Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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La perenzione del processo ratione temporis (di Rosita Del Coco, Professoressa associata di Diritto processuale penale – Università di Teramo)


Innestato per rimediare all’abolizione della prescrizione dopo il primo grado, la nuova improcedibilità per superamento dei termini del giudizio di impugnazione rappresenta un ibrido a cavallo tra sistema sostanziale e processuale. Sul piano sistematico, il prezzo che l’interprete deve pagare per tale incertezza è ovviamente alto, essendo la riflessione ermeneutica troppo spesso costretta a regredire alle preliminari questioni di natura classificatoria. Con il rischio di trascurare una necessaria prospettiva assiologica del processo penale, incentrata sulla preminente esigenza di tutela delle garanzie dell’imputato.

Parole chiave: perenzione del processo – prescrizione del reato – improcedibilità – impugnazioni.

The termination of process ratione temporis

Introduced as a remedy for the abolition of the statute of limitations after the first instance trial, the new “improcedibilità” – that is, the offence becomes statute – barred due to exceeding the time limit for appeals – represents a hybrid of the substantive and procedural systems. Sistematically, the price that the commentator has to pay for such uncertainty is obviously high, hermeneutic reflection being too often forced to regress to preliminary questions of a classificatory nature. This entails the risk of neglecting a necessary axiological perspective of the criminal process, centred on the preeminent need to protect the defendant’s guarantees.

SOMMARIO:

1. O tempora, o mores ... - 2. Frizioni costituzionali - 3. Improcedibilità dell’azione e improcedibilità del processo - 4. Condizioni di procedibilità e “fattore tempo” - 5. Le due anime della improcedibilità temporale - 6. Improcedibilità temporale ed inammissibilità: questione di precedenze - NOTE


1. O tempora, o mores ...

È un dato inconfutabile che nel nostro ordinamento «il tempo delle norme scolpite nel marmo» [1] sia oramai concluso da molti anni. Negli ultimi due decenni, in particolare, un legislatore soverchiamente pressato dall’assillo della celere definizione del processo ha prodotto una normativa eterogenea e frammentaria, prevalentemente tesa ad operare interpolazioni e ritocchi sparsi su singole disposizioni del codice di rito. L’assenza di un disegno organico e sistematico ha acuito le divergenze nell’ambito della riflessione scientifica, soprattutto in ordine ad istituti di nuovo conio. A tali contrasti esegetici non è sfuggita l’inedita sentenza di improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini massimi fissati, con riferimento ai giudizi di impugnazione, dall’art. 344-bis c.p.p. Sebbene rilievi di ordine pratico facciano condivisibilmente preconizzare un uso solo marginale della nuova decisione di rito, i valori implicati e le possibili conseguenze alla stessa connesse hanno tenuto vivo l’interesse speculativo relativamente alle numerose questioni prive di adeguata regolamentazione a livello normativo. Un interesse ulteriormente sollecitato sia dalla «indecorosa origine [dell’istituto] nel nostro ordinamento, che ha visto la politica scendere al suo più basso livello» [2], sia dall’impiego, da parte del legislatore, di categorie, come le condizioni di procedibilità dell’azione, che non sembrano attagliarsi perfettamente alla fenomenologia dell’improcedibilità ratione temporis. Sotto il primo profilo, è ben nota la “storia” della nuova improcedibilità. Essa è nata per assecondare le esigenze di quelle forze politiche che avevano soppresso la prescrizione dopo il primo grado di giudizio e che dovevano coerentemente salvaguardare, almeno sul piano linguistico, tale sciagurata opzione, suscettibile di produrre effetti “perversi” nella sfera giuridica del soggetto destinato a rivestire lo status di imputato per sempre. Di qui, la soluzione compromissoria di ricorrere ad una vera e propria “truffa delle etichette”, che ha trasformato la prescrizione sostanziale in prescrizione processuale, opportunamente riqualificata come improcedibilità, attraverso uno «slittamento metonimico dalla causa all’effetto» [3]. Proprio [continua ..]


2. Frizioni costituzionali

A ben vedere, l’opzione in favore di meccanismi estintivi del processo, collegati al superamento di termini di fase, non rappresenta affatto una soluzione inedita, essendo già stata evocata in passato, ed in più di un’occasione. A frenare ogni iniziativa in tal senso, tuttavia, aveva sinora provveduto il veto opposto da quanti ammonivano in ordine ai rischi di inconciliabilità di modelli fondati sulla prescrizione processuale con il canone di obbligatorietà dell’azione penale, che sottende anche un obbligo di accertamento attraverso il quale si realizza la stessa funzione cognitiva del processo. Se, con riguardo a tale profilo, è possibile condividere l’opinione secondo cui il principio cristallizzato nell’art. 112 Cost. risulta evocabile in sede di impugnazione solo in via indiretta, non si può certo sostenere che la disciplina dell’istituto delineato dall’art. 344-bis c.p.p. abbia dissolto i paventati timori di incostituzionalità, essendo molteplici i profili operativi che prestano il fianco a censure per infedeltà ad importanti principi consacrati al massimo grado della gerarchia delle fonti. Il riferimento è, innanzitutto, al sistema delle proroghe, disposte con ordinanza motivata dall’organo giurisdizionale «quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare». Sebbene sia incontestabile che una simile soluzione fornisca una «risposta coerente al problema dell’eterogeneità del contenzioso» [4], è altrettanto incontrovertibile che la vaghezza dei parametri utilizzati finisca, di fatto, per assegnare al giudice una discrezionalità eccessivamente ampia. Intuibile, infatti, il rischio di inaccettabili tralignamenti verso valutazioni di natura politico-criminale, dal momento che gli effetti della eventuale proroga esulano dalle dinamiche endoprocedimentali, investendo direttamente il potere di punire. Nella medesima prospettiva, poi, risalta come l’indeterminatezza della durata del processo, connessa al meccanismo delle proroghe reiterate, sembra destinata ad affievolire le istanze di accelerazione dei giudizi di impugnazione per talune tipologie di reato normativamente individuate in base al criterio del disvalore della [continua ..]


