Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Sezioni Unite (di Teresa Alesci)


Il giudice del patteggiamento non può subordinare d’ufficio la sospensione condizionale della pena alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività

(Cass., sez. un., 15 giugno 2022, n. 23400)

Il contrasto interpretativo sottoposto all’attenzione delle Sezioni unite concerne il potere del giudice del patteggiamento di subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena, concordata dalle parti, alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, nel caso in cui l’imputato ne abbia già usufruito in precedenza.

segue

 

Secondo un primo orientamento, la richiesta di concessione del beneficio nel rito speciale implica il consenso dell’imputato alla subordinazione del beneficio all’adempimento di uno degli obblighi previsti dall’art. 165, comma 1, c.p., essendo una prescrizione che il giudice deve obbligatoriamente disporre a norma del secondo comma del medesimo articolo (Cass., sez. III, 22 ottobre 2019, n. 7604; Cass., sez. V, 13 novembre 2019, n. 49481; Cass., sez. VI, 24 aprile 2018, n. 19882). La deroga al principio dell’intangibilità dell’accordo è giustificata dal carattere cogente della disposizione; la dimensione obbligatoria dell’istituto configura l’imposizione come una conseguenza necessaria della richiesta di rinnovazione del beneficio e inclusa nell’orizzonte dell’accordo comprendente tale rinnovazione (Cass., sez. V, 24 gennaio 2017, n. 13534; Cass., sez. III, 24 ottobre 2019, n. 4426).

Un diverso orientamento ritiene preclusa al giudice del patteggiamento la possibilità di subordinare la sospensione condizionale della pena all’adempimento di uno degli obblighi previsti dall’art. 165, primo comma, c.p., qualora questo non abbia costituito oggetto dell’accordo tra le parti, anche quando trattasi di prescrizione che il giudice deve necessariamente disporre a norma del secondo comma del medesimo articolo (Cass., sez. II, 10 aprile 2019, n. 25349; Cass., sez. VI, 20 ottobre 2015, n. 44775). Si esclude la configurabilità di un consenso implicito alla subordinazione della sospensione condizionale della pena all’adempimento a uno degli obblighi di legge, anche quando tale subordinazione sia imposta dalla legge, poiché il contenuto discrezionale della condizione apposta alla concessione del beneficio deve formare oggetto in maniera esplicita del consenso e dell’accordo.

La questione controversa investe la definizione delle condizioni di operatività dell’art. 165, comma 2, c.p., secondo cui la sospensione condizionale della pena, se già concessa, deve essere subordinata all’adempimento di uno degli obblighi indicati dal comma 1. Con la l. n. 145/2004, il legislatore ha integrato l’elenco degli adempimenti indicati nel comma 1, aggiungendovi la possibilità per il giudice di ordinare l’esecuzione di attività non retribuita in favore della collettività, ma solo se l’imputato non vi si opponga. Le Sezioni Unite non condividono l’approccio metodologico del primo indirizzo, che individua nella norma sostanziale (l’art. 165, comma 2, c.p.) il fulcro esclusivo per la risoluzione della questione controversa, che rimarrebbe dunque di fatto indifferente al rito con il quale si procede. Secondo la Corte, invece, il profilo problematico non attiene alla latitudine delle prescrizioni, quanto alla presunta prestazione implicita del consenso, non solo all’accordo sulla pena, ma anche alla subordinazione della concessione del beneficio ad una delle prescrizioni imposte dall’art. 165. La premessa concettuale impone, dunque, di ricostruire la natura e la ratio del procedimento speciale. Secondo un consolidato principio di diritto, la richiesta di applicazione della pena e l’adesione prestata dall’altra parte concretano un negozio bilaterale di natura processuale che si perfeziona con la ratifica del giudice; peraltro il principio trova conferma nella rimodulazione della disciplina dell’impugnazione della sentenza di patteggiamento introdotta nel comma 2-bis dell’art. 448 c.p.p. ad opera della l. 23 giugno 2017, n. 103. La Corte costituzionale, inoltre, in più occasioni ha evidenziato l’inscindibile legame esistente tra la componente negoziale del rito e lo spazio cognitivo del giudice (C. cost. n. 66/1990; C. cost. n. 251/1991; C. cost. n. 155/1996 e C. cost. n. 394/2002).

