Processo Penale e GiustiziaISSN 2039-4527
G. Giappichelli Editore

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Dalla “Riforma Cartabia” una spinta verso l´efficienza anticognitiva (di Antonino Pulvirenti, Professore associato di Diritto processuale penale – Università Lumsa di Palermo)


Lo scopo dichiarato della “Riforma Cartabia” è l’efficienza del processo penale. L’obiettivo è perseguito, essenzialmente, ampliando il ricorso ai procedimenti alternativi al giudizio ordinario. Così facendo, tuttavia, il legislatore elegge l’efficienza a valore autonomo, dimenticando che essa è solo un criterio di ottimizzazione economica delle risorse strumentali al conseguimento della finalità cognitiva del giudizio penale. C’è da chiedersi, allora, se, dinanzi a tale prospettiva, le Alte Corti sapranno opporsi all’ennesima “deriva inquisitoria” oppure si conformeranno ad essa. D’altro canto, è pur vero che opporsi aprioristicamente a qualsivoglia modifica volta, in un’ottica “compensativa”, a razionalizzare l’esercizio del contraddittorio per la prova, appare anacronistico e controproducente.

Parole chiave: c.d. riforma “Cartabia” – riti alternativi – funzione cognitiva del processo.

From the “Cartabia Reform” a push towards anticognitive efficiency

The declared purpose of the “Cartabia Reform” is the efficiency of the criminal trial. The objective is essentially pursued by expanding the use of alternative procedures to the ordinary judgment. In doing so, however, the legislator elects efficiency as an autonomous value, forgetting that it is only a criterion for the economic optimization of the instrumental resources for achieving the cognitive purpose of the criminal judgment. We must therefore ask ourselves whether, in the face of this prospect, the High Courts will be able to oppose a new “inquisitorial drift” or if they will support it. On the other hand, it is also true that always opposing any change aimed, in a "compensatory" perspective, to rationalize the adversarial exercise for the test, appears anachronistic and counterproductive.

SOMMARIO:

1. La strategia della riforma: potenziare i riti alternativi - 2. Il sacrificio della funzione cognitiva del processo - 3. Alla ricerca della dimensione naturale dell’efficienza - NOTE


1. La strategia della riforma: potenziare i riti alternativi

L’officina legislativa si è rimessa in moto per la realizzazione dell’ennesima riforma del processo penale: dopo poco più di tre anni dalla “Riforma Orlando” e dalla “controriforma Bonafede”, adesso è la volta della “Riforma Cartabia” [1]. Un’iniziativa che risulta, sotto il profilo metodologico, fortemente condizionata da fattori “esogeni”, avendo su di essa «finito per prevalere pesantemente» la politica [2]. La patologia, è evidente, non sta nel (del tutto fisiologico) preventivo confronto tra le forze politiche, quanto nel fatto che il prodotto legislativo sia nato da un esperimento partitico alquanto opinabile, ovverosia quello di mettere insieme ideologie diametralmente contrapposte: da una parte, quelle autoritarie del “governo gialloverde” e, dall’altra, quelle progressiste della Commissione Lattanzi [3]. Da qui, l’inevitabile risultato di una legge dai contenuti eterogenei, riconducibili ora ad un’anima ora all’altra [4]. Al cospetto della “precarietà” del metodo impiegato, la Riforma ha un obiettivo di grande importanza e responsabilità, dipendendo dai suoi risultati la possibilità del nostro Paese di accedere a fondi europei idonei, per le loro dimensioni, a supportare, se ben impiegati, un’evoluzione strutturale dell’amministrazione della giustizia [5]. Ed è forse “figlia” di questa preoccupazione la scelta di inserire direttamente nell’epigrafe della legge «l’efficienza del processo penale» quale scopo dichiarato della riforma [6]. Una scelta che, agli occhi dell’Europa, mette subito in evidenza la serietà dell’impegno assunto dal Governo italiano, ma che, al contempo, sotto il profilo assiologico, suscita qualche perplessità, giacché – come meglio si dirà in seguito – sembra voler promuovere l’idea dell’efficienza come valore in sé. Il timore che la riforma intenda promuovere una vera e propria metamorfosi funzionale del­l’effi­cienza non autorizza, è bene precisarlo, a sottacere il grado di inefficienza che, purtroppo, affligge cronicamente il nostro sistema processuale penale, così come, anche di recente, confermato dalle rilevazioni statistiche della Commissione europea per [continua ..]


