Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Giudizio in executivis e incompatibilità endoprocessuale (di Paolo Troisi, Ricercatore di Procedura penale – Università di Roma “Tor Vergata”)


La riconosciuta incompatibilità del giudice dell’esecuzione a pronunciarsi, nuovamente, in sede di rinvio, sulla richiesta di ricalcolo della pena “incostituzionale”, nel segnare l’ennesimo superamento dell’assunto per cui giudizi di merito sarebbero estranei al segmento attuativo del comando, ripropone il tema dell’imparzialità della giurisdizione in executivis. L’attuale morfologia dell’esecuzione penale, quale fase autonoma del procedimento, a cui non sono aliene logiche cognitive, rende, in effetti, anacronistica l’assenza di un’incompatibilità funzionale sul modello già delineato dall’art. 34, comma 2-bis, c.p.p.

Parole chiave: giudice dell’esecuzione – incompatibilità – rideterminazione della pena – illegittimità costituzionale.

Judgment in the executive phase and incompatibility of the judge

The Constitutional Court has recognized the incompatibility of the judge of execution to pronounce again, following annulment with referral by the Court of Cassation, on the request for redetermination of the “unconstitutional” penalty. Such recognition represents another overcoming of the assumption that evaluations of merit are extraneous to the executive phase. This raises the issue of the impartiality of executive jurisdiction. The current morphology of criminal execution as an autonomous phase of the proceedings makes, in fact, anachronistic the absence of a functional incompatibility on the model already outlined by art. 34, paragraph 2-bis, c.p.p.

Incompatibilità verticale e rideterminazione della pena “incostituzionale” MASSIMA: Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lett. a), c.p.p., nella parte in cui non prevedono che il giudice dell’esecuzione deve essere diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena, a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata con rinvio dalla Corte di cassazione. PROVVEDIMENTO: [Omissis] RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 20 gennaio 2021 (reg. ord. n. 65 del 2021), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Verona, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 (recte: artt. 3, primo comma, e 111, secondo comma) della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 34 (in realtà: 34, comma 1) e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio in capo al giudice dell’esecuzione che abbia pronunciato ordinanza di rigetto (o di accoglimento) della richiesta di rideterminazione della pena – avanzata a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio – annullata dalla Corte di cassazione. Il giudice a quo, in via subordinata, ha sollevato, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, questioni di legittimità costituzionale nei confronti delle medesime disposizioni, nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio in capo al giudice dell’esecuzione che abbia pronunciato ordinanza di rigetto (o di accoglimento) della richiesta di rideterminazione della pena avanzata a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, dell’art. 73, comma l, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), annullata dalla Corte di cassazione. 1.1. In punto di fatto, il rimettente riferisce di procedere nei confronti di una persona (detenuta in carcere, al momento della proposizione delle questioni di legittimità costituzionale), condannata in ordine al reato di cui agli artt. 73, comma 1, e 80 del d.P.R. n. 309 del 1990 – con sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., dal GIP, in persona del medesimo rimettente, divenuta irrevocabile l’11 gennaio 2019 – alla pena di anni quattro, mesi dieci di reclusione ed euro 25.000 di multa, in relazione alla detenzione a fini di spaccio di [continua..]

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SOMMARIO:

1. La declaratoria - 2. Confini: pena “incostituzionale”, poteri rideterminativi e forza della prevenzione - 3. Risvolti: incompatibilità verticale e decisioni camerali - 4. Segue. Cognizione in executivis e giudizi di merito - 5. Cataloghi incompleti - 6. Prospettive - NOTE