Nel contesto dei rapporti tra accordo negoziale e controllo giudiziale, le Sezioni unite hanno successivamente definito i poteri del giudice del patteggiamento in ordine alla concessione della sospensione condizionale della pena. Secondo la giurisprudenza, l’equilibrio del modello processuale consiste nella necessaria corrispondenza tra le due componenti menzionate. Se l’orizzonte decisionale del giudice è definito dal contenuto dell’accordo raggiunto dalle parti, residuano in suo favore spazi cognitivi autonomi, limitatamente a quei contenuti estranei, per loro natura o per espressa volontà della legge, alla struttura negoziale del rito. La intima natura del patteggiamento non è, dunque, rinvenibile esclusivamente nella retribuzione premiale della rinunzia dell’imputato a contestare l’accusa e il contraddittorio sulla prova, ma è definita dalla prevedibilità in concreto della decisione, ossia dalla possibilità offerta allo stesso imputato di avere il controllo sul contenuto della sentenza. L’imputato, nel disporre dei propri diritti costituzionalmente garantiti, deve potersi determinare nella piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche della sua rinunzia. Consapevolezza che non può ritenersi sussistente se la decisione che recepisce l’accordo sulla pena può assumere contenuti che trascendono quelli concordati o predeterminati dalla legge (che, in quanto tali, sono prevedibili dalle parti al momento in cui concludono l’accordo). L’osservazione si pone in linea con la decisione della Corte e.d.u. secondo cui la rinunzia dell’imputato alle proprie prerogative processuali, in cambio di una riduzione della pena, può ritenersi conforme al sistema convenzionale purché, oltre alla previsione di un controllo giudiziale sul contenuto dell’accordo e sulla correttezza delle modalità con le quali è stato raggiunto, venga garantita la consapevolezza dell’imputato sulle conseguenze legali del medesimo accordo (Corte e.d.u., 29 aprile 2014, Natsvlishvili e Togonidze c. Georgia).

Secondo le Sezioni unite, che esplorano il contenuto ed i limiti del controllo del giudice sull’accordo, il giudice del patteggiamento non può subordinare ‘motu proprio’ la concessione della sospensione condizionale concordata dalle parti ad uno degli obblighi previsti dall’art. 165 c.p., nemmeno nel caso di reiterazione del beneficio. La scelta della prescrizione da imporre e la modulazione del relativo contenuto non sono elementi predeterminati dalla legge, ma rimessi alla discrezionalità del decidente, con la conseguente sottrazione alle parti della possibilità di prevedere come verrà in concreto esercitato il relativo potere. La determinazione della prestazione e delle sue modalità di esecuzione non possono considerarsi la mera conseguenza di un automatismo normativo che l’orientamento maggioritario (erroneamente) ritiene implicitamente accettato all’atto della subordinazione dell’accordo al riconoscimento della sospensione condizionale. La cogenza della subordinazione della concessione, per la seconda volta, della sospensione condizionale della pena ad uno degli obblighi previsti dal primo comma dell’art. 165 c.p., impone il rigetto integrale della richiesta di patteggiamento subordinata, quando il giudice ritiene che il beneficio non possa essere riconosciuto in maniera incondizionata.

Le parti, che intendano subordinare l’efficacia della richiesta di patteggiamento alla concessione della sospensione condizionale della penale (art. 444, comma 3, c.p.p.), devono pattuire anche le condizioni che consentono di concedere il beneficio nel rispetto del citato secondo comma dell’art. 165, c.p. Rientra nel potere negoziale delle parti non solo l’indicazione dell’obbligo cui subordinare la concessione del beneficio ma anche il suo contenuto; in relazione alla prestazione di attività non retribuita, le parti hanno la facoltà di concordarne durata e modalità di esecuzione, vincolando il giudice alla loro pattuizione. In questi casi, il giudice può recepire l’accordo nella sua totalità oppure rigettare integralmente la richiesta di patteggiamento, valutando incongrue le scelte operate dalle parti.

