Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La testimonianza dell´avvocato tra accertamento della verità e segreto professionale (di Filippo Giunchedi, Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi Niccolò Cusano di Roma)


Il rapporto tra testimonianza dell’avvocato e segreto professionale rappresenta un punto nevralgico in materia di prova.

Considerati i vuoti di tutela a livello normativo, solo una lettura costituzionalmente orientata del fenomeno può consentire una soluzione rispettosa della indispensabile riservatezza posta a garanzia di quel necessario rapporto fiduciario che connatura il rapporto tra difensore e suo assistito e che si riflette sull’accertamento processuale.

Parole chiave: mezzi di prova – testimonianza – avvocato - segreto professionale.

The testimony of the lawyer between finding the truth and privileged communications

The relationship between the attorney’s testimony and privileged communications represents a crucial point in the matter of evidence.

Considering the gaps of normative protection, only a constitutionally oriented reading of the phenomenon can allow a solution that respects the essential privacy placed as a guarantee of that necessary trust relationship which characterizes the defender-client relationship and which is reflected in the judicial finding.

SOMMARIO:

1. Una disciplina articolata e densa di problematiche interpretative - 2. Difensore vs testimone: i criteri cronologico e funzionale - 3. Una maggiore garanzia: il difensore che abbia svolto investigazioni difensive - 4. Un’ipotesi singolare: la testimonianza contra reo del difensore - 5. Uno “sguardo” (fugace) al Codice penale - 6. Riflessioni conclusive: la “via costituzionale” - NOTE


1. Una disciplina articolata e densa di problematiche interpretative

La testimonianza dell’avvocato [1], quale alter ego del cliente [2], è avvolta da ombre ermeneutiche legate alla natura confidenziale che connatura il rapporto tra il legale ed il proprio assistito [3]. Se, pertanto, alla base dei limiti alla testimonianza dell’avvocato vi è la confidenzialità tra questi ed il soggetto patrocinato [4] – dalla mera consulenza all’assistenza in giudizio [5] – la formulazione del testo dell’art. 200 c.p.p. («Non possono essere obbligati a deporre su quanto conosciuto per ragione del[la] propri[a] […] professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria») apre verso interpretazioni variegate non sempre allineate con i valori che la norma intende garantire [6]. La Corte costituzionale, mediante una sentenza interpretativa di rigetto, ha stagliato in modo nitido i confini della facoltà di astensione dal testimoniare posta in capo all’avvocato. Per il giudice delle leggi [7] il segreto del difensore e la correlata facoltà di astenersi dal testimoniare in giudizio sul contenuto di quanto appreso nell’esercizio del mandato conferitogli dal proprio assistito, risponde all’esigenza di assicurare una difesa tecnica effettiva, basata sulla conoscenza di fatti e situazioni resigli noti senza remore, non condizionata dalla obbligatoria trasferibilità di tale conoscenza nel giudizio attraverso la testimonianza del difensore stesso [8]. Questi condivisibili itinerari motivazionali giustificano la facoltà di testimoniare in capo al difensore. Si osservi, trattasi di facoltà e non di obbligo. Ciò in quanto – come ha avuto modo di spiegare in maniera limpida la Consulta in altra successiva decisione [9] – la posizione del difensore è caratterizzata da «una sorta di incompatibilità alternativa tra l’ufficio di testimone e il ruolo della difesa» [10]. Rapporto questo che non può essere disciplinato esclusivamente dalla disciplina codicistica, essendo necessario ricorrere alle regole deontologiche, chiamate a stabilire «se dovrà essere data la prevalenza all’ufficio di testimone o al ruolo di difensore, ovvero se la scelta dovrà essere lasciata al difensore» [11]. Insomma, secondo la Consulta, confinare alla mera [continua ..]