1. La declaratoria

È sul declivio dell’incompatibilità verticale, quella, cioè, conseguente all’evolvere dell’accertamento per gradi successivi di giudizio, che si è consumata l’ennesima interpolazione, per effetto di declaratoria di incostituzionalità, del catalogo dei casi di iudex suspectus per atti compiuti nel medesimo procedimento. La pronuncia additiva ha reputato in contrasto con i principi di uguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.) e di imparzialità (art. 111, comma 2, Cost.) gli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lett. a), c.p.p., nella parte in cui «non prevedono che il giudice dell’esecuzione deve essere diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena, a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata con rinvio dalla Corte di cassazione». L’approdo condivide il medesimo impianto di quello raggiunto, quasi nove anni addietro, in tema di annullamento con rinvio dell’ordinanza resa ex art. 671 c.p.p. [1]. In entrambi i casi, ravvisato in capo all’organo giurisdizionale deputato a intervenire in executivis l’esercizio di poteri aventi sostanziale matrice cognitiva, idonei a radicare la c.d. “forza della prevenzione” [2], la Corte ha constatato che il sistema non garantisce l’alterità del giudice (persona fisica) che di quei poteri sia reinvestito a seguito di rinvio dalla Suprema Corte. L’art. 34, comma 1, c.p.p., in effetti, limita la sua sfera operativa all’evenienza in cui sia resa «sentenza» in un grado del procedimento: solo in tal caso è precluso, allo stesso giudicante, esercitare le funzioni «negli altri gradi» o «partecipare al giudizio di rinvio» (oltre a quello di «revisione»), non anche allorché abbia adottato un’ordinanza. La norma si salda con il disposto dell’art. 623, comma 1, c.p.p., che parimenti esclude la coincidenza soggettiva del giudice del rinvio – con l’autore della decisione annullata – unicamente riguardo alle sentenze (lett. d), limitandosi a stabilire, qualora sia cassata un’ordinanza, che gli atti siano trasmessi «al giudice che l’ha pronunciata» (lett. a). Di qui, l’irragionevole disparità di trattamento [continua ..]


2. Confini: pena “incostituzionale”, poteri rideterminativi e forza della prevenzione

La fattispecie che ha generato l’incidente di costituzionalità s’innesta nel solco tracciato dal diritto vivente in tema di permeabilità del giudicato alla sopravvenuta illegittimità di norma incidente sul trattamento sanzionatorio. Nel caso affrontato, chiamato a ridimensionare – alla luce della più favorevole cornice edittale risultante dalla pronuncia n. 40/2019 [9] – la pena applicata con sentenza di patteggiamento per reati concernenti stupefacenti, il giudice dell’esecuzione, stante il mancato raggiungimento di un nuovo accordo tra le parti e ritenuta la gravità della condotta, aveva rigettato l’istanza, confermando, così, il quantum concordato in fase cognitiva. Reinvestito della decisione, per effetto dell’annullamento con rinvio dell’ordinanza, aveva, poi, rimesso al giudice delle leggi la quaestio relativa al difetto di imparzialità scaturente dal convincimento già espresso. La Corte ha osservato che, se in generale è «nell’attività della cognizione che il giudice del rinvio [...] è esposto alla forza della prevenzione insita nel condizionamento per aver egli adottato il provvedimento impugnato», ciò accade anche in executivis allorché gli sia demandato un «frammento di cognizione» [10]. Il che si verifica quando si tratti di rideterminare la pena “incostituzionale”. Noto è l’ordito coniato, al riguardo, dal case-law [11]: allorché sopraggiunga la declaratoria di incostituzionalità di previsione diversa da quella incriminatrice, idonea a mitigare la risposta punitiva, compete all’organo designato dall’art. 665 c.p.p. rimodulare la pena [12]; a tanto deve provvedere nonostante quella concretamente inflitta rientri nella “nuova” cornice edittale [13] o costituisca mero aumento ex art. 81 c.p. [14]; il ricalcolo non soggiace a criteri aritmetici, ma va formulato secondo gli ordinari indici commisurativi (salva l’evenienza che le parti, quando il processo sia stato definito con sentenza ex art. 444 c.p.p., raggiungano un nuovo accordo e il giudice ritenga congruo il computo rinegoziato) [15]; i dischiusi ambiti valutativi involgono, altresì, la potestà di accordare la sospensione condizionale, ove l’intervento rimuova l’ostacolo al relativo [continua ..]