Le Sezioni unite, dunque, affermano il seguente principio di diritto: “Nel procedimento speciale di cui all’art. 444 c.p.p., l’accordo delle parti sulla applicazione di una pena detentiva di cui viene richiesta la sospensione condizionale deve estendersi anche agli obblighi ulteriori eventualmente connessi ‘ex lege’ alla concessione del beneficio, indicandone, quando previsto, la durata, con la conseguenza che, in mancanza di pattuizione pure su tali elementi, la sospensione non può essere accordata e, qualora al suo riconoscimento sia stata subordinata l’efficacia della stessa richiesta di applicazione della pena, questa deve essere integralmente rigettata”.

Le Sezioni unite, poi, indagano il profilo relativo all’applicabilità del limite di durata massima di mesi sei, stabilito dall’art. 54, comma 2, d.lgs. n. 274/2000, per la pena alternativa del lavoro di pubblica utilità prevista per i reati di competenza del giudice di pace, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività a cui il giudice può subordinare la sospensione condizionale della pena, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 165 c.p.

Secondo un primo orientamento, la durata della prestazione di attività non retribuita è soggetta al limite massimo di sei mesi, per sei ore settimanali, previsto per la pena del lavoro di pubblica utilità, salvo che il condannato, per abbreviare i tempi di esecuzione, chieda lo svolgimento della prestazione per una durata settimanale superiore (Cass., sez. V, 6 dicembre 2019, n. 8454; Cass., sez. IV, 5 marzo 2015, n. 20297). Un secondo indirizzo interpretativo ritiene che la durata massima della prestazione trovi la sua disciplina esclusivamente nella disposizione di cui all’art. 165, comma 1, c.p., per la quale la stessa corrisponde alla durata della pena sospesa (Cass., sez. III, 16 settembre 2019, n. 6519; Cass., sez. VII, 14 dicembre 2018, n. 6898).

Le Sezioni unite condividono il primo orientamento, ma ampliano l’orizzonte applicativo, ritenendo che la durata massima della prestazione di attività non retribuita è soggetta a due limiti massimi cumulativi. La prestazione, cioè, non può essere applicata per una durata eccedente la misura della pena sospesa, come previsto dal primo comma dell’art. 165 c.p., e comunque non può avere una durata superiore ai sei mesi fissati dal secondo comma dell’art. 54, d.lgs. n. 274/2000, qualora l’entità della pena sospesa sia più elevata. In tal senso depone l’interpretazione testuale del paradigma normativo costituito dagli artt. 165 c.p., 54 d.lgs. 274/2000 coordinati tra di loro dall’art. 18-bis disp. coord. trans. c.p. Tale interpretazione risulta confermata, inoltre, da riferimenti di ordine sistematico. Quando il legislatore ha inteso fissare in maniera autonoma i limiti di durata del lavoro di pubblica utilità in misura corrispondente alla pena che la sua prestazione è deputata a sostituire, lo ha fatto espressamente (artt. 73, comma 5-bis, d.p.r. n. 309/1990 e 186, comma 9-bis, d.lgs. n. 185/1992), affermando di voler derogare a quanto previsto dall’art. 54, precisazione invece assente sia nell’art. 165 c.p. sia nell’art. 18-bis disp. coord. trans. c.p. Le deroghe, peraltro, sono individuate in riferimento a contesti normativi nei quali al lavoro di pubblica utilità è attribuita una funzione propriamente sanzionatoria, che appare ragione sufficiente a giustificare la scelta legislativa. Attraverso il rinvio operato dall’art. 18-bis disp. att. coord. trans. c.p., il legislatore ha introdotto un correttivo idoneo ad evitare che il parametro di commisurazione della durata della prestazione, cui viene subordinata la concessione della sospensione condizionale, indicato nel primo comma dell’art. 165 c.p., possa tradursi in un eccesso di afflittività di una misura che non è destinata a sostituire la pena. Naturale corollario di tale affermazione è l’applicabilità di entrambi i limiti e la loro cumulabilità. Ne consegue che “La durata della prestazione di attività non retribuita a favore della collettività soggiace a due limiti massimi cumulativi: quello di sei mesi, previsto dal combinato disposto degli artt. 18-bis disp. coord. trans. c.p. e 54, comma 2, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, e, se inferiore, quello stabilito dall’art. 165, primo comma, c.p. in relazione alla misura della pena sospesa”.

