’imputazione…ovvero con richiesta di rinvio a giudizio»; art. 409, comma 5, c.p.p.) e fino al termine, dopo il dibattimento celebrato, attraversi come una linea orizzontale il processo di primo grado (art. 529, comma 1, c. p. p.: «Se l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere indicandone la causa nel [continua ..]


7. Competenza sdoppiata, apertura di un “fronte civilistico” ed esodo della prova: inosservanza dell’art. 25, comma 1, Cost.? Due interrogativi sul trattamento ed acquisizione delle prove

L’art. 578 c.p.p. riceve l’interessamento della c.d. riforma Cartabia nella norma d’esordio, inserendovi l’appendice del comma 1-bis e partire dal rimaneggiamento della rubrica che sormonta il nuovo dettato (Decisione sugli effetti civili nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione e nel caso di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione) [55]-[56]. Il comma è stato aggiunto dall’art. 2, comma 2, lett. b), n. 2), l. 27 settembre 2021, n. 134, prevedendosi per il condannato, anche genericamente, alla restitutio in integrum o del tantundem, per il reato e in favore della parte civile costituita, che il giudice faccia un adempimento modale di tipo traslativo. Così, quello di appello e la Corte di Cassazione [57], dichiarando improcedibile l’azione penale per avere valicato (dell’iter del processo) le barriere semimobili (in ragione dell’innesto delle proroghe, che rende i confini temporali variabili) dei termini dettati ai commi 1 e 2 dell’art. 344-bis (Improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione) [58], «rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale» [59]. Una sorta di semicompetenza, limitatamente alle quote civilistiche emarginate dal campo penalistico, i cui organi giurisdizionali declinano la propria competenza per quanto residua. Si tratta di un “esodo della prova” e di uno spostamento della competenza [60], già incardinata avanti l’organo decisorio penale e poi dismessa, ad altro giudice (dalla fonte alla foce: un giudice “chiama in causa” l’altro nel prisma delle appartenenze). Ma questo canale attributivo (il giudice penale “designa” ed investe quello civile) chiama in causa l’art. 25, comma 1, Cost.: Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Il giudice penale è quello naturale e quello civile non è precostituito, originario: il primo viene sostituito o surrogato “in corso di causa” o di “giudizio” [61], “liberamente” mentre questa pende (che infatti «prosegue “avanti altro giudice, non inserito nei ranghi penali) [62], quindi ante [continua ..]


8. Alternativa alla riforma Cartabia: l’incremento della dotazione organica. La consunzione processuale e la prova dichiarativa non escussa: gli “ammortizzatori” della sospensione dei termini

La riforma Cartabia – i cui “compilatori” hanno voluto sanzionare la conduzione dei processi, in appello e in cassazione, oltre i confini temporali predeterminati o “massimi” stimati ragionevoli e a parte il sottoregime (problematico) delle proroghe – è lo sbocco di un compromesso con una fazione politica che per coerenza avrebbe dovuto difendere la nota riforma Bonafede che faceva saltare la prescrizione dopo il primo grado, invece di accettare la proprietà invariantiva applicata ai nomi (nomen omen, però), espellendo la prescrizione (quale «causa estintiva legata al decorso del tempo…nell’interesse di non gravare il sistema giudiziario del cumulo di processi non definiti…tendendo a sostituire alla “certezza della pena”, se non la certezza, la “probabilità” dell’impunità» [79]) ed importando l’improcedibilità [80]. L’impianto delle vere riforme, mirate a velocizzare e “fluidificare” i tempi dei processi [81], deflazionandoli ragionevolmente [82] senza il feticcio del contenimento dei tempi di durata della regiudicanda [83] (per raggiungere il “traguardo” dell’art. 111 Cost. [84]), non possono allestirsi a costo zero. È questa la “precondizione negativa” se si vuole mantenere la scelta accusatoria, che vuol dire anche difesa dei diritti delle persone offese dal reato costitute parte civili [85]. In un Paese, si è detto, il trattamento riservato al settore-giustizia rappresenta la misura di civiltà raggiunta, cosicché è inaccettabile il risultato nichilistico di mandare al macero e al rogo i faldoni processuali [86], e quindi il lavoro di almeno un grado del processo, le costose indagini preliminari che hanno impegnato uomini e mezzi della polizia giudiziaria (lunghe intercettazioni telefoniche, ad esempio, appostamenti, pedinamenti, perquisizioni, sequestri) e le emerse prove testimoniali acquisite e formate in istruttoria dibattimentale [87]. In alternativa all’improcedibilità della riforma Cartabia, che, intendendo incarnare il modello della c.d. ragionevole durata del processo [88], rappresenta una forma di consunzione dell’azione penale e quella preclusiva del potere esercitabile [89], c’era la via maestra dell’incremento della dotazione [continua ..]


9. Le proroghe. Conclusione: la riforma Cartabia espressione di un disinvestimento

L’art. 344 bis c.p.p. (Improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione) fissa tre termini: per il giudizio di appello, di cassazione, e per il giudizio di impugnazione «particolarmente complesso» (citando i relativi indici esplicativi) in relazione al quale i primi due termini (rispettivamente due anni e un anno) «sono prorogati, con ordinanza motivata del giudice che procede, per un periodo non superiore a un anno nel giudizio di appello e a sei mesi nel giudizio di cassazione». Sono pure previste proroghe addizionali, scandite al comma quarto del medesimo articolo, «per le ragioni e per la durata indicate nel periodo precedente, quando si procede per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, per i delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 306, secondo comma, 416-bis, 416-ter, 609-bis, nelle ipotesi aggravate di cui all’articolo 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, nonché per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416-bis.1, primo comma, del codice penale e per il delitto di cui all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309». Una clausola di chiusura stabilisce una disposizione ad hoc «quando si procede per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416-bis.1, primo comma, del codice penale», prevedendosi che «i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione» [116]. Avverso l’ordinanza che dispone la proroga, «l’imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per cassazione, a pena di inammissibilità, entro cinque giorni dalla lettura dell’ordinanza, in mancanza, dalla sua notificazione» (art. 344-bis, comma 5, c. p. p.). Una regolamentazione a geometrie molto variabili, con un andamento a fisarmonica complessivamente semirigido – a “due orologi” [117] – che ha sollevato precisi dubbi di costituzionalità. Si è [continua ..]


NOTE