2. Il sacrificio della funzione cognitiva del processo

In una più ampia prospettiva di sistema, la “Riforma Cartabia”, promuovendo la giustizia negoziata e comprimendo il controllo di merito delle decisioni adottate con il rito ordinario, mostra di volere eleggere l’efficienza a scopo in sé e sacrificare, sull’altare dei numeri [22], la funzione cognitiva del giudizio penale. L’attenzione, infatti, è concentrata sui risultati che i “tagli” al modello ordinario e alle impugnazioni sono idonei a determinare in termini di “produttività” della giustizia penale, mentre è del tutto trascurata l’esigenza – a lungo evidenziata dalla dottrina – di ristabilire un doveroso connubio tra il patteggiamento e il principio nulla poena sine iudicio [23]. I fattori che hanno reso la decisione del giudice sulla richiesta consensuale di applicazione della pena niente più che un “simulacro” di sentenza sono noti e ben esplorati in letteratura. Ci limitiamo qui a richiamarne i principali: a) accertamento della responsabilità tramite una regola di giudizio strutturata “in negativo”; b) facoltà del giudice di motivare “implicitamente”; c) insindacabilità della motivazione in sede di giudizio di legittimità; d) restrizione dell’ambito applicativo della revisione. Orbene, la l. n. 134/2021, non toccando alcuno di questi punti, sottace il problema e, anzi, estendendo il perimetro delle valutazioni di merito che la sentenza di patteggiamento può contenere (meritevolezza delle misure alternative, applicazione e durata delle pene accessorie, oggetto e durata della confisca facoltativa), ne accentua le dimensioni. Così facendo, la riforma aderisce, sostanzialmente, a quell’impostazione teorica che tende, non tanto a negare, quanto a giustificare il deficit cognitivo derivante dal procedimento ex art. 444 c.p.p., riponendone il fondamento nella libera volontà dell’imputato. Ora, anche ipotizzando, per assurdo, che un tale ragionamento non confligga con la presunzione di non colpevolezza, non v’è chi non veda i limiti di veridicità a cui una giustificazione siffatta va incontro, posto che la disciplina vigente dell’istituto negoziale non assicura affatto che l’imputato, nel momento in cui richiede l’applicazione di una determinata pena concordata con il pubblico ministero, [continua ..]


3. Alla ricerca della dimensione naturale dell’efficienza

Non appare, allora, infondato il pericolo, sopra paventato, che il sistema processuale penale italiano stia andando nella direzione dell’efficienza come (presunto valore di) sistema [27]. L’attenzione del nomoteta è ormai concentrata sui possibili effetti che i “tagli” al giudizio – intervengano essi nella fase dibattimentale o in quella delle impugnazioni – sono idonei a determinare in termini di produttività ed efficienza della giustizia penale, mentre sono sempre più relegate ai margini e tacciate di astrattezza quelle voci che rammentano come tali operazioni “metriche” finiscano per aumentare la spinta anticognitiva del processo, vanificando così la stessa essenza della giurisdizione [28]. Ci allontaniamo sempre più da quella «rivoluzione culturale» degli anni ‘80 che, «interpretando la presunzione di non colpevolezza quale paradigma di sistema», aveva portato al ripudio del modello inquisitorio e alla nascita del primo codice accusatorio [29]. Un codice che nasceva con la pretesa di mettere al centro del processo la giurisdizione e non più l’azione e che, conseguentemente, liberava il ruolo di accertamento del processo da «scopi eterogenei di difesa sociale e di tutela della società» [30]. L’efficienza al centro della giurisdizione ci riporta, invece, all’epoca in cui il processo aveva una funzione securitaria, giacché, in entrambi i casi, si mira al rasserenamento sociale. Siamo in presenza di quella che è stata autorevolmente definita «la terza via», una vera e propria «nuova forma di inquisitorietà» [31]. Il processo da «giardino dei diritti» assume progressivamente le sembianze di un “ufficio di ragioneria” [32]. Il problema, sia ben chiaro, non riguarda l’efficienza in sé e per sé considerata, ma il fine rispetto al quale essa è misurata [33]. L’efficienza «è strutturalmente un concetto di relazione che non può esaurirsi in se stesso o nella sua astratta affermazione, ma si specifica rispetto al fine che si vuole raggiungere» [34]. Il focus, quindi, si sposta sullo scopo che, attraverso il processo efficiente, si vuole raggiungere. Se il fine rimanesse saldamente fissato nella giustizia della decisione (con tutti i [continua ..]


NOTE