Al procedimento di prevenzione è applicabile il motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, c.p.p.

(Cass., sez. un., 6 luglio 2022, n. 25951)

La Suprema Corte è intervenuta in merito allapplicabilità della fattispecie di ricusazione introdotta, con pronuncia additiva, dalla Corte costituzionale con sentenza n. 283 del 14 luglio 2000, che ricorre allorquando il giudice, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto. Nella motivazione, il Giudice delle leggi aveva affermato che il pregiudizio per limpar­zialità-neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità di una misura cautelare, sia, per converso, nel caso in cui il rapporto di successione temporale tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata sia invertito, avendo il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un imputato del delitto di associazione di tipo mafioso, già espresso, in un procedimento di prevenzione, una valutazione sullesistenza dellassociazione e sullappartenenza alla stessa della persona imputata nel successivo processo penale.

Un primo orientamento, nellindividuare il perimetro della decisione della Corte costituzionale, ritiene applicabili al procedimento di prevenzione le norme in tema di incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice dettate dagli artt. 34, comma 1, 35, 36, comma 1, lett. a), b), d), e), f), h) e 37, comma 2, c.p.p., ma non le disposizioni di cui allart. 34, diverse dal comma 1. Le argomentazioni valorizzano la particolare architettura del procedimento di prevenzione, il cui modello legale non conosce una separazione funzionale tra le diverse fasi. Determinanti appaiono le peculiarità di un giudizio modellato sul procedimento di esecuzione, destinato allapplicazione delle misure di sicurezza. Il parallelismo tra giudice dellesecuzione e quello della prevenzione esclude lapplicabilità della ricusazione al secondo al pari della indiscussa non ricusabilità del primo. Le pronunce che escludono leffetto pregiudicante della prima decisione sulla seconda, adottata dal medesimo giudice, per inapplicabilità al procedimento di prevenzione della causa di ricusazione prevista dallart. 37, comma 1, lett. b), c.p.p. nellipotesi introdotta dalla sentenza della C. cost., sono calibrate sulla medesima argomentazione: il giudizio retrospettivo effettuato dal giudice della prevenzione non ricostruisce uno specifico fatto di reato, ma conosce le condotte della persona in funzione della formulazione, positiva o negativa, di una prognosi di pericolosità attuale e /o di illecita accumulazione patrimoniale (Cass., sez. V, 19 febbraio 2018, n. 23629; Cass., sez. II, 11 gennaio 2019, n. 37060; Cass., sez. VI, 13 settembre 2018, n. 51793; Cass., sez. I, 27 maggio 2016, n. 43081).

Un secondo orientamento ritiene invece applicabile al procedimento di prevenzione anche la causa di ricusazione di cui al comma 1 dellart. 37, c.p.p. Le premesse teoriche di tale conclusione sono diverse; dalla natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione allincidenza dellistituto della ricusazione sul valore di rilievo costituzionale, quale limparzialità del giudice. Lopzione interpretativa valorizza la progressiva estensione al giudizio di prevenzione di istituti di garanzia tipici del processo di cognizione (tra cui, lobbligo di correlazione tra contestazione e pronuncia, quello di preventiva contestazione delladdebito, quello della pubblicità delludienza), secondo uno statuto costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. add. C.e.d.u.) che considera il significativo grado di compromissione dei diritti di proprietà e di iniziativa economica e che non può conseguentemente abdicare ad un principio cardine di garanzia e di rilievo primario, come quello di imparzialità del giudice (Cass., sez. V, 16 ottobre 2008, n. 3278; Cass., sez. I, 10 dicembre 2020, n. 4330).

In via preliminare, la Suprema Corte ricorda che ladeguamento del sistema della prevenzione ai principi costituzionali e convenzionali, determinato dalle novelle legislative e dalle pronunce giurisprudenziali, ha ridefinito non solo il perimetro sostanziale della materia ma anche quello procedimentale, virando verso una progressiva giurisdizionalizzazione del procedimento, accompagnata da un graduale allineamento ai principi generali del giudizio ordinario e poi a quello del giusto processo. Il percorso di adeguamento al modello processuale ordinario è stato fortemente contrastato dal pregiudizio ermeneutico fondato sul rapporto di autonomia tra procedimento di prevenzione e processo ordinario.

