Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
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La restrizione dell´imputato per altra causa, comunicata in udienza, integra comunque un´ipotesi di legittimo impedimento a comparire (di Chiara Fanuele, Professoressa associata di Diritto processuale penale – Università di Siena)


Con la pronuncia in esame, le sezioni unite avallano l’orientamento, spesso disatteso, secondo cui la coercizione personale subita dall’imputato posto agli arresti domiciliari per altra causa, è una condizione individuale che, se documentata o comunque resa nota al giudice procedente, in qualunque tempo, integra un impedimento a comparire che impone al medesimo giudice di rinviare ad una nuova udienza e disporre la traduzione del prevenuto stesso. Ciò induce ad auspicare che la sentenza in commento rappresenti un chiaro approdo ermeneutico per la giurisprudenza successiva.

Parole chiave: legittimo impedimento – imputato agli arresti domiciliari – rinvio ad una nuova udienza – traduzione imputato.

The defendant’s restriction due to some other cause, which is reported during the hearing, constitutes in any case a legal impediment to appear in court

This ruling of Joint Chambers of the Court of Cassation confirms the often-ignored legal guidance, according to which the individual condition of the defendant put under house arrest by some other cause, represents an impediment to appear in court. Once such impediment has been documented or notified at any time to the referring court, the court itself is forced to postpone the hearing and to order the transfer of the defendant. This leads us to hope that the judgement represents a clear hermeneutic approach for subsequent jurisprudence.

Sopravvenuto stato di detenzione domiciliare dell’imputato e giudizio in assenza MASSIMA: La restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, documentata o, comunque, comunicata al giudice procedente, in qualunque tempo, integra un impedimento legittimo a comparire che impone al medesimo giudice di rinviare ad una nuova udienza e disporne la traduzione   [Omissis] RITENUTO IN FATTO 1. Il 21 settembre 2020 la Corte d’appello di Catanzaro ha confermato in punto di responsabilità la sentenza del Tribunale di Crotone in data 20 dicembre 2017 che aveva ritenuto (Omissis) colpevole del reato di evasione, per essersi allontanato senza autorizzazione dal luogo ove era sottoposto agli arresti domiciliari, ed ha ridotto la pena inflitta ad anni uno di reclusione. 2. Nell’interesse di (Omissis) ha proposto ricorso il difensore, che denuncia quanto segue: 2.1. In primo luogo, violazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., oltre che vizio di motivazione, con riferimento agli artt. 178, comma 1, lett. c) e 179 cod. proc. pen., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto di rigettare l’eccezione di nullità della pronuncia di primo grado. Si rileva, in fatto, che nel corso del primo giudizio, a cui l’imputato non ha partecipato, la difesa aveva segnalato la sottoposizione del (Omissis) agli arresti domiciliari per altra causa. Il Tribunale aveva, pertanto, disposto il rinvio dell’udienza, senza emettere ordine di traduzione dell’interessato per quella successiva, che si era svolta in sua assenza, pur nel permanere delle condizioni di restrizione. Si sostiene che erroneamente la Corte territoriale, nel rigettare l’eccezione di nullità del primo giudizio, ha ritenuto insussistente il dovere del giudice di disporre la traduzione dell’interessato, ritenendo che spettasse all’imputato attivarsi presso il giudice del diverso procedimento in cui era stata applicata la misura, al fine di ottenere l’autorizzazione a recarsi in udienza, pur in assenza di disposizione di legge in tal senso. Si richiamano a sostegno dell’assunto precedenti di legittimità che qualificano come legittimo impedimento a comparire qualsiasi limitazione della libertà personale ed impongono la concessione di un rinvio del processo per consentire la presenza dell’interessato in udienza, a meno che non risulti un espresso rifiuto di questi a partecipare alla stessa. 2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., oltre che vizio di motivazione, in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato. Si assume che l’interessato non si era mai sottratto al controllo degli organi competenti, poiché si era limitato a recarsi nel ristorante gestito dalla figlia, sito nei pressi dell’abitazione ove avrebbe dovuto permanere [continua..]

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SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Il contrasto interpretativo preesistente - 3. La soluzione prospettata dalle sezioni unite - 4. Conclusioni - NOTE


1. Premessa

La sentenza in commento si segnala perché, specificamente parlando dell’imputato, detta alcuni argomenti fondamentali nel senso della riconducibilità al «legittimo impedimento», fra le altre, dell’ipo­tesi in cui egli si trovi agli arresti domiciliari per causa diversa dal procedimento de quo, nella direzione – finalmente – di un’attuazione effettiva del diritto del prevenuto a essere presente nel «suo» processo. Si tratta, infatti, di un caso a cui proposito la giurisprudenza è stata a lungo oscillante, per quanto concerne l’an e le condizioni della sua rilevanza impediente. Nella fattispecie, poi, le sezioni unite – disattendendo gli orientamenti precedentemente invalsi – optano per la parificazione degli effetti delle forme di restrizione, carceraria o domiciliare, ai fini della valutazione di suddetto impedimento.