3. Improcedibilità dell’azione e improcedibilità del processo

Sotto il secondo profilo in precedenza evidenziato, relativo alla formula decisoria indicata nell’art. 344 bis c.p.p., è possibile rilevare l’inadeguatezza del richiamo testuale alle cause che impongono di non proseguire l’azione penale in sede di impugnazione. Come da tempo si è avuto modo di rilevare, infatti, «in un organismo processuale al quale presiede la regola che l’impulso verso il suo epilogo è rimesso, dopo il promovimento dell’azione, essenzialmente al giudice, a un fatto che intervenga nel corso del processo penale quale ostacolo alla sua prosecuzione e, più esattamente, con effetti preclusivi della statuizione del merito non può essere tout court ricollegata una rilevanza in ordine ai poteri dei quali sia titolare l’organo dell’azione» [5]. Così, anche nell’ipotesi di improcedibilità “temporale”, il riferimento all’azione appare destinato ad esibire una evidente improprietà linguistica, rimandando ad atti che nulla hanno a che fare con la decisione di agire in senso stretto, dal momento che gli effetti preclusivi del superamento del termine massimo delle impugnazioni si ripercuotono, comprimendoli, sulla sfera dei poteri decisori del giudice, senza sortire conseguenze di sorta né sull’azione penale propriamente intesa, né sui poteri dei quali sia titolare lo stesso organo dell’azione [6]. Di questa crisi di identità è prova il lapsus calami in cui incorre lo stesso art. 344-bis c.p.p. che consente all’imputato di inibire gli effetti del provvedimento di perenzione chiedendo la prosecuzione del processo, e non dell’azione. Proprio facendo leva su tali considerazioni, appare pienamente da condividere l’opinione di quanti hanno rilevato che la indiscutibile singolarità dell’istituto in esame avrebbe consigliato al legislatore di «non impegnarsi nei dettagli della “causa di improcedibilità” e limitarsi a prescrivere la pronuncia, durante i giudizi di impugnazione, di una sentenza di “non doversi procedere” per consumazione del periodo di tempo concesso» [7]. A ben vedere, il generico riferimento al non doversi procedere è formula idonea a rappresentare il contenuto precettivo di una categoria decisoria che costituisce, tecnicamente, una terza via rispetto alla condanna o [continua ..]


4. Condizioni di procedibilità e “fattore tempo”

Prende forma, così, la natura delle condizioni di procedibilità che, lungi dal risolversi in fatti impeditivi operanti dall’esterno del procedimento, possono venir qualificate alla stregua di presupposti processuali, ossia elementi concorrenti al perfezionamento delle diverse fattispecie progressive che compongono la sequenza procedimentale. Con la precisazione, tuttavia, che esulano dalle condizioni di procedibilità i presupposti del processo, la cui mancanza impedisce all’organo giurisdizionale la pronuncia di qualsiasi tipo di decisione [9]. Così articolate, le condizioni di procedibilità rappresentano elementi interni alla vicenda procedimentale alla cui mancanza l’ordinamento, sulla base di un bilanciamento tra interessi contrapposti, riconnette l’effetto sanzionatorio concretantesi nella preclusione del potere di emettere una decisione sul dovere di punire [10]. Per tale ragione, in dottrina v’è chi ha inquadrato la improcedibilità nel novero delle invalidità, rispetto alla quale sarebbe possibile cogliere «un aspetto negativo, stante nel divieto di statuire nel merito […] e un aspetto positivo, descrivibile in termini di dovere di concludere il processo con una pronuncia di rito contenente l’accertamento della situazione preclusiva della statuizione di merito» [11]. Più precisamente, la fattispecie imperfetta per mancanza di un presupposto preclude il proseguimento dello sviluppo procedimentale e la pronuncia sul dovere di punire. Allo stesso tempo, la fattispecie imperfetta, dal canto suo, si configura come fattispecie sussidiaria idonea a produrre l’effetto consistente nella situazione soggettiva di dovere del giudice di emettere una sentenza di rito conclusiva del processo. Inevitabile corollario di tale ricostruzione è la necessaria priorità di tipo metodologico delle decisioni di rito rispetto alle pronunce riguardanti il merito: il mancato perfezionamento della fattispecie alla quale è collegato, sul piano dello sviluppo procedimentale, il dovere di decidere nel merito rappresenta la premessa normativa che preclude il potere di proseguire la sequenza procedimentale e di emettere la pronuncia sul dovere di punire. Tale rilievo spiega la ragione per la quale, in caso di concorrenza «tra la formula “perché l’azione penale non poteva essere iniziata o [continua ..]