La Corte condivide il secondo orientamento che estende lapplicabilità della causa di ricusazione anche al rito della prevenzione. Le Sezioni Unite ricordano, innanzitutto, che la Corte costituzionale, con sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019, ha esplicitamente affermato come le misure di prevenzione, che non hanno natura punitiva, «possono considerarsi legittime, in quanto rispettino i requisiti cui lart. 13 Cost. subordina la liceità di ogni restrizione alla libertà personale. Tra questi vanno sottolineate la riserva assoluta di legge (rinforzata, stante lesigenza di predeterminazione legale dei casi e modi della restrizione) e la riserva di giurisdizione».

Sullo sfondo si pone la ritenuta giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, in virtù dellattitudine della materia ad incidere sui diritti fondamentali quali la libertà personale, la libertà di circolazione e il diritto di proprietà e di iniziativa economica. Losservanza delle regole del giusto processo attribuisce un ruolo ed una funzione primaria allimparzialità del giudice, il cui difetto comporterebbe inevitabilmente lo svuotamento sostanziale del significato proprio di tutte le regole e le garanzie processuali, che si risolverebbero in un mero e facoltativo simulacro. Del resto, limparzialità del giudice è tra i naturalia di qualsiasi forma di processo, come esplicitamente affermato dallart. 111, comma 2, Cost., secondo cui «ogni processo si svolge ... davanti a giudice terzo e imparziale». Daltro canto, lart. 6, § 1, Convenzione e.d.u., a sua volta, sancisce il diritto di ogni individuo ad essere giudicato da parte di un tribunale indipendente ed imparziale, essendosi precisato che limparzialità va apprezzata come assenza di pregiudizi o preconcetti, suscettibile di accertamento in diversi modi. La rilevanza dellattributo dellimparzialità trova ulteriore esplicito riconoscimento, come diritto dellindividuo, anche nellart. 47 della Carta dei diritti fondamentali dellUnione Europea («diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale») e nellart. 14, par. 1 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 («Ogni individuo ha diritto ad unequa e pubblica udienza dinanzi a un tribunale competente, indipendente e imparziale, stabilito dalla legge»).

Le argomentazioni a sostegno del diverso orientamento non risultano dirimenti e condivisibili. In primo luogo, infatti, non è decisiva la tesi secondo cui nella prevenzione non vi è alcuna differenziazione di fasi e vi è coincidenza tra il giudice della cautela e quello della decisione di primo grado. L’osservazione, infatti, si fonda su presupposti errati: le misure anticipatorie adottate in sede di prevenzione non attengono alla cautela personale, ma a quella patrimoniale e neppure nel processo ordinario, il giudizio sulla cautela reale è pregiudicante, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione. Non è condivisibile neppure lassunto secondo il quale il rapporto pregiudicante/pre­giudicabile sarebbe stato fissato dalla citata C. cost. sent. n. 283/2000in termini testuali ed inequivocicome unidirezionale e non bidirezionale, nel senso che la decisione sulla prevenzione potrebbe pregiudicare quella successiva di merito e non viceversa. Secondo le Sezioni unite, la Corte costituzionale ha espressamente riconosciuto che: «il pregiudizio per limparzialità-neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra il procedimento penale e quello di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari (C. cost. sent. n. 306/1997), sia quando il rapporto di successione temporale tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata sia invertito, per avere il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un imputato del delitto di associazione di stampo mafioso, già espresso nellambito del procedimento di prevenzione una valutazione sulle­sistenza dellassociazione e sullappartenenza ad essa della persona imputata nel successivo processo penale»: regola di giudizio che «non muta secondo il rapporto di successione temporale che in concreto può darsi tra luno e laltro procedimento» (C. cost. ord. n. 178/1999).

In conclusione, le Sezioni unite affermano il seguente principio di diritto “Al processo di prevenzione è applicabile il motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, c.p.p. – come risultante a seguito dell’inter­vento additivo di C. cost. 14 luglio 2000, n. 283 – nel caso in cui il giudice abbia, in precedenza, espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale”.