2. Difensore vs testimone: i criteri cronologico e funzionale

L’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p., come visto, impedisce di cumulare la qualifica di difensore e di testimone [28]; aspetto che, sul piano pratico, implica una serie di situazioni ove prevale uno status rispetto all’altro [29]. Il legislatore, con atteggiamento “pilatesco”, ha preferito evitare di disciplinare le diverse ipotesi che possono delinearsi [30] sulla base di una distinzione tendenzialmente cronologica e funzionale [31]. Quanto al primo profilo, la linea di confine è costituita dalla consapevolezza o meno del difensore, nel momento in cui accetta il mandato difensivo, del fatto per cui si procede. Qualora non ne sia a conoscenza opererà l’incompatibilità a deporre. Diversamente, qualora accetti l’incarico, conscio del fatto per cui si procede, appreso per causa esterna all’oggetto dell’incarico difensivo, prevarrà lo status di testimone, perdendo il difensore la sua qualifica. Sul piano funzionale, invece, se il difensore ha appreso il fatto per cui si procede in virtù del suo ruolo, prevarrà la qualità di difensore; se, invece, i fatti sono appresi al di fuori dell’incarico difensivo avrà rilievo la qualifica di testimone. Si tratta, indubbiamente, di due facce della stessa medaglia, mutando la prospettiva dalla quale si inquadra la situazione di incompatibilità. Il profilo funzionale sembra, comunque, offrire maggiori garanzie [32] rispetto a quello che si incentra sulla data della notizia del fatto per cui si procede [33]. Alla prova dei fatti, però, le due tesi sembrano convergere verso la medesima soluzione qualora oggetto della testimonianza siano fatti appresi dal difensore quando ancora non era stato officiato dell’in­carico [34]. A contrario non porta alla stessa conclusione la conoscenza del fatto oggetto di testimonianza da parte del difensore già incaricato, appresa per causa estranea al mandato. In questo caso il dato temporale diviene rilevante per differenziare l’incompatibilità [35]. In realtà, una soluzione certa non esiste, essendo legata al diverso criterio che si intende privilegiare. D’altro canto, una tale instabilità interpretativa risulta avallata dallo stesso giudice delle leggi, il quale, evidenziando l’«incompatibilità alternativa» [36] tra lo status di difensore e [continua ..]


3. Una maggiore garanzia: il difensore che abbia svolto investigazioni difensive

L’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. propone un’ipotesi di incompatibilità assoluta a testimoniare per il difensore che abbia svolto attività difensiva [38]. La ratio è quella di impedire che coloro che hanno raccolto elementi di prova possano veicolarli mediante la testimonianza. Il disposto normativo, inscrivendosi nel più ampio contesto dell’incompatibilità a testimoniare del difensore, consente di tutelare quella prerogativa esclusiva dell’avvocato di valutare se utilizzare i risultati dell’attività di investigazione difensiva. È chiaro che l’incompatibilità non può essere aggirata mediante la testimonianza di coloro che abbiano coadiuvato il difensore nell’attività investigativa, come il sostituto o altro soggetto estraneo al­l’équipe difensiva che abbia assistito all’assunzione delle dichiarazioni. È questa la ragione dell’inse­rimento, mediante la legge sulle investigazioni difensive, anche di «coloro che hanno formato la documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni assunte ai sensi dell’art. 391-ter», così da escludere sacche di arbitrio [39]. L’espresso divieto non può essere nemmeno superato ricorrendo alla testimonianza dei consulenti tecnici o degli investigatori che non abbiano documentato l’atto di investigazione difensiva [40]. Consentire ciò significherebbe forzare il tenore dell’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p. la cui finalità è limpida, ovvero impedire che la conoscenza appresa grazie ad una determinata funzione, possa costituire fonte di accusa per il soggetto nel cui interesse quelle informazioni sono state assunte. Inevitabile, pertanto, sanzionare la violazione di detto divieto con l’inutilizzabilità delle informazioni così raccolte, anche mediante strumenti atipici come il ricorso al detective [41]. Il tenore della lett. d) sembrerebbe – con una lettura a contrario – consentire al difensore che non abbia svolto attività investigativa di rendere testimonianza. Francamente, come è stato sostenuto in letteratura [42] muovendo dagli itinerari motivazionali della sentenza costituzionale n. 215 del 1997 [43] e dell’ordinanza n. 433 del 2001 [44], il rapporto tra testimonianza del difensore e segreto professionale non [continua ..]


4. Un’ipotesi singolare: la testimonianza contra reo del difensore

Un caso peculiare che si è verificato di recente ed è stato oggetto di una decisione della Suprema Corte che ne ha massimato il principio di diritto emerso [47], è costituito da una vicenda in cui il difensore di un imputato che aveva prestato la sua attività defensionale nel corso del giudizio di primo grado e che, avverso la sentenza di condanna, aveva interposto impugnazione redigendo l’atto di appello, nel frattempo era stato arrestato per altri fatti e, decidendo di collaborare con la giustizia dopo aver rinunciato all’incarico difensivo, aveva reso dichiarazioni accusatorie anche nei confronti del suo precedente assistito. Il contenuto di dette propalazioni da parte dell’ex difensore atteneva all’infondatezza delle discolpe dell’imputato, finalizzate ad inficiare la genuinità della prova, tanto nella ricostruzione effettuata in dibattimento quanto con le doglianze contenute nell’atto di appello [48]. La Corte di cassazione, nell’asseverare il percorso motivazionale della Corte territoriale – la quale riteneva che la dismissione dell’incarico difensivo da parte del “difensore-collaborante” lo scioglieva da ogni forma di incompatibilità, non avendo, peraltro, svolto attività investigativa –, si è limitata, per quel che rileva ai nostri fini, ad escludere forme di incompatibilità non essendo stata svolta attività di investigazione difensiva, tanto che il dichiarante non aveva nemmeno opposto il segreto professionale del quale, pleonasticamente, era stato avvertito dalla Corte di appello. L’unico aspetto valutabile sarebbe quello della violazione di norme deontologiche che, però, non produce riverberi sul piano dell’inu­tilizzabilità. Il punto è sempre lo stesso. Il rapporto tra testimonianza del difensore e segreto professionale riceve una tutela non esaustiva all’interno del codice di rito criminale, risultando colmata solo dalla disciplina deontologica. Si tratta di aspetto che, nonostante sia stato oggetto di questioni di legittimità costituzionale proprio in forza del predetto limite, è stato asseverato dalla Consulta [49] la quale ha rimesso all’organo di categoria di individuare il confine tra le funzioni di difensore e l’area della testimonianza. Infatti, l’avvenuta scissione delle due qualità preserva la [continua ..]