3. Risvolti: incompatibilità verticale e decisioni camerali

Già all’indomani dell’estensione dell’incompatibilità “discendente” all’annullamento con rinvio dell’ordinanza resa ex art. 671 c.p.p., la dottrina ne aveva colto i riflessi sulla più ampia problematica inerente all’identità del giudice (persona fisica) reinvestito della procedura camerale in sede rescissoria [23]. I precetti normativi, compendiati nel combinato disposto degli artt. 34, comma 1, e 623, lett. a), c.p.p., lasciano, lo si è detto, risicati spazi ad alternative esegetiche, delimitando, chiaramente, il loro raggio alla pronuncia di «sentenza», il primo, e all’annullamento di «ordinanza», il secondo [24]. Trattasi, del resto, di scelta meditata, che affonda le radici nella gestazione dell’art. 61 c.p.p. 1930 [25], diretta, com’è, a «evitare che l’ampliamento dell’area dell’incompatibilità finis[ca] col paralizzare lo svolgimento del­l’at­tività giudiziaria» [26]. Significativo è rilevare che mai alcun vuoto di tutela è stato ravvisato, in tema, dagli orientamenti di legittimità, che hanno, al contrario, pienamente metabolizzato i calcoli di “politica processuale” sottesi all’assetto. Attraverso sedimentati percorsi ermeneutici si è sempre esclusa ogni aporia sistemica nella medesimezza del giudicante chiamato a pronunciarsi a seguito di annullamento dell’ordinanza resa in fase esecutiva [27] o al termine della procedura archiviativa [28]; ciò perché si tratterebbe di momenti decisori non rientranti nell’orbita del “giudizio di merito”, non inquadrabili, pertanto, come siti “pregiudicabili”. La fluidità dell’argomento, tuttavia, diviene tangibile ove si consideri, da un lato, che l’approdo – poi clamorosamente sconfessato dal giudice delle leggi [29] – era stato predicato anche con riferimento al vaglio preteso dall’art. 671 c.p.p. [30]; dall’altro, che a diverso esito si è giunti, seppur a seguito di accidentato iter, con riferimento all’udienza preliminare [31], governata da una regola di giudizio simmetrica a quella operante nel procedimento di archiviazione [32]. Parallelamente, la prassi ha ritenuto non “pregiudicante” – ancora per [continua ..]


4. Segue. Cognizione in executivis e giudizi di merito

Più pregnanti sono, invece, i riflessi sul terreno dell’imparzialità del controllo giurisdizionale sul titolo esecutivo, per la quale, da tempo, la dottrina rinviene condicio sine qua non nella estraneità del giudice alla pregressa vicenda di merito [56]. Il decisum, calato nell’impianto edificato dalla prassi costituzionale sull’art. 34 c.p.p., offre, in effetti, significativi spunti in detta direzione. Nel disvelare la sostanza di “giudizio” del ricalcolo in executivis della pena “incostituzionale”, eleggendolo a sede pregiudicabile, pone le basi per un primo, fondamentale passo: l’effetto di condizionamento, che fa germinare l’incompatibilità, può scaturire, non solo dall’aver già deciso con l’ordinanza poi annullata dal giudice di legittimità (come nel caso affrontato), ma anche dall’aver compiuto il vaglio contenutistico per eccellenza sull’ipotesi di accusa, pronunciando (o concorrendo a pronunciare) taluna delle sentenze rese nel corso del processo. Vano sarebbe negare, qui, la medesimezza della regiudicanda. Vero è che lo spazio euristico sconta fatalmente le caratteristiche della fase in cui s’innesta (rinvenendo vincoli, più o meno rigidi, nei sintagmi impressi nella pronuncia irrevocabile) e non implica un riesame, in chiave correttiva, dell’opera ricostruttiva compiuta, essendo, piuttosto, volto ad adeguare il quantum al mutato orizzonte edittale; altrettanto vero è, però, che, nei limiti di tale adeguamento, l’organo giudicante «“ritorna” sulla valutazione del fatto illecito, già compiuta in sede di cognizione, occupandosi nuovamente della gravità del reato» ed esercitando «incisivi poteri di merito» [57]. Evidente è, dunque, il (pur circoscritto) sovrapporsi dello scrutinio al pregresso convincimento espresso; il che basta per spargere il seme del pre-iudicium, incrinando la credibilità di chi quel giudizio è chiamato a riformulare. L’esito è, peraltro, agevolmente argomentabile anche dalla precedente declaratoria [58]. In quel caso, anzi, dovendosi ricomporre il reato continuato, l’osmosi tra i due momenti (cognitivo ed esecutivo) raddoppia. Involge, in primis, la verifica di identità del programma criminoso: pur inerendo a un tema rimasto estraneo agli [continua ..]