I limiti di impignorabilità di cui all’art. 545 c.p.c. si applicano alla confisca per equivalente e al sequestro ad essa finalizzato

(Cass., sez. un., 7 luglio 2022, n. 26252)

La questione interpretativa sottoposta allattenzione delle Sezioni unite investe i rapporti tra i limiti alla pignorabilità dei beni previsti dalla disciplina civilistica e il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente.

Un primo orientamento sostiene lapplicabilità al sequestro, finalizzato alla confisca per equivalente, dei limiti di pignorabilità previsti dallart. 545 c.p.c., in quanto regola di carattere generale, espressione dei diritti inalienabili della persona consacrati negli artt. 2 e 38 Cost. Si sottolinea, in particolare, la necessità di una lettura costituzionalmente orientata delle norme in materia di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, che assicuri loperatività, anche in tali casi, dei medesimi limiti di sequestrabilità e pignorabilità di cui all’art. 545 c.p.c., che, pur non richiamati espressamente dall’art. 321 c.p.p. (a differenza dell’art. 316 c.p.p. in tema di sequestro conservativo), garantiscono al lavoratore un minimo vitale per le sue esigenze primarie. Tale indirizzo esclude che la confusione delle somme, corrisposte a titolo di emolumenti retributivi o pensionistici con il restante patrimonio mobiliare, possa avere una valenza ostativa allapplicazione dei predetti limiti, a condizione, però, che risulti attestata la causale dei versamenti (Cass., sez. VI, 16 aprile 2008, n. 25168; Cass., sez. III, 7 dicembre 2018, n. 17386; Cass., sez. III, 14 marzo 2019, n. 14606; Cass., sez. VI, 13 marzo 2019, n. 13422; Cass., sez. VI, 8 gennaio 2020, n. 8822).

Secondo un diverso indirizzo interpretativo, i limiti previsti dagli artt. 545 e 546 c.p.c. non sono applicabili al processo penale, in quanto norme che, volte a regolare i rapporti tra i privati, prevedono una eccezione al principio generale della responsabilità patrimoniale. Al contrario, le disposizioni riguardanti la confisca o il sequestro per equivalente trovano fondamento nellinteresse pubblicistico, volto a sanzionare una condotta illecita (Cass., sez. II, 2 ottobre 2019, n. 10655).

Un terzo orientamento intermedio ritiene applicabili i limiti di pignorabilità sulla base del criterio temporale della anteriorità o meno della corresponsione delle somme qualificate rispetto al momento di adozione del sequestro. Se i limiti di pignorabilità di cui all’art. 545 c.p.c. attengono solo ai crediti vantati nei confronti del datore di lavoro, è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente delle intere somme percepite dal lavoratore a titolo di credito di lavoro o di pensione solo allorché queste siano già confluite nella sua disponibilità e siano ormai confuse con il patrimonio mobiliare dello stesso (Cass., sez. III, 20 novembre 2015, n. 12902; Cass., sez. III, 7 aprile 2016, n. 44912).

In via preliminare, le Sezioni unite escludono la rilevanza dellorientamento intermedio che muo­ve da postulati che riguardano un piano diverso rispetto a quello comune ai due indirizzi contrapposti. In particolare, linterpretazione è ancorata su un piano preliminare interno alla stessa interpretazione della norma processualcivilistica che si ritiene, sulla base di principi già enunciati dalla Corte civile, non operante laddove le somme di denaro, accreditate sul conto corrente, finiscano per perdere la loro identità perché confuse nel patrimonio del lavoratore o pensionato. Viene dunque in rilievo, a ben vedere, non un problema di rapporti tra norme esecutive civili e norme cautelari penali, quanto un problema di non operatività in radice dello stesso art. 545 cit. tale da rendere superfluo interrogarsi sullapplicabilità di limiti, già, evidentemente, giudicati insussistenti, al sequestro e alla confisca.