5. Le due anime della improcedibilità temporale

La conclusione appena formulata non vuole certo risolversi in una facile omologazione tra le due fattispecie prescrittive, che risultano connotate da diversa natura ed effetti. E’, tuttavia, impossibile negare che ci troviamo dinanzi a figure difficilmente ascrivibili all’interno di categorie rigidamente tipizzate. La stessa Corte costituzionale, pur riconoscendo la natura sostanziale della prescrizione [14], non ha mancato di rilevare che molteplici sono gli effetti e i profili che risultano attratti alla dimensione processuale [15]. Allo stesso modo, in opposta prospettiva, la natura processuale della nuova improcedibilità [16] non basta a disconoscere la presenza di “geni” anche sostanziali, come si evince, non solo dagli effetti indiretti sulla punibilità, ma anche dalla condivisione, con la prescrizione sostanziale, della medesima ratio ravvisabile nella perdita dell’interesse, da parte dell’ordinamento, alla perseguibilità dei fatti commessi per ragioni attinenti al fattore temporale [17]. Proprio il concetto di perseguibilità sembra sintetizzare le due anime, sostanziale e processuale del­l’istituto in esame, fondendo «in sé tanto la punibilità in astratto (aspetto sostanziale) quanto la punibilità in concreto (aspetto processuale), la quale poggia inevitabilmente sulla procedibilità (e proseguibilità) dell’azione» [18]. In considerazione delle peculiarità evidenziate, non si ravvisano ostacoli ad estendere alla causa temporale di perenzione del processo la qualifica, già riferita alle cause estintive del reato, di «doppiamente funzionali» [19], in quanto fonte di un duplice effetto giuridico concretantesi nel dovere sostanziale di prosciogliere e nel dovere processuale di astenersi dal compimento di attività processuali. In tal senso, il superamento dei termini per il giudizio di impugnazione, per un verso, impone una pronuncia di improcedibilità destinata ad assumere l’efficacia preclusiva del giudicato, tipica delle pronunce di merito. Per l’altro verso, lo stesso incide sulla sequenza procedimentale, inibendo al giudice il compimento di eventuali atti diversi dalla pronuncia terminativa che dichiari l’improcedibilità. Con una precisazione. Gli innegabili effetti sostanziali, e la peculiare morfologia della nuova causa di [continua ..]


6. Improcedibilità temporale ed inammissibilità: questione di precedenze

Le singolari caratteristiche della pronuncia di improcedibilità temporale consentono alcune considerazioni anche sul profilo attinente al rapporto di tale figura con l’inammissibilità dell’impugnazione. Ora, è superfluo rilevare che, di regola, quest’ultima forma di invalidità sia destinata a prevalere su ogni ulteriore valutazione, in quanto idonea ad impedire la valida instaurazione del rapporto processuale. Cionondimeno, non può essere sottovalutato che la preclusione derivante dalla scadenza del termine di fase dell’impugnazione impedisce al giudice ogni forma di giudizio, ivi compreso quello avente ad oggetto la valutazione di inammissibilità. Tale rilievo vale soprattutto nel caso di inammissibilità per genericità o manifesta infondatezza dei motivi di impugnazione, ed in particolare quando quest’ultima venga rilevata dalla Corte di cassazione all’esito di una udienza pubblica partecipata, dopo che il ricorso ha già superato lo screening preliminare. Sebbene la giurisprudenza sia orientata a sostenere che pure la infondatezza dei motivi inibisca la valida instaurazione del rapporto processuale, non è possibile trascurare che il giudizio sui motivi non si sostanzia mai in una mera attività di rilevazione, ma esige, piuttosto, una valutazione che appare qualitativamente simile a quella che involge il giudizio di merito. Con la conseguenza che, in caso di superamento del termine di fase, la perdita di potere dell’organo giurisdizionale preclude a quest’ul­ti­mo il compimento di una valutazione di tal fatta e, conseguentemente, il potere di emettere una decisio­ne di inammissibilità. Il dato normativo offre, peraltro, importanti supporti testuali a sostegno della conclusione patrocinata: il legislatore ha, infatti, inteso regolare il fenomeno estintivo del processo in maniera del tutto autonoma ed indipendente dalla valida instaurazione del giudizio di impugnazione, essendo previsto che il dies a quo per il computo del termine di fase debba essere individuato nel «novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’art. 544, come eventualmente prorogato […] per il deposito della motivazione della sentenza». A ciò si aggiunga che la stessa giurisprudenza di legittimità ha avallato un regime di prevalenza della inammissibilità “a geometria [continua ..]


NOTE