5. Cataloghi incompleti

Nel plasmare la tavola di siti del pregiudizio e sedi pregiudicate attorno ai concetti di “valutazione contenutistica” e “giudizio di merito”, la sentenza in commento e l’immediato precedente pongono, anche riguardo alla fase esecutiva, il problema – vero e proprio topos della storia “costituzionale” dell’art. 34 c.p.p. [74] – dell’esaustività del relativo catalogo. Discorsi merito causae, nel segmento attuativo del comando, non si esauriscono, in effetti, nell’ap­plicare la disciplina della continuazione (o del concorso formale) e nel rimodulare la pena “incostituzionale”. Il paradigma della modifica quoad poenam, con annesso potere di concedere la sospensione condizionale, è, ad esempio, ravvisabile nei casi di revoca parziale del giudicato per abolitio criminis (art. 673 c.p.p.) o per inosservanza del ne bis in idem (art. 669 c.p.p.), allorché, rimosso il capo di sentenza relativo a taluno dei reati in concorso formale o legati dall’unico disegno criminoso, occorra ricomporre la pena per i rimanenti: qualora l’intervento caducatorio attinga il reato base, la necessità di rideterminare la sanzione residua implica, inevitabilmente, un nuovo esame di merito [75]; analogamente è a dirsi se investa una delle fattispecie satellite e in sentenza non sia stato chiaramente indicato il quantum di ogni singolo aumento (ovvero sia stato apportato un aumento unitario per tutte le ipotesi minori) [76]. Omologhi spazi valutativi si profilano nell’evenienza di cause estintive (artt. 672 e 676 c.p.p.) da applicarsi solo ad alcuni dei reati della serie, con conseguente esigenza di ricostruire il profilo sanzionatorio [77]. Rivisitazioni del trattamento punitivo sono, altresì, ammissibili, secondo un consolidato (seppur non sempre univoco) indirizzo esegetico, quando sia stata irrogata, a causa di un errore protocollare, una pena ab origine illegale o, comunque, frutto di un computo macroscopicamente errato [78]. È, questa, un’autentica manovra correttiva, sintomo, si è detto, della progressiva osmosi tra fase cognitiva ed esecutiva [79], espressione, in ogni caso, del carattere recessivo del giudicato rispetto a valori sovraordinati, quali libertà personale, legalità della pena e finalismo rieducativo [80]. Purché «non sia conseguenza di [continua ..]


6. Prospettive

È indispensabile, allora, un “cambio di passo” esegetico, che induca a rimeditare la ragion d’essere del fenomeno dell’incompatibilità endoprocessuale. La causa della incompletezza dell’art. 34 c.p.p. va, in effetti, identificata proprio nella «fuga dall’in­terpretazione» [98], che ne ha condizionato «tutta la storia futura» [99]. L’inserirsi della norma, nel suo portato testuale, in linea di continuità rispetto alle precedenti esperienze codicistiche, il modellarsi secondo schemi di rigorosa tassatività e il riferimento, in rubrica, a una incompatibilità per «atti» hanno indotto la prassi a porsi nel solco della tradizione, a riprendere indirizzi maturati nella vigenza dell’art. 61 c.p.p. 1930, trascurando di considerare che, rapportata al “modello” inaugurato dalla riforma, avrebbe dovuto ricevere un trattamento ermeneutico differente. È stato il binomio valutazione contenutistica/giudizio di merito, quale chiave di lettura del congegno, a imprimere una sorta di «mutazione cromosomica» [100] nel dna dell’articolo, rendendone irrimediabilmente lacunoso l’elenco e spalancando le porte alla supplenza del giudice delle leggi. Ma, lo si è detto, siffatto binomio non trova spazio nelle cadenze del primo comma, che traccia, invece, un’incompatibilità funzionale insita nell’articolarsi per gradi dell’accertamento, limitata alla pronuncia di «sentenza» solo in ossequio a logiche efficientiste. Analogamente è a dirsi per il terzo comma, che evoca ruoli incompatibili con l’ufficio di giudice in quanto connessi ad antinomiche funzioni esoprocessuali [101]. La medesima ratio, benché in termini più problematici, è ravvisabile pure nel comma 2: in un procedimento scandito da fasi tra loro separate, rispondenti a finalità divergenti, il medesimo giudice-persona fisica non può sommare prerogative proprie di ciascuna di esse senza dismettere la veste di garante che dovrebbe, al contrario, assumere. Che il meccanismo disegnato dall’art. 34 c.p.p. sia intimamente legato alla nozione di “competenza funzionale” è, del resto, assunto condiviso [102]: in un sistema strutturato secondo scelte tendenti a operare fondamentali distinzioni di gradi, fasi e ruoli, il regime [continua ..]


NOTE