Nel condividere il primo indirizzo interpretativo, le Sezioni unite valorizzano la portata generale della norma contenuta nellart. 545 c.p.c. che deve trovare applicazione anche allesecuzione derivante dal sequestro preventivo in virtù della diretta discendenza da principi di ordine costituzionale. Le Sezioni unite condividono lesigenza di una ricostruzione interpretativa costituzionalmente orientata, in considerazione della inviolabilità, anche in sede penale, dei valori della dignità della persona, della solidarietà sociale ed economica, e del diritto del lavoratore ai mezzi indispensabili ad assicurare a sé stesso e alla famiglia unesistenza libera e dignitosa, a presidio dei quali è posto il divieto di pignoramento dei crediti indicati dall’art. 545 c.p.c. Anche in sede civile limpignorabilità parziale dei crediti indicati dalla norma citata è stata ritenuta quale espressione della tutela dellinteresse di natura pubblicistica consistente nel garantire al pensionato i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita, previsti non solo dallart. art. 38 Cost., ma anche dallart. 34, comma 3, della Carta dei diritti fondamentali del­lUnione Europea. La Corte costituzionale ha, inoltre, affermato che “la necessità di garantire questo minimum vitale può giustificare la compressione del diritto di rivalsa dei creditori sulla pensione, ma il sacrificio non può essere assoluto, bensì proporzionato allentità funzionale ad assicurare il rispetto del disposto costituzionale” (C. cost. ord. n. 315/1999; C. cost. ord. n. 91/2017; C. cost. ord. n. 202/2018; C. cost. sent. n. 248/2015). Lesigenza di un bilanciamento tra la finalità di pubblico interesse perseguita con il provvedimento di sequestro o di confisca per equivalente e linteresse del privato connesso ai citati valori costituzionalmente rilevanti trova una legittimazione sia nella giurisprudenza della Corte e.d.u. (Corte e.d.u., Paulet c. Regno Unito del 13 maggio 2014; Uzan e altri c. Turchia del 05/03/2019) che nelle fonti sovranazionali (art. 52 CDFUE; i considerando nn. 17, 18 e 41, relativi alla necessità di proporzionalità della misura e alla esigenza di evitare una privazione eccessiva per linteressato, della Direttiva 2014/42/UE in tema di riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca; il n. 21 del relativo Regolamento 2018/1805, sempre in ordine al rispetto, in sede di emissione del provvedimento di confisca, dei principi di necessità e proporzionalità).

Il principio di proporzionalità, adeguatezza e gradualità rappresenta, come già sostenuto dalle Sezioni unite, il canone ermeneutico delle disposizioni in tema di sequestro che rileva sotto il profilo dellonere motivazionale del giudice, tenuto a dare adeguatamente conto della impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva, al fine di evitare une­sasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata, secondo, dunque, un protocollo applicabile anche al sequestro preventivo. Daltro canto, si è precisato che il canone di proporzionalità non può esaurire il suo rilievo nel mero divieto di attingere beni di valore superiore al profitto confiscabile stimato.

Se, dunque, lesigenza di assicurare il minimo vitale è la chiave di volta delle disposizioni in tema di disciplina della pignorabilità dei crediti da lavoro e dei trattamenti pensionistici (indubbiamente equiparabili tra loro sotto tale profilo), la conclusione per cui tale disciplina deve valere anche in caso di ablazione da sequestro per equivalente rappresenta il fisiologico e necessitato epilogo delle premesse. Largomento testuale, che valorizza il mancato richiamo, nella disposizione dellart. 321 c.p.p. ai “limiti” entro i quali la legge consente il pignoramento dei beni, espressamente previsto dal comma 1 dellart. 316 in tema di sequestro conservativo, non risulta determinante; in particolare, secondo le Sezioni unite, è opportuno valorizzare la disposizione contenuta nellart. 104 disp. att. c.p.p. che, nel regolare lesecuzione del sequestro preventivo, dispone che la stessa abbia luogo, nelle “forme prescritte dal codice di procedura civile per il pignoramento presso il debitore o presso il terzo in quanto applicabili”.

In conclusione, si afferma il seguente principio di diritto: “I limiti di impignorabilità delle somme spettanti a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a titolo di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengano luogo di pensione o di assegno di quiescenza, previsti dall’art. 545 c.p.p. si applicano anche alla confisca per equivalente ed al sequestro ad essa finalizzato”.