2. Il contrasto interpretativo preesistente

Secondo un primo orientamento (già consolidatosi in ordine alla detenzione per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo de quo) [1], una volta che l’imputato fosse stato regolarmente citato, spetterebbe a lui stesso (o, in alternativa, al suo difensore) informare il giudice di tale circostanza, ai fini del proprio tempestivo trasferimento. Insomma, se nei confronti dell’imputato, già citato in giudizio, “a piede libero”, per un certo reato, sia poi sopravvenuto arresto per altra imputazione, tale circostanza, laddove non sia desumibile dagli atti né altrimenti comunicata, dovrà essere pienamente provata, così da far ricadere sull’imputato l’onere di tale dimostrazione. Diverso avviso è, invece, quello espresso da altro indirizzo [2] – basato su quanto già affermato dalle sezioni unite [3] – secondo cui l’imputato, già convocato in giudizio in stato di libertà, e successivamente tratto in arresto e detenuto per causa differente, versa in situazione di «legittimo impedimento». Di conseguenza, del prevenuto stesso va ordinata la traduzione, né può procedersi senz’altro in sua assenza, essendo necessaria a questo fine un’esplicita rinuncia della persona imputata a comparire nell’u­dienza del processo a suo carico. Si tratta – dunque – di una soluzione più rigorosamente garantista: stando alle clausole pattizie riguardanti la tutela dei diritti umani (v. artt. 6 §§ 1 e 2 lett. c) Cedu; art. 14 Patto intern. dir. civ. pol. §§ 1 e 3 lett. d) e al principio costituzionale che sancisce il contraddittorio quale estrinsecazione del diritto di difesa (art. 111, comma 2, Cost.), è necessario un esplicito assenso al giudizio in absentia, onde appare inaccettabile che un simile rito possa svolgersi sulla sola base di una rinuncia alla comparizione desunta dalla mera inerzia del prevenuto [4]. Il contrasto evidenziato riguarda anche la possibilità di estendere i suesposti principi all’ipotesi di soggetti la cui libertà sia comunque limitata da misure meno “afflittive” della custodia carceraria; in particolare, ad es., da quella degli arresti domiciliari. Secondo un’esegesi, il sopravvenuto stato di detenzione, anche se non in carcere, integra comunque un’ipotesi di legittimo impedimento a [continua ..]


3. La soluzione prospettata dalle sezioni unite

La Suprema Corte risponde in senso affermativo alla questione circa la riconducibilità della detenzione per altra causa dell’imputato tra le ipotesi di suo «legittimo impedimento» a comparire; e ciò fa con una motivazione ineccepibile nei suoi passaggi argomentativi, tale quindi da fornire lo spunto per alcune osservazioni circa l’effettività della tutela giuridica concernente il diritto del prevenuto a essere presente nel processo a suo carico. Innanzitutto, nella sentenza in commento, le sezioni unite sottolineano come la conoscenza, da parte del giudice procedente, di un legittimo impedimento dell’imputato precluda la dichiarazione di assenza; di conseguenza, in tal caso, la celebrazione dell’udienza è consentita solo se sia stata espressa dal prevenuto impossibilitato a comparire la volontà che si proceda in sua assenza, o, se egli sia detenuto, abbia espresso univoco rifiuto di partecipare. In sostanza, l’avviso della Corte regolatrice sembra essere nel senso che, dopo la modifica dell’art. 175, comma 1, c.p.p. (attuata dall’art. 1, comma 1, l. 22 aprile 2005, n. 60), la possibilità di procedere validamente in assenza dell’imputato postula l’inequivocità della rinuncia a comparire espressa dal medesimo; onde appare incompatibile con un legittimo giudizio in absentia il caso in cui si sia verificata, in capo al prevenuto, una circostanza che gl’impedisca di presentarsi in udienza. Di conseguenza, il giudice, laddove gli sia stato segnalato il sopravvenire di una simile evenienza, di questa dovrà verificare l’effettiva valenza impossibilitante [7]. Laddove – invece – la sopravvenuta detenzione domiciliare per altra causa sia risultata inizialmente ignota al giudice procedente, ma questi successivamente, prima che sia stato compiuto l’accertamento relativo alla regolare costituzione delle parti abbia comunque avuto conoscenza di un simile impedimento, la situazione del prevenuto non consentirà al giudice di procedere legittimamente in sua assenza; a meno che il prevenuto non abbia espressamente rinunciato a partecipare al processo. Difatti, la legge (a differenza di quanto fa con riguardo al difensore) non onera in alcun modo l’imputato di comunicare tempestivamente il suo sopravvenuto stato di coercizione. Di conseguenza, la sopraggiunta detenzione dell’imputato per altra [continua ..]


4. Conclusioni

In definitiva, il commentatore non può che rallegrarsi dell’annotata decisione: appaiono, senz’altro, plausibili i limiti e le condizioni rigorose fissate dalle sezioni unite per l’accertamento in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi dell’«assenza»; quest’ultima, come un istituto derogatorio rispetto alla regola che richiede in ogni processo la presenza della persona che il rito subisce, deve vedere la sua applicazione sottratta a qualsiasi interpretazione analogica. Insomma, sebbene numerose pronunce, nel passato, si siano espresse in senso difforme, pare ineccepibile la soluzione qui accolta dalla Suprema Corte, equiparando, in modo chiaro e inequivocabile, i rispettivi effetti delle due forme di coercizione personale (quella carceraria e quella domiciliare), ai fini della loro valutabilità come legittimi impedimenti alla partecipazione processuale da parte dell’impu­tato. Del resto, – aggiunge la Cassazione – non è possibile subordinare l’esercizio di un simile diritto fondamentale ad oneri che non siano espressamente previsti dalla legge. Difatti, porre a carico dell’imputato, citato nelle forme stabilite per il caso di sua libertà e poi sottoposto a coercizione dipendente da altra causa, ad un onere dalla legge non previsto (quello cioè di attivarsi presso il giudice della cautela), significherebbe configurare la partecipazione dell’imputato come un mero interesse di fatto rilevante solo su iniziativa di parte, così facendo prevalere le esigenze formali di funzionalità e celerità del rito su di una prerogativa fondamentale dell’individuo. Dunque, c’è solo da auspicare che l’interpretazione qui delineata con estrema chiarezza dalle sezioni unite ponga fine ai numerosi contrasti giurisprudenziali in subiecta materia.


NOTE