5. Uno “sguardo” (fugace) al Codice penale

Parallelamente alla disciplina processuale vi è quella sostanziale che contempla la fattispecie della rivelazione di segreto professionale di cui all’art. 622 c.p. L’ambito di tutela di quest’ultima non è il medesimo dell’art. 200 c.p.p. che garantisce il decoro professionale di determinate categorie, tra cui quella del difensore. Infatti, l’art. 622 c.p. punisce la rivelazione di qualsiasi segreto professionale, in assenza di una giusta causa [55], a condizione che possa derivarne nocumento, posto che il professionista il quale, in ragione del suo status, viene a conoscenza di segreti del cliente, è tenuto ad assicurarne la riservatezza [56]. Il rapporto tra i due istituti che, salva l’ipotesi di cui all’art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p., muove dalla facoltà per il difensore di rivelare, testimoniando, quando appreso a cagione del mandato difensivo, sembra legato alla sussistenza della giusta causa che consentirà al difensore di deporre avanti all’autorità giudiziaria su aspetti conosciuti in virtù del rapporto professionale, in quanto diversamente incorrerà nell’area del penalmente illecito, qualora, in assenza della giusta causa, possa derivarne nocumento al soggetto precedentemente assistito [57]. L’aspetto singolare, però, è che detta violazione non avrà conseguenze sul piano dell’utilizzabilità di quanto rivelato poiché la sfera processuale risulta distinta da quella sostanziale [58]. In sintesi estrema, se la disciplina processuale consente la facoltà di testimoniare per il difensore, la fattispecie sostanziale in esame, riduce l’ambito di operatività della deposizione del legale.


6. Riflessioni conclusive: la “via costituzionale”

È giunto il momento di trarre delle conclusioni. Quanto illustrato nelle pagine precedenti ci offre la dimensione di come, sulla scorta del formalismo, si ammetta la testimonianza dell’avvocato in merito ad accadimenti conosciuti nell’ambito del rapporto professionale con il proprio assistito. Fatti che dovrebbero rimanere avvolti nella cortina della riservatezza. È vero che il difensore potrebbe opporre il segreto professionale, ma trattandosi di facoltà è possibile che ciò non avvenga. Trattasi di evento imprevedibile, legato ad una serie di fattori (si pensi al caso del legale divenuto collaboratore di giustizia, ove l’interesse a fruire dei benefici derivanti da questo status si pone in danno del proprio assistito) che possono condizionare il rapporto tra patrono e patrocinato. Non si dimentichi che il processo non è solo la sede per ricercare la verità, ma è anche il luogo in cui la lotta contro il crimine deve avvenire secondo determinate formalità e certe regole nel rispetto di principi valoriali che non possono essere disattesi di fronte al vacuo formalismo. Sono ben note le teorie che si agitano intorno al rispetto della legalità processuale, mai abdicabile a fronte del risultato: «la caccia val più della preda» [59], ci ha insegnato Franco Cordero. Epperò, non si può trascurare come l’ortodosso concetto di formalismo non possa abdicare in nome di una disciplina che si armonizzi con il sistema in cui opera, nel rispetto, come anticipato, dei valori fondamentali dell’ordinamento che costituiscono l’essenza dell’attività ermeneutica [60]. Un simile approccio, che potrebbe apparire dissacratorio, in realtà è conforme alla tradizionale interpretazione che viene offerta della legalità anche in prospettiva sovranazionale, ove il concetto di equità si pone nella prospettiva di plasmare una giustizia per il caso concreto, ma, al contempo, rispettosa dei principi fondamentali costituenti la rotta verso un’ortodossa attività ermeneutica [61]. Ma se il formalismo condiziona il “diritto delle prove”, proprio perché questo settore costituisce diretta espressione dei valori costituzionali, riflettendo le scelte ideologiche del legislatore [62], laddove la disciplina non risulti particolarmente rigorosa è necessaria una [continua ..]


NOTE